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INGHILTERRA
Aprile 1803
Ci sono pochi posti immoti e silenziosi quanto la cucina di un maniero inglese dopo che i domestici si sono ritirati nei loro quartieri per la notte. Ghislaine sedeva sola nell’oscurità fissando il bagliore delle braci dei forni sulla parete, con le mani piccole ma forti abbandonate in grembo. La grande sedia sembrava rimpicciolire ancora di più il suo corpo minuto, ma il personale di cucina si guardava bene dal suggerirle di cambiarla. Quella sedia aveva lo scopo di farla stare comoda e il benessere della cuoca personale francese di lady Ellen Fitzwater era cosa della massima importanza. Anche se di lei non si sapeva nulla. Non importava che fosse in rapporti così amichevoli con l’anticonformista padrona di casa e che mantenesse le distanze da tutti coloro che svolgevano la loro attività al piano inferiore. Lo staff di Ainsley Hall rispettava le gerarchie più delle Sacre Scritture e Ghislaine era una leader indiscussa.
Non importava nemmeno che, apparentemente, non avesse un cognome. I domestici la chiamavano Mam’zelle e tenevano per sé le proprie opinioni sul suo passato. Non doveva avere più di trent’anni e sembrava anche molto più giovane con la sua corporatura sottile, quasi da ragazzo, i grandi occhi scuri e i lineamenti che in un’altra donna si sarebbero potuti definire da elfo, sotto la massa di capelli castani legati sulla nuca.
Ma nessuno avrebbe potuto dire che Mam’zelle sembrava un elfo. Non quando un lieve sorriso le sfiorava la bocca. Non quando i suoi occhi castano scuro suggerivano tragedie che i domestici potevano solo immaginare. Non quando riservava un’espressione di gioia e di affetto al cucciolo nero che dormiva placidamente ai suoi piedi accanto all’enorme sedia.
Ghislaine sapeva che cosa pensavano di lei e ne era contenta, poiché non aveva altro nella vita. I domestici erano diffidenti, sospettosi e gelosi. Ma non le auguravano del male e questo le bastava. Appoggiò la testa allo schienale e sentì la tensione dei muscoli, ma era incapace di allentarla. Nell’ultimo anno era stata più vicina di quanto avesse mai osato sperare a una sensazione di pace. L’Inghilterra era il paradiso, la cucina di Ainsley Hall un rifugio sicuro dove tutto era ordinato e previsto, le salse non impazzivano mai, gli arrosti non bruciavano, le persone non erano mai torturate, massacrate e…
Scosse il capo tendendo l’orecchio al silenzio che la circondava. Se almeno il destino non ci avesse messo mano ancora una volta! Pensava di meritare la pace duramente conquistata. Eppure per anni aveva pregato per una cosa sola. Non per la felicità, non per l’amore, non per le comodità o per l’amicizia.
Aveva pregato per la vendetta. E allora, che diritto aveva di lamentarsi se il destino aveva finalmente risposto alle sue preghiere?
Ainsley Hall aveva ventisette camere da letto, una sala da ballo, sei salotti di varie ampiezze e per varie occasioni, quattro sale da pranzo, tre stanze di servizio, dodici sale da intrattenimento con passatempi diversi, e le cucine. In una di quelle ventisette camere da letto dormiva l’uomo che Ghislaine aveva giurato di uccidere.
Sarebbe stato semplice trovare la sua camera e andare da lui con uno dei coltelli della cucina. Sapeva come squartare montoni e tagliare quarti di bue; aveva braccia sufficientemente muscolose. Certo non sarebbe stato più faticoso infilzare un uomo vivo, solo perché respirava. Un taglio alla giugulare e avrebbe realizzato l’aspirazione della sua vita.
Ma lei non chiacchierava con le cameriere e non stava con loro nel locale dove giocavano a carte, flirtavano e facevano congetture sui padroni. E poiché in quel momento ad Ainsley non c’era nessuno se non i domestici e quell’unico ospite indesiderato, Ghislaine non poteva girare molto nei piani superiori per cercare la sua vittima. E c’era la possibilità che lui la riconoscesse anche dopo tutti quegli anni.
Ma era quasi sicura di non poter far parte che di un ricordo lontano. Le vite rovinate non significavano molto per un uomo come il suo nemico. Probabilmente lei era solo una di una lunga serie.
Si domandò che cosa avrebbe pensato Ellen quando avesse saputo che il suo disprezzato cugino era stato sgozzato e che la sua cuoca era la responsabile dell’omicidio. Ghislaine scosse il capo e pensò con distacco che il progetto architettato era impraticabile e che avrebbe dovuto trovare un modo più pulito di affrontare il problema. Se almeno avesse saputo per quanto tempo lui intendeva rimanere! Non voleva lanciarsi in qualcosa senza riflettere.
Lady Ellen Fitzwater aveva lasciato Ainsley Hall il giorno in cui il nemico di Ghislaine era arrivato, vittima di quelle strane convenzioni di cui gli inglesi andavano fieri. Anche se protetta da Miss Binnerston, la sua dama di compagnia mezzo sorda, Ellen non poteva risiedere, sia pur in una casa enorme come Ainsley Hall, con un lontano parente scapolo dalla dubbia reputazione come Nicholas Blackthorne. Così aveva levato le tende borbottando. Ghislaine era stata pronta ad accompagnarla finché non aveva saputo il nome dell’uomo.
«Dannazione a mio cugino!» aveva esclamato Ellen con i dolci occhi azzurri colmi di indignazione. Le piaceva imprecare e benché lo facesse quanto più poteva, le parole non avevano il suono giusto sulle sue labbra gentili. Aveva cercato di convincere Ghislaine a istruirla nel francese più volgare, ma senza successo.
«Perché te la prendi con tuo cugino?» aveva chiesto Ghislaine pochi momenti prima che la sua illusione di pace crollasse. «Se non lo vuoi qui digli semplicemente che non può venire.»
«È già qui. Inoltre, una donna nubile non ha molta voce in capitolo in faccende di questo tipo. Anche se Ainsley Hall è la mia residenza, appartiene a mio fratello Carmichael finché non sarò sposata. Se rimarrò nubile passerà alla sua prole; se mi sposerò, apparterrà a mio marito. Nel frattempo sono fortunata perché posso risiedere qui con Binnie. Se il prezzo che devo pagare per questo lusso è levare le tende ogni volta che qualche lontano parente balordo si presenta, ebbene, pago questo prezzo volentieri.»
«Volentieri no di certo» aveva osservato Ghislaine.
«No, non volentieri» aveva ammesso Ellen. «Se almeno non si fosse trattato di Nicholas Blackthorne! La più nera delle pecore nere, l’unica persona che può compromettere ogni donna dai sei ai sessant’anni che abbia la disavventura di trovarsi nella sua stessa contea! Un individuo depravato, dissoluto, cinico, miserabile, che mi costringe ad andarmene dalla mia… Stai bene, Gilly?» aveva concluso in tono preoccupato.
Ghislaine si era lasciata cadere bruscamente su una sedia. «Sto bene, grazie» aveva detto debolmente. «Ma dimmi di tuo cugino.»
«Cielo, la maggior parte della sua reputazione è così orribile che non ne conosco la metà. Lui è l’ultimo dei pazzi Blackthorne, il ramo settentrionale della famiglia, ed è un poco di buono. Freddo, egocentrico e incredibilmente malvagio. Se almeno non fosse mio cugino.»
Ghislaine aveva tentato di imbastire una conversazione disinvolta. «Perché? Ti mette forse in imbarazzo?»
«Cielo, no! Perché è un noto seduttore e così dannatamente attraente che non mi sarebbe importato… be’, suppongo che mi sarebbe importato. È vero che le canaglie sono irresistibili, ma non credo sia molto riposante passare la vita con loro. Di sicuro non con Nicholas. Malgrado la sua bella faccia c’è qualcosa di… inquietante nei suoi occhi. Non pare anche a te?»
«Non l’ho mai visto» aveva detto debolmente Ghislaine con le mani strette sotto il grande grembiule bianco. Ellen non aveva motivo di credere che mentisse.
«Certo che non l’hai mai visto. E non lo vedrai neppure questa volta. È arrivato un paio d’ore fa, ubriaco fradicio, e adesso sta russando alquanto rumorosamente in una delle camere da letto. Noi semplicemente ce ne andremo e aspetteremo di sapere che è partito per il continente.»
«Perché va nel continente? Non è un po’ troppo adulto per il Grand Tour?»
«Buon Dio, sì! Nicky è indipendente da una decina d’anni» aveva risposto Ellen. «Ma ora credo sia coinvolto in un nuovo scandalo. Nella sua lettera, Carmichael ha scritto che ha ferito in duello il marito di una donna con cui aveva una relazione. Se l’uomo vive, Nicky può tornare in città, se vuole. Se muore deve fuggire in Francia.»
«Francia…»
«Nicky ha sempre avuto una certa affinità con la Francia. E, almeno nell’immediato futuro, non dovremmo essere in guerra. Non fare quella faccia, Gilly. So che sei sensibile, ma non devi innervosirti ogni volta che si nomina quello sciocco Paese. Non dovrai più tornarci. Lo giuro. Lascia che Nicky ci vada e può darsi che faccia la fine che merita. La ghigliottina è ancora in uso, vero?»
Con gli occhi della mente, Ghislaine aveva rivisto il luccichio della lama, udito l’improvviso urlo della folla, risentito la propria debolezza mentre lottava, come sempre, contro il terrore. «Sì, a quanto ne so» aveva risposto, desiderando nel fondo del cuore che la testa bruna e ricciuta di Nicholas finisse nella cesta intrisa di sangue che ne aveva accolte tante altre.
«Fortunatamente non ho molta esperienza di ubriachi. Non so quando si sveglierà e comincerà a fare domande. Meglio che ce ne andiamo subito. Quel suo odioso valletto provvederà alle sue necessità.» Ellen si era alzata facendo ondeggiare la gonna gialla e Ghislaine l’aveva guardata, senza emozione ma consapevole che quella era l’ultima volta che vedeva la sua benefattrice.
Ellen vestiva male e ignorava gli occasionali suggerimenti pieni di tatto di Ghislaine. Era piuttosto formosa e tendeva a esagerare negli ornamenti. Due nastri erano sempre meglio di uno, tre balze sempre meglio di due, le tinte vivaci sempre meglio di quelle pastello, che avrebbero fatto risaltare il suo colorito rosato. Era stato il suo obiettivo segreto a obbligare Ghislaine a far tacere il suo innato buon gusto francese. Per un anno i suoi suggerimenti erano caduti in orecchie sorde e adesso era troppo tardi.
«Io non vengo» aveva detto.
Ellen aveva battuto le palpebre sugli occhi di smalto azzurro. «Non essere assurda. Certo che verrai. So che ti rifiuti di accompagnarmi ai ricevimenti, ma questo è diverso. Ci rifugeremo da Carmichael nel Somerset mentre Nicky riorganizza la sua vita. Un po’ di paesaggio agreste ci farà solo bene. Inoltre, hai promesso di insegnarmi a cucinare.»
«Non questa volta» era stata la replica di Ghislaine nel suo tono freddo dal lieve accento francese. Parlava l’inglese da quando, a nove anni, aveva avuto come istitutrice una gentildonna inglese decaduta, e il suo accento era impeccabile. Eccetto quando parlava con i domestici.
Nessuna delle due donne trovava strano che la cuoca rifiutasse un ordine della padrona. «Ma perché Gilly? Mi sentirò così sola lassù!»
«Binnie ti terrà compagnia.»
«Binnie è una sciocca. Ma perché vuoi rimanere qui? Probabilmente Nicky passerà tutto il suo tempo in gozzoviglie e i tuoi manicaretti andranno sprecati.» Gli occhi di Ellen si erano riempiti di lacrime.
«Quando ho acconsentito ad accompagnarti qui avevi promesso che avresti accettato le mie condizioni» aveva detto Ghislaine con dolcezza. «Ti avevo detto che non potevo essere per te una sorella, un’amica, una confidente. Ho accettato di venire in Inghilterra solo come tua serva o non sarei venuta.»
«Ma Gilly…!»
«Rimarrò qui in cucina, che è il mio posto» aveva detto Ghislaine alzandosi. E aveva preso le morbide mani di Ellen nelle sue, piccole e forti. «Sono sicura che riuscirò a preparare qualcosa di adatto a Nicholas Blackthorne.»
Benché emozionata, lady Ellen non era stupida. A voce bassa aveva chiesto: «Me ne vuoi parlare?»
Ghislaine non aveva finto di aver frainteso. Glielo doveva. «Non in questa vita» aveva risposto in tono deciso.
Meno di otto ore dopo che Ellen era partita, la vita ad Ainsley Hall continuava come al solito anche senza di lei. Wilkins, il maggiordomo, e Mrs Rafferty, la governante, provvedevano alla conduzione del maniero. Avevano negoziato una specie di patto con Ghislaine poco tempo dopo il suo arrivo, entrambi riconoscendo un avversario invincibile quando lo incontravano.
A Nicholas Blackthorne era stato servito un pasto che era tornato intatto. Ghislaine aveva ispezionato il vassoio senza emozione ma ora, mentre sedeva sola nella vasta cucina, sentì una traccia di qualcosa simile all’irritazione.
All’improvviso le fu chiara una cosa. Non avrebbe massacrato Nicholas nel suo letto, anche se lo meritava. C’erano troppe complicazioni, non ultima la consapevolezza che non avrebbe avuto lo stomaco necessario, malgrado avesse desiderato la vendetta per tanto tempo.
Poteva solo sperare che l’appetito dell’uomo, passata la sbornia, migliorasse. Perché lei aveva intenzione di avvelenarlo e poi rimanere accanto a lui per vederlo morire.
Udì dei passi decisi attraversare la dispensa e avvicinarsi, ma rimase seduta, immobile, sopraffatta dal panico. Non riconosceva quei passi.
Per sopravvivere aveva dovuto imparare molte cose. Tanto tempo prima aveva imparato che per salvarsi doveva essere consapevole di ciò e di chi aveva intorno. Conosceva il modo di muoversi di tutti i sessantatré membri dello staff interno ed esterno di Ainsley Hall, inclusi i membri della famiglia di Ellen che di tanto in tanto venivano in visita. L’uomo che si stava avvicinando al suo dominio le era sconosciuto.
Il cucciolo, Charbon, percepì il suo panico e abbaiò forte quando lei si alzò di scatto dalla sedia. Aveva in mano il coltello che usava per il montone, ed era immersa nell’ombra quando l’uomo entrò.
Stringeva l’impugnatura di legno così forte da avere la mano intorpidita. La figura che si stagliava sulla soglia era più bassa e più robusta di quanto ricordasse. E i capelli erano decisamente più radi.
Quando l’uomo parlò lei si rese conto di aver sbagliato. Un gentiluomo non entrava mai in una cucina. Mandava sempre un domestico.
«C’è buio qui» osservò l’uomo.
Lentamente, Ghislaine abbassò il coltello e si avvicinò alle candele di sego, a buon mercato, considerate sufficienti per la cucina, e le accese una per una illuminando il tetro locale. Sapeva che l’uomo la stava osservando e pur non percependo alcuna ostilità sentì la sua riserva. Quello era l’uomo che lei doveva circuire se voleva che Nicholas Blackthorne avesse il destino che meritava.
Dopo avergli consentito di osservarla a sufficienza, Ghislaine si voltò. «Voi dovete essere Mam’zelle» disse lui. Non aveva l’aspetto dei valletti che avevano sempre invaso la sua cucina. Era un uomo duro, più maturo, sembrava un individuo da taverna, non il domestico di un gentiluomo.
«Sì» rispose lei.
«Il mio padrone ha fame.»
«Davvero?» Lei pensò al vassoio intatto. O lui aveva smaltito la sbronza e gli era venuta fame o era di nuovo tanto ubriaco da non sapere che cosa voleva. Ma non aveva importanza. Era contenta che fosse pronto a mangiare quanto lei gli avrebbe preparato.
«Va bene una colazione fredda. Carne, formaggio, magari torta di mele se ne avete una pronta. E dov’è che lady Ellen tiene il brandy da queste parti?
«Non ne tiene.»
«Merda» disse l’uomo.
«Lady Ellen ha un’ottima cantina di vini, ma non ha brandy.»
«Voi cucinate col brandy, vero?»
«Certamente.»
«Mandate quello di sopra. O meglio, portatelo voi stessa. Il mio padrone non crede che lady Ellen abbia un cuoco femmina.»
Ghislaine si sentì gelare. Disse a se stessa che lui non l’avrebbe riconosciuta. Erano passati quasi tredici anni da quando le aveva messo gli occhi addosso. Tredici anni prima, quando lei era una ragazzina magra e fragile e lui un giovane che cercava il piacere e nient’altro. Non avrebbe ricordato.
«Avete frainteso. Io non sono una domestica. Ne abbiamo almeno sette che sarebbero ben felici di portare il vassoio al vostro padrone, mister…?»
«Chiamatemi semplicemente Taverner» rispose l’uomo. «E non credo che al mio padrone interessino le domestiche in questo momento, anche se non posso garantire per il futuro. Gli interessa solo vedere la cuoca di lady Ellen e il mio dovere è soddisfare i suoi capricci. In questo momento il suo capriccio siete voi, Mam’zelle. Perciò aspetto.»
Lei aprì la bocca per continuare la discussione, poi la richiuse bruscamente. Se avesse continuato a sprecare il fiato forse avrebbe suscitato sospetti. Perciò fece una riverenza scherzosa dicendo: «Sissignore». L’uomo la guardò perplesso.
«Siete diversa da tutte le serve che ho incontrato.»
«Perché non sono una serva. Sono una cuoca.»
«I cuochi sono maschi.»
«Io no.»
«L’ho notato» disse l’altro con un’occhiata di traverso e Ghislaine sentì una morsa di panico allo stomaco. Se quel rozzo servitore era un esempio dei progressi del suo padrone, evidentemente Blackthorne era andato di male in peggio.
Ghislaine cominciò a preparare un piatto di carne fredda e formaggi. Lavorava con le mani e la sua mente pensava ad altro. «Non assomigliate affatto ai valletti che di solito vengono ad Ainsley Hall.»
Taverner rise. «Potete scommetterci. Al mio padrone non importa un fico di essere servito in modo raffinato. Non è uno dei vostri elegantoni. Ha bisogno di qualcuno che gli guardi le spalle quando serve, qualcuno che sappia come affrontare una scazzottata. Qualcuno che non tema i guai.»
«Ci si mette spesso nei guai?» chiese lei freddamente. Non c’era possibilità di nascondere tra le pieghe della gonna un coltello da macellaio se l’uomo voleva che reggesse anche il vassoio, cosa probabile.
«Potete ben dirlo» rispose Taverner con un ghigno che mise in mostra diversi denti scuri.
«E voi lo tirate fuori.» Ghislaine prese il suo mazzo di chiavi e aprì lo sportello del mobile in cui teneva gli alcolici. C’erano due bottiglie: una del miglior cognac francese e l’altra di un brandy comune per cucinare. Prese quello comune e lo mise sul vassoio.
«Diavolo, no. Lui riesce a tirarsi fuori da quasi tutti i pasticci da solo. Io mi assicuro solo che non lo pugnalino alle spalle.»
«Sembra una vita molto complicata per un gentiluomo» commentò lei. E aggiunse: «Immagino di doverlo portare io il vassoio. O sbaglio?».
«Immaginate giusto. Andiamo, Mam’zelle. Il mio padrone non vuole certo mangiarvi.»
Lei sollevò il vassoio dicendo: «Non gli piacerebbe il sapore».
Poi seguì Taverner lungo i corridoi illuminati dalle candele, con passi silenziosi sui tappeti che coprivano il pavimento.
«Sapete, non mi sembrate proprio francese» disse l’uomo all’improvviso fermandosi davanti al salottino delle signore.
Ghislaine si sentì gelare. Solo la forza di volontà le impediva di far tremare il vassoio che teneva in mano; solo la forza di volontà le permetteva di non mostrare il panico sul viso. Guardò la faccia da furetto di Taverner, i suoi denti neri, e gli disse ciò che pensava di lui nel francese della malavita, che aveva imparato nei bassifondi di Parigi.
Taverner sembrò impressionato. «Sì, questo sembra proprio francese. Non ci ho mai capito niente.» Si fermarono davanti a un uscio. Taverner l’aprì e Ghislaine si rese conto con orrore che per qualche ragione Nicholas Blackthorne aveva preso alloggio nel salotto di lady Ellen.
Non aveva scelta. Non poteva correre via senza attirare l’attenzione, cosa che voleva assolutamente evitare. Avrebbe dovuto tenere la testa bassa, la lingua tra i denti e sperare che lui non la ricordasse.
Per un momento, Ghislaine credette che il salotto fosse vuoto. Il solo chiarore proveniva dalle fiamme nel camino e malgrado le pareti fossero tappezzate di seta chiara, la stanza era completamente in ombra.
«Dovresti imparare il francese, Tavvy» disse una voce. «Rimarresti ancora più impressionato. Lei ha detto che sei il figlio di una scimmia in calore, che ti mancano alcune parti degli attributi maschili e che dovresti mangiare gli escrementi di un asino.»
Ghislaine lasciò andare il vassoio.
Per fortuna Taverner stava per toglierglielo di mano, convinto di essere il solo degno di servire il suo padrone. Così il vassoio non cadde. Lei era immobile sulla soglia. Sapeva di avere la luce alle spalle e quindi il viso era ancora più in ombra. Taverner le girò intorno con un grugnito di disapprovazione.
Blackthorne era allungato sulla dormeuse rosa ricamata a piccolo punto di lady Ellen. Gli stivali impolverati avevano già sporcato il tessuto delicato ed era evidente che non aveva intenzione di toglierli, malgrado la sporcizia raccolta nella stalla. L’uomo aveva le gambe molto lunghe e lei non poteva averlo dimenticato. Era già molto alto quando aveva ventidue anni e gli uomini non si accorciano maturando. Anche i suoi calzoni erano impolverati e aderivano alle cosce snelle. Si era tolto la giacca e la camicia bianca era aperta sul collo, aveva le maniche rimboccate e i lunghi capelli ricciuti gli incorniciavano il volto.
Lei lo esaminò con attenzione ma attenta a non guardarlo negli occhi. Doveva avere ormai trentacinque anni e anche se il suo corpo non presentava certo i segni della mezza età, lei sperava che il diavolo gli avesse segnato il viso che un tempo era bellissimo.
In effetti l’età e i vizi lo avevano segnato. Avevano trasformato un giovane di una bellezza quasi ultraterrena in un angelo caduto, un uomo con un potere d’attrazione che sbalordì Ghislaine. Eppure avrebbe scommesso la vita che mai e poi mai avrebbe subito il fascino di un uomo. E certamente non di quello, che aveva fatto assassinare la sua famiglia e le aveva rovinato la vita.
A vent’anni, i suoi lineamenti erano belli e delicati, mentre ora erano decisi e taglienti. Gli zigomi alti, gli occhi azzurri e profondi, il naso forte erano gli stessi, eppure diversi. Attorno agli occhi ipnotici come allora vi erano rughe sottili, non dovute al riso ma alla dissolutezza. Altre rughe erano evidenti agli angoli della bocca. Ed era chiaro che non si rasava da un paio di giorni. I lunghi capelli neri erano arruffati, molto diversi da quelli ben pettinati degli uomini della famiglia di Ellen, e il suo atteggiamento era indolente, insolente e lievemente minaccioso. Da molto tempo Ghislaine non si trovava accanto a quell’uomo pericoloso, ma avrebbe preferito che di tempo ne fosse passato ancora di più.
«Avete soddisfatto la vostra curiosità, Mam’zelle?» domandò lui con un lieve sorriso sulla faccia altezzosa e dissoluta.
Ghislaine non voleva mostrargli quanto la sua presenza la disturbasse. «Sissignore» rispose senza muoversi dalla sua posizione in ombra presso la porta.
«Invece io non ho ancora potuto vedere la cuoca francese della mia seconda cugina Ellen. Avvicinatevi.»
Lei mantenne l’espressione impassibile anche se in realtà era presa dal panico. Facendo appello al suo coraggio fece qualche passo avanti, nella luce soffusa, e si lasciò guardare.
Non voleva e non poteva incontrare il suo sguardo. Teneva le mani intrecciate davanti a sé e fissava il fuoco mentre lo sguardo di lui percorreva il suo corpo sottile. Con un po’ di fortuna non si sarebbe accorto del lieve tremito che non riusciva a controllare. Con un po’ di fortuna non si sarebbe accorto delle sue spalle contratte e dell’odio del suo cuore.
«Non la definirei un diamante della migliore acqua, vero Tavvy?» disse lui in tono annoiato.
Continuando a darsi da fare con il vassoio, Taverner rispose: «No, sir. Non mi pare di aver sentito che fosse speciale. C’è una cameriera del piano superiore di nome Betsy; quella sì che è un bel bocconcino…»
«Non credo che m’interessi. Ma tuttavia in questa c’è qualcosa. Non lo credi anche tu?»
Ghislaine strinse i denti, incapace di muoversi mentre i due uomini parlavano di lei.
«Non saprei, sir. Non è il mio tipo. Mi piacciono con più carne sulle ossa. Un abbraccio morbido in una notte fredda è quello che serve.»
«Lo penso anch’io» disse il padrone e lei capì dal suono della voce che si stava alzando dal suo elegante giaciglio. Poi le si avvicinò. «Ma questa ha qualcosa…» Le sollevò il mento e le voltò il viso verso il suo con la sua grande mano. Ma la lasciò cadere subito con una risata stupita e si scostò. «Quanta rabbia, Mam’zelle» le disse piano, in francese. «Che odio. Davvero mi stupite.»
Lei non voleva parlare in francese con lui. Non voleva guardarlo né respirare la stessa aria che respirava lui. Se l’avesse toccata di nuovo, Ghislaine avrebbe preso il coltello che aveva messo sul vassoio e glielo avrebbe conficcato nel cuore.
«Posso andare, sir?» chiese piano, con gli occhi bassi.
«Certo. Non mi va di portarmi a letto una femmina in collera. Almeno non stasera.»
La sua risposta la sorprese tanto da costringerla a guardarlo, a bocca aperta. C’era un’espressione meditabonda nei suoi occhi profondi, che la disturbò quasi di più del suo tocco.
«Monsieur si sbaglia. Io sono una cuoca, non una sgualdrina.»
E senza aspettare la sua risposta o il permesso di congedarsi, girò sui tacchi e uscì chiudendosi in silenzio l’uscio alle spalle. Il percorso verso la cucina fu lungo, ma lei si muoveva con passo deciso, lottando contro il desiderio di correre forte, come se la sua vita dipendesse dal suo autocontrollo.
“Non sono una sgualdrina” aveva detto all’uomo che l’aveva fatta diventare tale. E lei sapeva che il nuovo giorno che stava per arrivare per lui sarebbe stato l’ultimo.