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Nicholas aveva ventidue anni quando andò per la prima volta in Borgogna. Era già vecchio per il Grand Tour, troppo adulto per avere un professore squattrinato che lo portasse in giro per fargli da guida. Così il suo obiettivo principale durante il viaggio nel continente era fare il più grande putiferio possibile.

Era stato espulso da Cambridge, naturalmente. Aveva impiegato la maggior parte degli ultimi tre anni per raggiungere lo scopo, ma alla fine c’era riuscito mandando alle ortiche la costosa educazione che gli aveva pagato quel severo ufficiale che era suo padre.

Il problema era che lui aveva scoperto di amare lo studio. Era stato sul punto di compiere una disastrosa fuga, cosa che l’avrebbe rovinato per sempre, quando qualcosa aveva suscitato i suoi interessi. Che erano molto estesi.

Aveva studiato i più recenti metodi di agricoltura; le proprietà dei circuiti elettrici e il funzionamento del corpo umano. Si era immerso nel greco e nel latino, negli studi della guerra, nella filosofia di Socrate e di Platone. Era persino rimasto sedotto dal funzionamento del sistema giudiziario, prima che si risvegliasse in lui la consapevolezza di quello che era l’obiettivo della sua vita.

L’obiettivo era umiliare suo padre. Quel padre che l’aveva sottomesso e ignorato, che gli aveva voltato le spalle quando l’adorato figlio primogenito e l’amata moglie erano morti. Niente di quanto aveva fatto Nicholas era stato abbastanza, nessun tentativo di conquistare il suo amore o almeno la sua approvazione aveva avuto successo. A un certo punto il ragazzo aveva smesso di provarci e aveva deciso che se era condannato alla disapprovazione del genitore avrebbe fatto il possibile per meritarla.

Non che la vita del padre fosse sempre stata immacolata. Nel sangue dei Blackthorne circolava la follia e Jepthah Blackthorne, nella sua ansia di apparire immune dall’instabilità della famiglia, aveva portato all’eccesso il suo comportamento irreprensibile. E Nicholas si era ribellato gettandogli in faccia la torbida storia della famiglia in ogni occasione finché, vicino alla laurea, aveva fatto la sua mossa: una zuffa in stato di ubriachezza seguita da un’orrenda scena nell’antica, tradizionale, silenziosa biblioteca, seguita ancora dalla rovina di un solenne servizio religioso in chiesa. Così Nicholas Blackthorne era stato sbattuto fuori con ignominia.

Non era ubriaco come aveva finto di essere, ma solo quel tanto che bastava per avere il coraggio di combinare quei disastri. Ricordava le espressioni sbalordite dei suoi coetanei, per esempio quella del suo secondo cugino Carmichael Fitzwater e di quel pigro bellimbusto di Antony Wilton-Greening. E aveva visto la faccia inorridita del padre che imprecava contro di lui prima di crollare sulla sua scrivania.

Quella sera, mentre osservava il genitore che, steso nel letto, si sforzava di respirare, non aveva provato alcuna sensazione di trionfo. Il dottore aveva detto che era una questione di tempo. Un altro colpo apoplettico l’avrebbe portato via e se il figlio non si fosse tolto di torno, quel colpo sarebbe arrivato ancora più presto.

Tuttavia, Nicholas non si era sentito colpevole. Assolutamente no, si era detto mentre osservava il padre lottare per la vita. Avrebbe preferito rimanere al suo capezzale e vederlo morire, non fosse stato per l’inappellabile decisione di suo zio Teasdale.

Il fratello maggiore di sua madre era uno scapolo dai gusti raffinati e dal carattere molto tollerante. Nicholas aveva sempre desiderato che suo padre fosse Teasdale, invece di quel rigido, miserabile vecchio che aveva reso la sua vita un tormento. In quel caso forse l’oscurità non si sarebbe impadronita della sua anima. Ma il sangue non mente. E quello tarato dei matti Blackthorne scorreva denso e funesto nelle sue vene.

Ma persino il tollerante Teasdale aveva mandato via l’involontario parricida. Aveva spedito Nicholas a fare il Grand Tour con più denaro del necessario proveniente dal suo conto privato, con la raccomandazione di tornare con il carattere di un uomo. Pronto ad assumersi delle responsabilità.

E lui si era trastullato nei bordelli di Parigi, si era innamorato di Venezia, era rimasto stregato da Roma e si era mosso nel fermento politico dell’Europa di quegli anni rimanendo totalmente assorbito dai propri piaceri. A un certo punto si era sentito pronto a tornare a casa, pronto a fare la pace con il padre che, contro tutte le previsioni, si stava riprendendo. Ma proprio in quel momento aveva commesso il più grande errore della sua vita già cosparsa di errori.

Suo zio Teasdale aveva parlato di responsabilità. Un gesto di responsabilità consisteva nel fare una visita di cortesia ai suoi padrini in Borgogna, che non aveva mai conosciuto. Il conte e la contessa de Lorgny erano amici di sua madre, il loro ruolo di padrino e madrina era solo una formalità. Ma le formalità portano ad altre formalità e lui non poteva recarsi in alcun luogo dei dintorni senza visitarli ed essere costretto a passare diverse notti nel loro castello.

Per una volta si era comportato nel migliore dei modi. Il lungo distacco dal padre e le ombre dell’infanzia gli avevano fatto desiderare di essere un uomo nuovo e lui faceva del suo meglio per agire come tale. Era educato e rispettoso con il vecchio conte, simpatico con la sua piccola moglie che sembrava un uccellino, fraterno con il ragazzo, Charles-Louis.

Ma era la figlia che lo disturbava. Aveva un nome strano, Ghislaine, e gli occhi grandi e fiduciosi. Il suo corpo era quasi come quello di un ragazzo, con i seni che cominciavano a sbocciare sotto il corpetto dell’abito. I suoi gesti rapidi e leggeri, la magia della sua risata, la sua grazia pura e innocente gli facevano fremere il cuore. E i lombi.

Nicholas aveva portato a letto innumerevoli donne durante il suo soggiorno nel continente. Serve di locande e aristocratiche, cameriere e duchesse. Aveva avuto esperienze con molte femmine consenzienti. Non aveva dubbi sul suo fascino. Sapeva di avere un suo stile particolare, una certa combinazione armoniosa di lineamenti gradevoli e prestanza fisica che le donne trovavano attraente. E aveva scoperto in se stesso un certo pericoloso charme che lo rendeva volubile.

Ma aveva sempre avuto a che fare con donne esperte. Più grandi di lui, con seni procaci, donne molto sensuali, con avidi appetiti e abilità sofisticate. Da loro aveva imparato molto e si era molto divertito.

Non era mai stato attratto da qualcuna che fosse poco più di una bambina. Qualcuna che si trovava ancora sulla soglia della femminilità. Il suo desiderio per lei lo disgustava, ma a mano a mano che il tempo passava e i tre giorni diventavano settimane, quel desiderio cresceva fino a diventare un’ossessione.

Aveva immaginato che lei non se ne rendesse conto. Era troppo giovane, troppo innocente per capire che cosa si svolgeva nella sua mente di satiro ogni qualvolta lei gli prendeva la mano, gli sorrideva, lo baciava sulla guancia e lasciava dietro di sé un delicato profumo.

Sarebbe potuto andare avanti per sempre. O almeno finché lei non fosse stata abbastanza grande, se il destino non avesse cospirato per cambiargli la vita. Per distruggere il giusto miglioramento che aveva compiuto, facendolo ricadere nel buio e nella disperazione. Nell’inferno.

Aveva capito che cosa conteneva la lettera con la grafia di suo zio Teasdale non appena l’aveva ricevuta. Teasdale non avrebbe mai scritto se non si fosse trattato di vita o di morte. Si trattava della seconda.

Sir Jepthah Blackthorne aveva ceduto a un nuovo attacco apoplettico. Teasdale non gli aveva dato particolari, ma Nicholas poteva immaginarli. Probabilmente era morto lamentandosi che il suo nome e le sue proprietà finissero a un essere inutile e instabile come il suo unico figlio vivente. Probabilmente l’aveva maledetto con l’ultimo respiro senza sapere che il giovane aveva fatto i primi passi sulla via della redenzione.

Nicholas era seduto nei giardini di Sans Doute, l’elegante casa di campagna dei suoi padrini, e accartocciava la lettera nella mano. Aveva un curioso bruciore agli occhi che aveva attribuito alla forte luce del sole. Sentiva la stessa pena in mezzo al petto e l’attribuiva all’aver bevuto un po’ troppo porto con il padrino la sera prima. Sedeva da solo, quando aveva cominciato a percepire i primi sintomi della rabbia crescergli dentro.

Era stato in quel momento che il padrino l’aveva visto. Il conte de Lorgny era un uomo gentile, ma non si lasciava facilmente trascinare dalla sensibilità o dall’introspezione. E in quel momento aveva altre cose cui pensare, la più importante delle quali era chiedere un grande favore al suo simpatico figlioccio.

«Notizie da casa?» aveva chiesto sedendosi accanto a Nicholas sulla panchina di marmo.

Nicholas aveva messo la lettera in tasca dicendo con indifferenza: «Niente d’importante. Pare che debba tornare in Inghilterra domani».

La faccia tonda del conte era leggermente impallidita. «Allora forse questo è un buon momento per parlare un poco.»

Nicholas aveva impiegato un momento per uscire dalla sua furente astrazione. «Parlare un poco?»

«Sì. Del futuro.»

«Con tutto il rispetto, non sapevo che il nostro futuro fosse in qualche modo connesso.»

Il conte de Lorgny si era schiarito la gola e aveva l’aria molto infelice. «Non ancora. Ma se lo permetti vorrei spiegarti alcune cose. Posso?»

In quel momento a Nicholas non interessava alcuna spiegazione. Pensava a come tornare in Inghilterra nel modo più rapido. E a ciò che avrebbe trovato laggiù. Ma annuì prestando scarsissima attenzione ai discorsi del conte sulla instabile condizione della Francia, sulle rivolte dei contadini, sulla situazione drammatica di Parigi.

«Non che pensi che succederà qualcosa di grave» si era affrettato ad aggiungere. «La Francia è in piedi da più di mille anni. La plebaglia non potrà mai distruggerla. Ciononostante, sono preoccupato. Molto preoccupato.»

Nicholas aveva emesso un vago mormorio. Pensava di acquistare un passaggio su una delle navi mercantili che trasportavano merce, legale e illegale, da Calais a Dover. Era più che esperto nel chiudere un occhio davanti a una cassa di brandy. Di sicuro sarebbe riuscito a trovare un passaggio.

«Così ti sarei grato se portassi con te Ghislaine» stava dicendo il vecchio.

Per un momento Nicholas aveva dimenticato il contrabbando per guardare sbalordito il padrino. «Che cosa?»

«Vorrei che portassi Ghislaine in Inghilterra con te. Sono riuscito a trovare una via di fuga per Madeleine e Charles-Louis, se fosse necessario. Ma c’è posto solo per tre, non per quattro. E non partiremo senza sapere che Ghislaine è al sicuro.»

Nicholas non riusciva a capire bene di che cosa parlasse il vecchio. «Al sicuro? Di che diavolo state parlando?»

Il conte aveva sussultato. Un po’ seccamente aveva detto: «Parlo della situazione politica. Non hai sentito ciò che ho detto? È molto incerta. Se le cose continuano così saremo più sicuri se lasceremo la Francia per un po’ di tempo.»

«E allora lasciatela.»

«Non è così semplice. Certo se partissimo adesso potremmo farlo tutti insieme. Ma io non sono pronto. Ho degli investimenti, ho degli impegni…»

«In altre parole, niente contanti.»

De Lorgny era trasalito. «Di sicuro non usi mezzi termini. Ma sì, devo liquidare dei capitali per poter vivere con un certo agio finché questa brutta situazione non migliora. Ma mi preoccupa dover rimanere ancora a lungo. Dovremmo usufruire dell’unico mezzo disponibile, che non è adatto per una giovane donna, manca lo spazio. Perciò chiedo a te, come amico e gentiluomo, di condurre Ghislaine in Inghilterra.»

«No» aveva risposto seccamente Nicholas.

De Lorgny non era più pallido. Era rosso di rabbia. «No? Semplicemente così? Tu non puoi…»

«Certo che posso. Sapete benissimo che cosa significhi portarla con me. Dovrei sposarla.»

Le parole erano cadute nel silenzio di quel dorato pomeriggio d’autunno. «Forse mi sono sbagliato» aveva detto de Lorgny. «Avevo pensato che ci fosse… un sentimento di tenerezza nel tuo cuore per mia figlia. Un certo…»

«Vi sbagliate. Il sentimento di tenerezza è da parte di vostra figlia, non dalla mia. È una bambina. Non porto a letto le bambine io, né le sposo. Dovrete pensare a un’altra soluzione.»

Per un attimo, de Lorgny non si era mosso. «Non posso farti cambiare idea?»

«Non potete.»

«Allora è meglio che tu te ne vada. Subito.»

Nicholas era riuscito a fare un civile cenno di saluto, poi aveva voltato le spalle all’amareggiato vecchio. Proprio in quel momento l’aveva vista.

Doveva aver udito quasi tutto quanto si erano detti: la richiesta del padre di portarla con lui. Il suo rifiuto. L’essere stata respinta.

Ghislaine non sembrava affatto una bambina. Era pallida, con due chiazze rosse di emozione sugli zigomi. Aveva gli occhi scuri che risaltavano nel viso pallido e la sua bocca grande, che sapeva sorridere in modo così affascinante, era cinerea e tremante. L’aveva guardato e nei suoi occhi si leggevano amore, disperazione e odio. Stava per voltarle le spalle sapendo che non l’avrebbe vista mai più. E non l’aveva mai desiderata tanto.

 

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Ghislaine sedeva in cucina, il cane nero acciambellato pacificamente sotto la sua sedia, i piccoli piedi uniti, le mani intrecciate in grembo. Presto o tardi avrebbe avuto un’altra occasione e la prossima volta non avrebbe dovuto fare errori. Il primo tentativo era stato abbastanza difficile. Le tremavano le mani quando aveva messo il veleno per i topi nel cibo, le gocciolava il sudore dalla fronte, e una delle serve aveva avuto il coraggio di chiederle se si sentiva poco bene.

Lei aveva risposto con l’abituale freddezza, corrugando la fronte e nascondendo le mani tremanti ai testimoni presenti in cucina. Avrebbe dovuto sentirsi soddisfatta. L’uomo che aveva distrutto la sua famiglia stava morendo per mano sua. Non sarebbe più stata una vittima, ma una vincente, che aveva afferrato la vendetta per la gola e l’aveva scossa fino alla sottomissione. Quegli ipnotici occhi azzurro scuro si sarebbero chiusi per sempre, quel corpo aitante sarebbe stato esanime e freddo. Sarebbe morto come tutti coloro che lei aveva amato. Sarebbe finito dov’era giusto che finisse.

Ma non aveva funzionato come aveva sperato. L’uomo aveva sofferto per due giorni e due notti, poi, accidenti a lui, era guarito. Anche se era ancora debole, appena in grado di sopportare qualche cucchiaiata di brodo e pane tostato che gli preparava il suo orribile valletto, era riuscito a beffare la morte. Per il momento.

Ma Ghislaine era certa che le si sarebbe presentata un’altra occasione. E la prossima volta non avrebbe fatto errori. Avrebbe messo nel cibo veleno sufficiente per ammazzare un cavallo. E l’effetto sarebbe stato più rapido, anche se quell’uomo non meritava alcuna pietà. Dopo di che, lei avrebbe potuto mangiare il suo stesso cibo avvelenato o accettare la forca.

Sbagliava pensando che tutti coloro che amava erano morti. Lei amava Ellen, che avrebbe sofferto per l’inevitabile scandalo. Se ci fosse stato un modo per risparmiarle il dolore lo avrebbe adottato, ma l’unico modo era abbandonare il suo piano di vendetta, e non poteva farlo.

Forse, una volta sicura della morte di Nicholas, sarebbe potuta fuggire, sparire. C’erano molti laghi e stagni nelle vicinanze e l’oceano era a un solo giorno di cammino. Sperava soltanto che nessuno avrebbe trovato il suo corpo. Voleva sparire e basta.

Avrebbe scelto il momento giusto. Nell’attesa, sarebbe stata paziente e determinata. Non doveva avere tentennamenti. Qualora ne avesse avuti avrebbe dovuto ricordare i suoi familiari, piccoli esseri piegati su se stessi, patetici. E molto, molto coraggiosi quando erano saliti sul patibolo per incontrare Madame La Guillotine. E soprattutto avrebbe ricordato il suo fratellino.

 

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Il primo anno dopo il ritorno in Inghilterra, Nicholas l’aveva sognata spesso. All’arrivo del giorno bandiva la sua presenza. Ma la notte, nel sonno, lei tornava a ossessionarlo con il suo corpo sottile, la sua risata argentina, le mani delicate e l’espressione allegra. E lui temeva di aver fatto un terribile errore.

In Francia, la situazione da brutta era diventata pessima, ma Nicholas cercava di convincersi che il conte de Lorgny era troppo accorto per aver aspettato tanto a lungo. Di sicuro aveva preso famiglia e risparmi e aveva lasciato la Francia. Magari aveva fatto sposare la figlia a qualche straniero benestante. Del resto, come lui aveva detto al conte, non era una sua responsabilità. Non era senso di colpa quello che aveva sentito quando gli era giunta la notizia che il re era stato arrestato mentre tentava di lasciare il Paese, che in Francia c’era la rivoluzione e che la ghigliottina aveva cominciato il suo sinistro lavoro.

Suo padre gli aveva lasciato molto meno di quanto Nicholas si fosse aspettato. Le proprietà erano gravate da ipoteche, cadevano in rovina e non c’era denaro per restaurarle. Lui aveva fatto ciò che qualsiasi gentiluomo di buonsenso avrebbe fatto, si era rivolto ai tavoli da gioco. A volte aveva perso, ma di solito vinceva. Dopo una sera particolarmente fortunata, suo zio Teasdale l’aveva raggiunto al club mentre centellinava un ultimo brandy prima di tornare fra le decrepite mura della casa di città lasciatagli dal padre. Di solito, lui ascoltava le notizie provenienti dalla Francia con orecchio distratto preferendo ignorare la pessima situazione di quel Paese e dei suoi abitanti. Ma quella sera era destino che le cose andassero diversamente.

«Credo che ti interessi saperlo» aveva detto Teasdale sistemando la sua sagoma massiccia sulla poltrona di fronte a Nicholas e ordinando con un cenno un brandy per sé.

«Probabilmente no. Quando qualcuno pensa che dovrei sapere qualcosa, di solito si tratta di cose spiacevoli» aveva detto Nicholas in tono indifferente. «Comunque, cosa pensi che dovrei sapere?»

«I tuoi padrini si chiamavano de Lorgny, mi pare. Non eri da loro quando è morto tuo padre?»

Nicholas faceva girare il brandy nel bicchiere. Non si era fermato, ma aveva continuato a farlo con gli occhi fissi sul liquido ambrato. «Sì, ero da loro. Che cosa devi dirmi?» aveva chiesto pur sapendo già la risposta.

«Sono finiti sotto la ghigliottina. Tutta la famiglia, a quanto ne so; anche i bambini. Bastardi incivili.» Dopo una pausa lo zio aveva aggiunto: «Sporca plebaglia, fare la guerra ai bambini».

Nicholas aveva continuato a far girare il brandy. «Ma è sicuro?» aveva chiesto in tono volutamente indifferente. «Anche i figli?»

«C’è sempre un dubbio. Sai bene che laggiù regna il caos. Ma le mie fonti, accidenti a loro, sono attendibili. Che cosa orrenda. Tu eri affezionato ai de Lorgny, vero?»

Nicholas aveva alzato la testa e guardato la faccia florida dello zio e il suo enorme panciotto. Era abituato alla sensazione di vuoto che aveva in quel momento e a nascondere ciò che non voleva far vedere agli altri. «Li ricordo appena» aveva risposto. «Ma ora dimmi, hai intenzione di partecipare alla campagna per sostenere Chesterton?»

Teasdale l’aveva fissato per un lungo momento con una strana espressione. Come se non credesse alle proprie orecchie. «In un certo senso non ne ho il cuore» aveva detto con tristezza e aveva bevuto il suo brandy. Poi, appoggiato il bicchiere con un piccolo rumore secco, aveva chiesto: «Non avevano anche una figlia?».

Nicholas aveva scosso le spalle. «Può darsi. Ora che ci penso credo che ne avessero una. Poco più che adolescente. Si chiamava Giselle, o qualcosa del genere.» I suoi occhi avevano incontrato quelli dello zio e aveva capito di non averlo ingannato. Teasdale lo conosceva meglio di quanto lui conoscesse se stesso. «Ghislaine. Si chiama Ghislaine» aveva detto.

«Si chiamava» l’aveva corretto lo zio alzandosi dalla poltrona. «Vado in campagna. Queste cose influiscono sul cuore di una persona. Puoi venire con me ad Amberfields.»

«Ti ringrazio, ma no, zio. Non vedo l’ora di occuparmi di Chesterton.»

Teasdale l’aveva guardato ancora per un attimo, poi aveva scosso la testa. «Come vuoi, ragazzo mio.» E se n’era andato.

Nicholas l’aveva seguito con lo sguardo finché non l’aveva visto più. Fuori dalla finestra, la notte era buia e silenziosa e lui aveva pensato che sarebbe stata una fortuna se gli altri membri del club si fossero mantenuti alla larga. Non sarebbe stato una buona compagnia.

Era passato del tempo e nessuno gli si era avvicinato. Il suo pessimo umore era leggendario e Teasdale doveva aver avvertito tutti prima di andarsene. Finalmente, quando l’alba cominciava a striare di luce le strade della città, Nicholas aveva deciso di tornare a casa. E si era guardato le mani con espressione assorta.

Il bicchiere del brandy era in frantumi e le schegge di vetro gli si erano conficcate nella pelle. In parte il sangue sulle dita si era già asciugato, in parte era gocciolato sul pavimento accanto a lui.

Si era alzato in piedi strofinando via i frammenti di vetro e aveva perso un po’ di tempo a togliersi le schegge più grandi. Poi si era fasciato la mano con il fazzoletto ed era uscito nella luce del primo mattino.

Una settimana dopo aveva ucciso per la prima volta un uomo in duello. Suo zio Teasdale era morto nel corso dell’anno, ma nemmeno la sua eredità aveva aiutato molto a sistemare la situazione finanziaria di Nicholas. Aveva venduto ciò che poteva, aveva lasciato marcire il resto ed era tornato ai tavoli da gioco come per vendetta.

A sprofondare all’inferno aveva impiegato molto più tempo di quanto avesse immaginato, considerando l’accanimento con cui si era dedicato a quell’obiettivo. Nemmeno la bottiglia gli aveva fornito l’oblio che cercava e spogliare giovani uomini delle loro fortune aveva cominciato a non essere più divertente. In particolare perché non barava e le sue vittime erano incalliti giocatori d’azzardo.

Aveva quasi sperato che Jason Hargrove mettesse una pietosa fine alla sua esistenza. Nicholas non era veramente attratto da quell’avida ninfomane di sua moglie, ma di rado respingeva un invito a letto se la donna era sposata, ricca e bella. Poi il duello. Quando, dopo il primo sparo a vuoto, si era inchinato, aveva capito che l’uomo non avrebbe accettato le sue implicite scuse.

Se almeno Hargrove non fosse stato un così terribile tiratore. Nicholas voleva senz’altro morire, ma che fosse dannato se intendeva stare fermo nel gelo del primo mattino mentre un pazzo sparava a casaccio su di lui. Finalmente aveva interrotto quella farsa e probabilmente anche la vita di Hargrove. E poi aveva levato le tende, quando l’istinto di conservazione, soffocato tanto a lungo, era riemerso.

E adesso era lì e c’era qualcuno deciso a farlo fuori. La natura umana era strana, pensò rifiutando l’aiuto di Tavvy a vestirsi. Si può anche desiderare che la propria insopportabile vita finisca, ma doveva accadere come voleva lui. Di sicuro non sarebbe rimasto seduto mentre un’insignificante avvelenatrice lo faceva fuori.

La porta della camera da letto si aprì. Naturalmente Tavvy non bussava mai. «Siete sicuro di essere pronto?» gli chiese in tono di disapprovazione. «Non siete ancora abbastanza in forma.»

Nicholas fece un gesto vago con la mano. «Sto benissimo. Almeno, abbastanza per sopportare la cuoca, se è davvero lei Lucrezia Borgia. Non riesco ancora a immaginare perché mi voglia uccidere.»

«Trovare delle persone che vogliano uccidervi non è certo un problema, Blackthorne. Il difficile è trovare qualcuno che non voglia uccidervi» disse Taverner.

La cosa lo divertì e ammise: «Non ho condotto una vita esemplare, in verità. Ero più che pronto a farla finita finché non è successo questo».

Taverner commentò con sarcasmo: «Di sicuro non vorrete cogliere l’occasione e mangiare quello che lei vi metterà davanti.»

«Una settimana fa l’avrei fatto. Ma adesso mi è tornato l’interesse per la vita. È incredibile: sapere che qualcuno vuole ucciderti ti dà un nuovo desiderio di vivere.»

«Può darsi» rispose il valletto, ma a Nicholas non sfuggì l’ombra preoccupata nei suoi occhi neri. «Devo dirle di portare il vassoio?»

«Sì» rispose Nicholas e sorridendo si passò una mano sui capelli. «Sono pronto a ricevere visite.»