10
Dopo un giorno e una notte di viaggio, mentre la decrepita carrozza divorava la strada, Nicholas pensò che Ghislaine era una femmina davvero sorprendente. Qualsiasi fatica dovesse sopportare non si lamentava né implorava e nemmeno barattava. Viaggiavano dalla mattina del giorno prima, quando lui l’aveva sollevata da quel groviglio di passeggeri della diligenza rovesciata. Aveva visto quella donna enorme caderle addosso e aveva temuto che Ghislaine non fosse sopravvissuta. Ma lei era emersa, furente ma incolume, senza che la sua tempra formidabile fosse rimasta scossa.
Si erano fermati innumerevoli volte per cambiare i cavalli, per mangiare, per motivi igienici, e lui l’aveva lasciata quasi sempre con le mani legate, consentendole solo una breve illusione di privacy. Era rimasta seduta in un angolo, sballottata dal movimento della carrozza, e non aveva mai proferito una parola di protesta. Nicholas sapeva quanto stava scomoda, anche lui aveva le ossa rotte e gli sembrava che qualcuno gli tirasse i muscoli in ogni direzione. La ragazza doveva sentirsi ancora peggio senza nemmeno le braccia libere su cui appoggiarsi ogni volta che il veicolo incontrava una buca.
Ma non aveva mai detto niente limitandosi, di tanto in tanto, a lanciare un’occhiata nella sua direzione. Aveva dormito per tutta la notte, poi un sobbalzo l’aveva svegliata e quando lui, la mattina, l’aveva aiutata a scendere dalla carrozza, gli era quasi crollata fra le braccia.
Era riuscita a raddrizzarsi quasi subito, barcollando appena. Lui aveva ammirato la sua determinazione; non abbastanza per liberarle i polsi legati con la migliore delle sue cravatte di seta, ma abbastanza per dire a Tavvy di fare più fermate di quante ne avrebbe ritenute strettamente necessarie.
Adesso era di nuovo buio e dalla tensione attorno alla sua bocca, dal pallore del viso, Nicholas pensò che lei si fosse ormai convinta che avrebbero passato un’altra nottata in viaggio. Non sapeva che avevano passato il confine da ore e che non erano lontani dal padiglione di caccia. Non lontani da un camino acceso, da un letto e dalla fine di un viaggio su una carrozza traballante.
Ma non volle dirglielo, perché facendolo le avrebbe risvegliato la speranza e offerto un motivo in più per indurla a lottare. E Ghislaine aveva già abbastanza violenza dentro di sé. Lui aveva fatto il possibile per demoralizzarla, ma lei aveva rifiutato di arrendersi. Si ripromise di domarla definitivamente non appena fossero giunti al padiglione di caccia, anche se una parte di lui detestava doverlo fare. Non voleva vederla distrutta, umiliata, ma non sapeva il perché. Non poteva essere per un’emozione dell’anima, quali la pietà o la carità. E nemmeno per un senso di possesso.
In verità non riusciva nemmeno a immaginarla umiliata, ma sapeva che era una sciocchezza. Non c’era uomo al mondo che lui non potesse distruggere, se si metteva in testa di farlo, e nemmeno donna, anche se fiera e determinata come Ghislaine de Lorgny. Umiliarla sarebbe stato un gioco da ragazzi. Sì, l’avrebbe fatto non appena si fosse liberato da ogni stupido scrupolo.
Naturalmente l’avrebbe portata a letto. Lei avrebbe lottato come un gatto selvatico, cosa che già faceva non appena lui la toccava. Ma faceva anche le fusa. Nella profondità dei suoi magnifici occhi scuri aveva scorto un’espressione metà eccitata, metà stupita e aveva capito che avrebbe potuto averla. E sapeva che la lotta, alla fine, l’avrebbe lasciata ansante, senza fiato, tra le sue braccia.
L’idea gli piaceva, gli piaceva moltissimo. Non era mai stato tanto interessato a una donna, o a qualsiasi altra cosa che fosse in grado di ricordare. La piccola, sanguinaria Ghislaine eccitava il suo temperamento, il suo interesse, il suo corpo in modo eccessivo. Quasi gli dispiaceva trasformarla in una femmina da dimenticare.
Quasi era la parola esatta. L’aveva ossessionato per tredici anni, e il destino di lei era stato la causa del suo senso di colpa. Quando avesse finito con lei era sicuro che sarebbe sparita dalla sua coscienza, per la prima volta dopo tanti anni. Si domandò se gli sarebbe mancata.
Erano passati circa venticinque anni dalla prima volta che si era avventurato in Scozia. Allora era un ragazzino con dei sogni sul futuro. Non c’era più tornato, perché nella sua vita non c’era posto per soggiorni in campagna o gite per andare a pescare. Ma durante quel lungo, scomodo viaggio verso nord che stava facendo, si era accorto che non vedeva l’ora di essere in Scozia, anche in quella imprevedibile stagione che era la primavera. A intervalli regolari, suo zio Teasdale sosteneva che la vita di campagna faceva bene a tutti. Forse si sarebbe sistemato lassù, se la sarebbe presa comoda con l’indomabile Ghislaine e non sarebbe tornato in città che in autunno. Gli piaceva la campagna attorno alla villa di suo padre nel distretto dei laghi. La gloriosa fioritura dei meli, il sapore della panna fresca e del miele, il verde delle colline e l’azzurro dei laghi. Questa volta sarebbe andato a pescare. La gente non andava forse in Scozia apposta? Non aveva più praticato quello sport da quando era stato là, ma ricordava ancora l’emozione per aver catturato un salmone di cinque libbre nel fiume. E com’era buono, cotto alla brace, dal vecchio Ben, lo stalliere che era anche la sua guardia del corpo, il suo custode, il suo solo amico finché una febbre maligna non se l’era portato via.
«Come ve la cavate con il salmone? Lo avete mai cucinato?» le chiese all’improvviso.
Lei alzò la testa, lo sguardo sorpreso. «Certo. Posso cucinare tutto.» Non era una spacconata, era troppo debole per questo. Era una semplice informazione.
«In mattinata ne pescherò uno. Se promettete di non avvelenarlo. Sarebbe un vero crimine avvelenare un salmone scozzese.»
«In mattinata?» chiese lei, debolmente.
Era l’alba. La carrozza cominciò a rallentare e Nicholas guardò fuori dal finestrino la campagna che conosceva. Vide in lontananza il padiglione di caccia e malgrado non ci fosse ancora molta luce capì che in tutti quegli anni non era certo migliorato. Parte del tetto aveva ceduto ed era sicuro che varie specie di selvaggina avevano invaso la vecchia costruzione. Sperava solo che fossero commestibili. Tavvy era molto bravo a catturare animali ed era affamato.
«In caso non ve ne siate accorta, ma belle, siamo arrivati. Il viaggio è finito.»
Si aspettava qualche segno di entusiasmo, ma non ne notò alcuno. Solo un aumento di diffidenza. Probabilmente ne aveva motivo, pensò. Forse intuiva che non aveva su di lei progetti di natura elevata.
«E dopo?» chiese Ghislaine con voce piatta, senza emozione. Nicholas si domandò che cosa le fosse accaduto in tutti gli anni persi, che lei aveva detto di aver passato in convento. Che cosa le aveva insegnato a nascondere i suoi sentimenti, le sue reazioni, ad affrontare e accettare il mondo con gli occhi spenti?
«Dopo?» ripeté lui. «Dopo, mia cara, mi cucinerete il pranzo. Qualcosa di appetitoso. Sono assolutamente affamato.»
«Non avete un cuoco?»
«Guardate dal finestrino la nostra destinazione. Vi accorgerete che la mia casetta di caccia ha il tetto malandato e manca di domestici. Se vogliamo mangiare oggi dovrete improvvisare qualcosa. Credo che preferirei persino il veleno ai tentativi culinari di Tavvy. Almeno dal sapore il vostro cibo non sembra che voglia uccidere, anche se il suo effetto è letale.»
Ghislaine guardò dal finestrino la costruzione malandata mentre Taverner fermava i cavalli presi a nolo. Se era angosciata riuscì a nasconderlo, come faceva in tante altre occasioni. «E con che cosa dovrei preparare da mangiare?» chiese seccamente e lui capì con sollievo che l’avrebbe fatto.
«Abbiamo alcuni prodotti basilari come farina, zucchero, caffè e brandy. Probabilmente Tavvy riuscirà a procurarci qualcosa di fresco. Per il resto conto sulla vostra abilità. I francesi sono pieni di risorse.
«Lo sapete anche voi?» disse lei guardandogli la gola con un interesse che suggeriva intenzioni pericolose.
Senza attendere che Tavvy balzasse sbuffando giù dalla carrozza, Blackthorne scese a terra. L’aria era fredda e umida e vedeva il fiato tramutarsi in vapore a ogni respiro. Si rese conto che soffriva il freddo da ore, ma se ne stava accorgendo solo in quel momento.
Si voltò per aiutare Ghislaine e la vide in piedi sulla carrozza, con le mani ancora legate davanti a sé e gli occhi fissi sulla casa in rovina. «È proprio il luogo dove mi aspettavo che viveste» disse seccamente.
Lui sperò che nello scendere cadesse, ma rimase deluso. Sapeva di poterle mettere le mani addosso quando voleva, perché non c’era nessuno che potesse fermarlo, ma preferiva aspettare e pregustare il momento fatale.
Il padiglione era appartenuto a suo padre, ultimo residuo di un’eredità sperperata. Nessuno dei Blackthorne aveva amato molto la Scozia, a eccezione di lui stesso, e per un momento provò un dolore sincero per lo stato miserevole del vecchio edificio che gli era caro. Ma lo superò subito, sicuro che Tavvy l’avrebbe reso abitabile; riusciva a farlo con qualsiasi squallido buco.
L’interno del padiglione era ancora peggiore di quanto l’esterno avesse lasciato immaginare. L’ingresso principale era senza il tetto e pieno di detriti provenienti dal bosco che circondava la proprietà. Capì che il responsabile del disastro era stato un incendio. La parte posteriore dell’edificio era in condizioni migliori. Due stanze non erano state raggiunte dal fuoco, anche se non era chiaro in quali condizioni fosse il grande camino. Una stanza era stata usata come ripostiglio, l’altra era una camera da letto. Ghislaine e Tavvy erano fermi al fianco di Nicholas e fissavano sgomenti la scena.
«Sembra che abbiamo un bel lavoro da fare» annunciò Blackthorne. «Ma procediamo con ordine. Tavvy, cerca qualcosa da mangiare. Un coniglio, delle quaglie, qualsiasi cosa che ci possa riempire la pancia. C’è una fattoria in cima alla collina più vicina. Forse riesci a trovare uova, latte, persino del burro. Non si può mai sapere che cosa riesca a fare una cuoca con queste meraviglie.»
Tavvy annuì. «Vado dopo aver scaricato i bagagli. Volete che li porti in camera?»
«Sembra la più abitabile» rispose Nicholas guardandosi intorno. Il letto era mezzo sfondato e il camino era pieno di detriti.
«E Mam’zelle?»
Nicholas lo guardò con un blando sorriso. «Starà qui anche lei.»
Se la sua risposta la disturbò, Ghislaine si sforzò di non darlo a vedere. «Se mi liberate le mani posso andare a esaminare la cucina» disse.
«La cucina era nella parte ovest della casa ed stata completamente distrutta. Dovrete arrangiarvi con questo camino. Ammesso che non sia otturato da nidi di uccelli o altro.»
«Capisco» rispose lei allungando pazientemente i polsi.
Tavvy era già uscito dalla stanza lasciandoli soli nella luce fosca. «Mi domando se slegarvi non sia troppo pericoloso» osservò lui pensosamente, senza muoversi.
«Non posso farvi da serva con le mani legate» disse lei con la voce tesa.
«Ma non potete nemmeno pugnalarmi alle spalle» precisò Blackthorne.
Ghislaine fece un piccolo verso gutturale, poi lasciò cadere le braccia dicendo solo: «Come volete».
Lui le prese le mani, contento di avere una scusa per toccarla e per sentirla sussultare nervosamente al contatto con le proprie, sapendo che non era solo per paura o per odio. «Immagino che sia una perdita di tempo chiedervi di darmi la vostra parola d’onore.»
«Dipende da che cosa chiedete.»
«Che non tentiate di uccidermi stanotte. È una piccola richiesta e anche una creatura assetata di sangue come voi desidera di sicuro un buon pasto e una notte di sonno.»
«E posso essere certa che mi sarà concessa una buona notte di sonno?» chiese lei fissando ostinatamente il letto.
«Naturalmente» rispose Nicholas senza esitare. L’avrebbe sfinita tanto da farla dormire per giorni.
Ghislaine non gli credette, ma annuì dicendo: «E va bene. Allora vi do la mia parola».
Aveva ancora i polsi legati. Lui le strinse le mani, gelate e inerti fra le sue. «Perché dovrei credervi?» disse, ma era una scusa per non lasciarla.
«Perché, contrariamente a voi, io ho il senso dell’onore. Se vi do la mia parola la mantengo.»
Le credeva. Molte donne che conosceva non davano importanza all’onore o alla verità, ma lui già sapeva che Ghislaine aveva poco in comune con le vedove consolabili e le allegre compagnie che soleva frequentare. Anche a quindici anni la ragazzina era già fuori dalla norma e avrebbe dovuto immaginare che sarebbe diventata una creatura straordinaria.
Le sciolse i polsi e si mise in tasca la cravatta per usi futuri. «Cercate qualcosa da mangiare mentre accendo il fuoco» le disse.
Scettica, Ghislaine gli voltò le spalle e lui dovette ammirare la sua inconsapevole grazia, benché fosse infagottata negli abiti troppo larghi della cugina Ellen. Pensò per un attimo che sarebbe stata ancora più aggraziata senza di essi e si ripromise di accertarsene. Aveva accantonato quel piacere troppo a lungo e la serva della locanda non aveva saziato il suo appetito sessuale, anzi, lo aveva accresciuto.
Ma al momento doveva concentrarsi nell’impresa di aumentare la temperatura della stanza. Se voleva svestire Ghislaine, e aveva intenzione di farlo, doveva esserci abbastanza caldo perché lei potesse godere e perché lui potesse farla godere.

Il calore del fuoco riuscì a raggiungere il centro della grande camera, ma non a scaldarla davvero. Ghislaine si era meravigliata che un dissoluto buono a nulla come Blackthorne fosse riuscito a fare una cosa tanto pratica come accendere un camino, ma l’aveva fatto. E aveva anche rimosso il vecchio nido che ostruiva la canna fumaria. Poi aveva trascinato il letto nel centro del locale disturbando un nido di topolini. Non c’erano lenzuola, ma lui aveva preso i plaid della carrozza e li aveva stesi sulle fodere dei materassi. Lei notò che aveva usato tutti i plaid per un letto solo e si domandò come avrebbero dormito. Di sicuro non aveva intenzione di far coricare tutti e tre insieme, anche se era l’unico modo per star caldi e al sicuro. O forse no, rifletté pensando ai racconti delle donne più esperte di lei che aveva incontrato a Parigi.
Era stato necessario tutto il suo autocontrollo per non scappare quando lui l’aveva lasciata sola nella stanza, circondata dal più deprimente assortimento di generi alimentari. Ma aveva dato la sua parola e anche se lui non si aspettava che fosse una donna d’onore, lei voleva esserlo per se stessa. Tanto più adesso che aveva capito quanto lui apprezzasse quella caratteristica.
Blackthorne era persino riuscito a trovare una scopa in qualche parte della casa, ma quando aveva cominciato a usarla si era alzata una nuvola di polvere che minacciava di posarsi sul cibo che lei stava preparando. A quel punto gli tolse la scopa di mano e lo obbligò a sedersi di fronte al camino. Il gesto le provocò una tardiva disperazione. Com’era facile cedere, ricadere in situazioni concilianti, dimenticare la propria determinazione e la cattiveria di un uomo.
Taverner era migliore di quanto Ghislaine avesse creduto. Era tornato con burro, uova, panna densa e una grossa fetta di formaggio stagionato. Mentre i due uomini si davano da fare nell’altra stanza, Ghislaine fece cose incredibili: una crema arricchita con mele appassite del raccolto dell’anno prima, una sostanziosa, rustica omelette con patate e avanzi di bacon e un meraviglioso caffè. Lei amava bere il caffè alla fine di ogni pasto. Era l’unico piacere che le era restato nella vita e godeva nel sentirne l’aroma mentre lo preparava sul fuoco.
Poiché il tavolo aveva solo tre gambe solide aveva dovuto appoggiarlo al muro. Poi riempì i piatti di cibo, le tazze con il caffè e si sedette in attesa.
Non si aspettava complimenti e non ne ricevette. Nicholas si lasciò cadere su una sedia che era troppo malridotta per essere trattata senza riguardo, allungò le mani e prese il piatto di lei scambiandolo con il proprio. «Non avete obiezioni, vero?» chiese con falsa galanteria.
«No di certo» mormorò lei.
Taverner assistette a questa schermaglia con il suo sguardo astuto. «Forse è meglio che prendiate il mio. Lei è una furbona. Ecco cos’è Mam’zelle.»
«Se volete, posso mangiare il pasto di tutti» si offrì Ghislaine con falsa dolcezza. «Sono affamata e si raffredda tutto mentre voi discutete. Decidetevi e lasciatemi mangiare in pace.»
Nicholas si appoggiò allo schienale della sedia. «Questa sì che è una provocazione e non posso permettere alla ragazza di considerarci dei codardi. Abbiamo almeno una possibilità di sopravvivere su tre. A meno che lei non abbia deciso che dobbiamo chiudere la nostra esistenza tutti insieme, come in una tragedia di Shakespeare.»
«Credetemi. Non ho intenzione di morire io perché possiate incontrare la punizione che meritate.»
Nicholas e Tavvy avevano preso del brandy dalla camera che fungeva da ripostiglio e ora Nicholas ne stava versando un buon quantitativo nella tazza di caffè di Ghislaine. «Non volete fare la martire e avete ragione. Il martirio è incredibilmente noioso.»
«Immagino che parliate per esperienza» osservò lei.
«No, solo per essere stato ossessionato dall’esempio dei santi, che sono molto noiosi, amica mia. Preferisco di gran lunga i peccatori.»
«Non mi meraviglia.»
L’omelette era deliziosa, anche se lei deplorava la mancanza di erbe aromatiche. Pazienza. Blackthorne avrebbe scambiato il timo per un derivato dell’arsenico e gettato l’ottima omelette nel fuoco.
Una volta deciso di rischiare, lui mangiò con più gusto che in tutti i giorni che avevano passato insieme. C’era una strana luce nei suoi occhi che la metteva a disagio. Era come se lui avesse aspettato quel momento da quando l’aveva portata via da Ainsley Hall, ma ora che l’attesa era finita lei non sapeva se essere spaventata o sollevata.
Le parole di Blackthorne provarono che Ghislaine aveva ragione. «Devi andare in città, Tavvy» disse appoggiandosi allo schienale con in mano la tazza col brandy. Aveva finito il caffè, poi si era versato il liquore. Appariva tranquillo, rilassato e molto pericoloso. «A non più di cinque miglia da qui abbiamo passato una locanda dove puoi prenotare una camera. Cerca di sapere se hanno notizie da Londra. Immagino che Jason Hargrove sia in via di guarigione, in caso contrario l’avremmo saputo. E vedi se riesci a trovare un operaio che possa fare qualcosa per il tetto. E una ragazza della taglia di Mam’zelle, che dev’essere stanca di indossare indumenti giganteschi.»
L’attacco si fece strada attraverso la corazza difensiva di Ghislaine. «Ellen non è una gigantessa» replicò indignata.
«Vedo che c’è qualcosa, o qualcuno, di cui vi importa» commentò Nicholas. «Pensavo non aveste più emozioni. Ma non crediate che Ellen possa fare qualcosa per salvarvi. Anche se vi è affezionata come voi lo siete a lei, è impossibile che si metta a cercarvi per tutto il paese. Ormai non la vedrete più, mia cara. Accettatelo e mettetevi il cuore in pace.»
«L’ho accettato tre giorni fa, quando mi avete trascinato via da Ainsley Hall.»
«È stato quattro giorni fa, amica mia. Sono contento di sapere che per voi il tempo è volato. So di essere stato crudele, quando la sola cosa che volevate era uccidermi. Io tendo a perdere la pazienza di fronte a questi piccoli inconvenienti, è uno dei miei vizi inveterati.» Bevve un sorso. Intanto Tavvy si stava avvicinando alla porta.
«Quando volete che torni?» domandò, e per la prima volta Ghislaine notò che di rado Taverner si rivolgeva al padrone chiamandolo per nome o con il titolo.
«Domani sul tardi. Prenditela comoda» rispose Nicholas senza guardarlo, perché teneva gli occhi fissi sulla figura di Ghislaine con espressione sognante.
Questo risolveva la questione della sistemazione notturna. Lei lo capì ma non si mosse, non disse nulla, non lasciò che la faccia tradisse i suoi pensieri. Poi si alzò lentamente per riordinare la tavola mentre il cervello si metteva in moto. Cercò di convincersi che non era il caso di lasciarsi prendere dal panico. Era sopravvissuta a situazioni ben peggiori di quella di un uomo che la guardava attraverso il tavolo.
Le settimane successive all’arrivo suo e di Charles-Louis a Parigi erano state un incubo confuso e orribile. Avevano passato giorni a nascondersi, perché malgrado i logori abiti da contadini che indossavano e la sporcizia, le loro origini aristocratiche erano evidenti alla plebe assetata di sangue. Avevano passato ore in cerca di cibo temendo di non poter sfuggire agli individui che popolavano la notte; esseri che spesso erano più interessati al bellissimo, innocente fanciullo che a lei.
Ghislaine ricordava il giorno della tragedia anche troppo bene. Nel nuovo calendario francese era il ventitré termidoro. Lei e Charles-Louis non mangiavano da due giorni, durante i quali il fratello aveva pianto incessantemente. Sul suo viso sporco i rivoli delle lacrime avevano tracciato delle righe pulite. Lei aveva lasciato il bambino nel vicolo dietro l’osteria. Era un posto sicuro mentre andava in cerca di qualcosa da mangiare. Ciò che aveva trovato era peggio di quanto avesse mai immaginato: Jean-Luc Malviver. Vedeva ancora la sua faccia da furetto con il lungo, brutto naso adunco, le labbra sottili e i denti neri. Ricordandolo pensò che doveva essere giovane anche se, avendo lei solo diciassette anni, le era sembrato molto maturo. Probabilmente non aveva superato i trenta, ma allora non gli aveva dato un’età. Era diabolico, anche se lei non lo sapeva.
L’aveva vista in ginocchio vicino a un uomo appena uscito dalla taverna ubriaco, che dopo aver fatto pochi passi barcollando era caduto privo di sensi.
Lei aveva osservato l’ubriaco da dietro l’angolo buio, poi gli si era avvicinata in fretta e si era chinata su di lui per prendergli il borsellino. A quel punto una mano brutale l’aveva sollevata afferrandole una spalla.
Quando l’aveva vista alla luce, l’uomo aveva detto: «Ci sono modi migliori per guadagnarsi da vivere, bella mia» e le aveva scostato i capelli dal viso con una mano sudicia. Lei era altrettanto sporca per essere vissuta sulla strada per settimane ma era arretrata ugualmente con un senso di repulsione.
«Come ti chiami, eh?» aveva chiesto lui. «Non devi essere in città da molto tempo per sbarcare il lunario in questo modo. Ti porterò in un posto dove potrai avere bei vestiti, un bagno e buon cibo. Molto, moltissimo cibo.»
Lei lo guardò con diffidenza, muta. Era ancora ingenua malgrado le settimane a Parigi, e non capiva di che cosa stesse cianciando, ma non voleva far domande per timore che riconoscesse la diversità del suo modo di parlare. Ed era stata testimone di troppa violenza contro chiunque non fosse plebeo.
Aveva cercato di divincolarsi ma non c’era riuscita. Aveva pensato di chiamare aiuto, ma era sicura che sarebbe caduta dalla padella nella brace. Non poteva far altro che seguire incespicando quello sconosciuto che la trascinava lungo la strada, cercando di ribellarsi, ma impotente contro la sua determinazione.
«Ti piacerà da madame Claude. Dovrai solo essere gentile e avrai una vita migliore di molte ragazze come te. Devi essere contenta di avere una bella faccia. È meglio che vivere sulla strada» le aveva detto.
La casa era troppo calda, e c’erano tante ragazze con il volto giovane e gli occhi vecchi, le mani pulite e il corpo sporco. Quando lei si era ribellata l’avevano percossa; quando si era rifiutata di collaborare, l’avevano obbligata con la forza. Madame Claude l’aveva osservata con soddisfazione e aveva dato a Malviver una manciata di monete. La sua soddisfazione era aumentata quando una donna rozza e brutale, dopo aver fatto il bagno a Ghislaine e averla frugata senza pietà, aveva annunciato che lei era l’ultima vergine rimasta nella viziosa Parigi.
«Vale una fortuna. Dovrò dare a Malviver qualche altro soldo per il tesoro che mi ha mandato» aveva detto raggiante madame Claude.
Era stata la prima volta che Ghislaine aveva sentito il nome dell’uomo che l’aveva venduta a un bordello per un pugno di monete. C’era voluto del tempo, molto tempo, ma alla fine lo aveva ucciso per ciò che le aveva fatto. Come avrebbe ucciso Nicholas Blackthorne. Ma per lui non era ancora il momento.
Prima di uscire Taverner le aveva portato l’acqua e benché detestasse fare la serva a Blackthorne, lavare i piatti almeno procrastinò l’onere che l’attendeva. E sotto lo sguardo impenetrabile di lui, che la fissava da oltre il fuoco, all’improvviso Ghislaine ebbe il primo attacco di vigliaccheria dopo molti, molti anni.
Strofinò forte. Da brava francese sapeva pulire bene e adesso il tavolo con tre gambe era immacolato. Nicholas se ne stava seduto con le gambe tese in avanti e la cravatta slacciata, e la guardava mentre lei riordinava la stanza.
«Siete pronta a stendervi, amica mia?» le chiese con garbo mentre lei stava per decidere se fosse il caso di lavare il pavimento. «O state ancora pensando di evitare l’inevitabile?»
Lei si fermò e lo guardò. Non voleva lottare, aveva già avuto la prova che non serviva a niente. E non c’erano coltelli a portata di mano. Taverner aveva provveduto, e non c’era nient’altro che lei potesse fare, niente eccetto cercare di spingerlo nel fuoco.
«Non ho intenzione di assistere allo stupro di me stessa» disse in tono deciso. «Se mi volete, dovete conquistarmi.»
Lui rise e la sua già intensa bellezza illuminata dalla fiamma divenne straordinaria. Ghislaine si domandò come fare per resistergli e si rese conto con orrore di non essere sicura di riuscirci.
«Sono molto bravo a far fare alle persone ciò che voglio» disse lui con dolcezza, alzandosi in piedi. La luce irregolare creò una grande ombra dietro di lui, così da farlo sembrare ancora più alto di quanto non fosse in realtà e ancora più pericoloso. Ghislaine si disse che non era un’illusione. Quell’uomo era il pericolo più grande che avesse mai dovuto affrontare. E per ragioni che non voleva nemmeno esaminare.
Nicholas attraversò lentamente la stanza, aristocratico e letale. Lei lo aspettò immobile imponendosi di rimanere ferma quando lui l’avrebbe toccata, di chiudere gli occhi, di rinserrarsi in se stessa, e tutto sarebbe finito presto. Cercò di convincersi che ribellarsi non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose.
Ma quando lui le toccò la spalla, scattò qualcosa dentro di lei e, allungata una mano, colpì la faccia bellissima e virile con un poderoso ceffone.