Vedo un tunnel di specchi, sembra scavato là,
nei sotterranei dei miei sogni, minaccioso, incantato,
solitario, da piede umano mai toccato
ignaro delle stagioni, raggelato nell’atemporalità.
Vedo una favola riflessa, dove non è il sole a vegliare
sui cadaveri di creature primordiali, ma un corteo di candele,
una favola che tesse senza fine le sue tele
senza che fine mai riesca a trovare...
Bolesław Leśmian
La Bretagna, fin da quando ho memoria, è associata nella mia mente all’acquerugiola, al fragore delle onde che s’infrangono su una frastagliata spiaggia sassosa. I colori della Bretagna che ricordo sono il grigio e il bianco. E l’aqua marina, naturalmente, come potrebbe essere altrimenti?
Toccai il fianco del cavallo con lo sperone e mi avviai verso le dune, avvolgendomi più strettamente nel mantello. Le gocce fini – troppo fini per essere assorbite – si depositavano fittamente sulla stoffa, sulla criniera del cavallo, velavano di un vapore opaco il luccichio delle parti metalliche dell’equipaggiamento. L’orizzonte vomitava nuvole pesanti, vorticose, grigio-bianche, che scivolavano in cielo dirette verso la terra.
Salii su un’altura ricoperta di chiazze d’erba dura e grigia. E allora la vidi, nera sullo sfondo del cielo, immobile, rigida come una statua. Mi avvicinai. Il cavallo avanzava faticosamente sulla sabbia, fendendone con gli zoccoli il sottile, umido strato superiore.
Montava un cavallo grigio, all’amazzone, avvolta in una lunga guarnacca grigio scuro. Aveva gettato il cappuccio sulle spalle, i capelli biondi erano umidi, arricciati, incollati alla fronte. Sempre immobile, mi osservava con uno sguardo calmo, come assorto. Emanava calma. Il suo cavallo scrollò la testa, fece tintinnare i finimenti.
«Dio sia con te, cavaliere», disse, anticipandomi. Anche la voce era calma, controllata. Come mi aspettavo.
«E con te, signora.»
Aveva un viso dolce, un ovale regolare, labbra piene dal taglio fuori del comune, al di sopra del sopracciglio destro una voglia o una piccola cicatrice a forma di mezzaluna rovesciata. Mi guardai intorno. Nient’altro che dune. Neanche l’ombra di un seguito, di un carro, di paggi. Era sola.
Come me.
Seguì il mio sguardo, sorrise, confermò un fatto inoppugnabile. «Sono sola. Ti aspettavo, cavaliere.»
Ah. Mi aspettava. Interessante, perché non avevo idea di chi fosse. E su quella spiaggia non pensavo d’incontrare nessuno che mi stesse aspettando. O almeno così mi sembrava.
«Dunque», disse, rivolgendo verso di me il viso calmo e freddo, «andiamo, cavaliere. Sono Brangania di Cornovaglia.»
Non era della Cornovaglia. E neppure bretone.
Ci sono ragioni per cui mi capita di non ricordare ciò che ha avuto luogo anche in un passato recente. Di avere dei vuoti di memoria. E, viceversa, a volte mi capita di ricordare avvenimenti che sono quasi certo non siano mai accaduti. Di quando in quando strane cose avvengono nella mia testa. A volte mi sbaglio. Ma l’accento irlandese, l’accento di Tara, delle alture di Temair, non lo confonderei con nessun altro. Mai.
Avrei potuto dirglielo. Ma non lo feci.
Chinai l’elmo, toccai il giaco sul petto col pugno inguantato. Non mi presentai. Avevo il diritto di non presentarmi. Lo scudo girato accanto al ginocchio era un segnale chiaro e legittimo del desiderio di mantenere l’incognito. La consuetudine cavalleresca cominciava ormai ad assumere il carattere di norma universalmente riconosciuta. Era un fenomeno tutt’altro che sano, visto che la consuetudine cavalleresca stava diventando sempre più sciocca e incredibilmente bizzarra.
«Andiamo», ripeté.
Condusse il cavallo giù, tra i rilievi delle dune, irte di ciuffi d’erba simili a setole. La seguii, la raggiunsi, avanzammo fianco a fianco. Ogni tanto la superavo, un osservatore estraneo avrebbe potuto pensare che fossi io a guidare il cammino. Non mi preoccupavo. Tutto sommato, la direzione sembrava giusta.
Perché dietro di noi c’era il mare.
Non parlavamo. Brangania, che voleva far credere di venire dalla Cornovaglia, girò a più riprese il viso verso di me, dando l’impressione di volermi chiedere qualcosa. Ma non lo fece. Le fui grato. Mi sentivo capace di dare pochissime risposte. Tacevo a mia volta e riflettevo, se così può definirsi la sfibrante operazione di dare un ordine sensato alle immagini e ai fatti che mi vorticavano nella testa.
Mi sentivo male. Davvero male.
Dalle riflessioni mi riscossero il grido soffocato di Brangania e la vista di una lama seghettata davanti al mio petto. Sollevai la testa. La lama apparteneva a una picca impugnata da un figuro con un buffo berretto a punta e un giaco strappato. Un altro, un brutto ceffo dall’aria tetra, teneva il cavallo di Brangania per le redini, vicino al morso. Un terzo, che era a qualche passo dietro di loro, mi puntava contro una balestra. Non sopporto che mi si punti contro una balestra. Se fossi il papa, peste, proibirei la fabbricazione delle balestre sotto pena di scomunica.
«Calma, cavaliere», disse quello con la balestra, mirando dritto alla mia gola. «Non ti ucciderò. A meno di non essere costretto. Ma tocca solo la spada, e lo sarò.»
«Ci servono cibo, vestiti caldi e un po’ di denaro», dichiarò quello tetro. «Non vogliamo il vostro sangue.»
«Non siamo selvaggi», disse quello col berretto buffo. «Siamo briganti affidabili ed esperti. Abbiamo i nostri principi.»
«Prendete sicuramente ai ricchi per dare ai poveri?» chiesi.
Quello col berretto buffo fece un largo sorriso che gli scoprì le gengive. Aveva i capelli neri e lucenti e il viso olivastro dei meridionali, irto della barba di qualche giorno. «La nostra affidabilità non arriva a tanto. Prendiamo a tutti, come capita. Ma, siccome siamo noi stessi poveri, il risultato non cambia. Il conte Orgellis ci ha congedati, ha sciolto la banda. Fin quando non saremo ingaggiati da qualcun altro dobbiamo pur vivere, non credi?»
«Perché gli dici tutto questo, Bec de Corbin?» chiese quello tetro. «Perché ti giustifichi con lui? Si fa beffe di noi. Vuole offenderci.»
«Sono superiore a certe cose», disse in tono fiero Bec de Corbin. «Non ci faccio caso. Allora, cavaliere, non perdiamo tempo. Sgancia le bisacce e gettale qui, sul sentiero. E aggiungi la borsa. E il mantello. Bada bene, non vogliamo né il cavallo, né le armi. Sappiamo dov’è il limite.»
«Purtroppo», disse quello tetro, socchiudendo gli occhi con una brutta smorfia, «dobbiamo anche chiederti questa signora. Per un po’.»
«Oh, sì, quasi dimenticavo.» Bec de Corbin scoprì di nuovo i denti. «Davvero, ci serve questa signora. Lo capisci da te, cavaliere, i luoghi deserti, la solitudine... Ormai ho dimenticato com’è fatta una donna nuda.»
«Io invece non posso dimenticarlo», disse il balestriere. «Lo vedo ogni notte, appena chiudo gli occhi.»
Probabilmente sorrisi senza rendermene conto, perché Bec de Corbin mi avvicinò la picca al viso con un movimento irruento, e il balestriere sollevò di scatto l’arma alla guancia.
«No», disse d’un tratto Brangania. «No, non occorre.»
La guardai.
Stava impallidendo, gradualmente, a partire dalla parte inferiore del viso, dalla bocca. Ma la voce era sempre calma, fredda, controllata. «Non occorre. Non voglio che tu muoia a causa mia, cavaliere. Non m’importa neppure che mi coprano di lividi e mi rovinino il vestito. In fondo, che vuoi che sia... Non chiedono molto.»
Mi stupii non meno dei briganti. Ma avrei potuto intuirlo prima. Ciò che avevo preso per freddezza, per calma, per controllo imperturbabile, era semplicemente rassegnazione. Lo sapevo.
«Getta loro le tue bisacce», proseguì Brangania, impallidendo ancora di più, «e va’. Ti prego. A circa mezzo miglio da qui, a un bivio, c’è una croce. Mi aspetterai là. Non credo che ci vorrà molto.»
«Non tutti i giorni capitano persone così ragionevoli», disse Bec de Corbin, abbassando la lancia.
«Non guardarmi così», sussurrò Brangania. Senza dubbio doveva leggere qualcosa sul mio viso, anche se mi sembrava di dominarmi piuttosto bene.
Allungai la mano dietro di me, fingendo di slacciare la cinghia delle bisacce, e senza farmi notare sfilai il piede destro dalla staffa. Colpii il cavallo con lo sperone e diedi un calcio in faccia a Bec de Corbin, che volò all’indietro, bilanciandosi con la picca come un equilibrista sulla corda. Mentre sfoderavo la spada abbassai la testa, e il dardo destinato alla mia gola urtò la calotta dell’elmo e scivolò via. Trafissi il tetro dall’alto, con un bel colpo da sinistra, classico, e il salto del cavallo mi rese più facile estrarre la lama dal suo cranio. Non è affatto difficile, se si sa come fare.
Se avesse voluto, Bec de Corbin sarebbe potuto fuggire sulle dune. Non volle. Pensava che sarebbe riuscito a conficcarmi la picca nella schiena prima che facessi in tempo a girare il cavallo. Si sbagliava.
Gli sferrai un colpo deciso sulle mani che reggevano l’asta e un altro al ventre. Avrei voluto prenderlo più in basso, ma non ci riuscii. Nessuno è perfetto.
Neanche il balestriere era un vigliacco: invece di scappare tese di nuovo la corda e provò a mirare. Trattenendo il cavallo afferrai la spada a metà della lama e la lanciai. Raggiunse il bersaglio. L’uomo cadde talmente bene che non mi toccò nemmeno smontare di sella per recuperare l’arma.
Con la testa china sul collo del cavallo, Brangania piangeva e singhiozzava. Non dissi una parola, non feci un gesto. Non feci nulla. Non ho idea di cosa occorra fare quando una donna piange. Un bardo che avevo conosciuto a Dinas Dinlleu, nel Gwynedd, sosteneva che in quel caso il metodo migliore è mettersi a piangere a propria volta. Non so se scherzasse o dicesse sul serio.
Ripulii con cura la lama della spada. Porto sempre sotto la sella uno straccio che uso per sfregare la lama in situazioni simili. Strofinare la lama calma le mani.
Bec de Corbin rantolava, gemeva e si sforzava di morire. Avrei potuto scendere di sella e finirlo, ma non mi sentivo troppo bene. E poi non mi faceva tutta questa compassione. La vita è crudele. A quanto potevo ricordare, neanche di me nessuno aveva compassione. O almeno così mi sembrava.
Mi tolsi l’elmo, il camaglio e la cervelliera. Fradicia. Credetemi, avevo sudato come un porco. Mi sentivo a pezzi. Le palpebre mi pesavano quasi fossero di piombo, e un crescente intorpidimento mi stava invadendo braccia e gomiti. Sentivo il pianto di Brangania come attraverso una parete di travi di legno ben isolata dal muschio. In testa cominciò a ronzarmi un dolore sordo, pulsante.
Come sono finito su queste dune? Da dove vengo e dove sono diretto? Brangania... Avevo sentito da qualche parte quel nome. Ma non riuscivo... non riuscivo a ricordare...
Con le dita intorpidite toccai un ispessimento sulla testa, una vecchia cicatrice, la traccia del terribile colpo che mi aveva aperto il cranio e vi aveva conficcato i bordi piegati dell’elmo spaccato. Che c’è di strano se dopo una simile esperienza a volte mi sento la testa vuota? Che c’è di strano se anche durante la veglia mi sembra di percorrere il nero corridoio dei miei sogni, che conduce verso un opaco chiarore?
Tirando su col naso e tossicchiando, Brangania mi fece capire che era tempo.
Superai la sensazione di secchezza alla gola. «Andiamo?» chiesi in tono volutamente asciutto, duro, per mascherare la debolezza.
«Sì», rispose in tono altrettanto asciutto. Si asciugò gli occhi col dorso della mano. «Cavaliere?»
«Sì, signora?»
«Mi disprezzi, non è vero?»
«No.»
Si voltò bruscamente, spronò il cavallo lungo il sentiero tra le dune, in direzione delle rocce. La seguii. Mi sentivo male.
Avvertivo odore di mele.
Non mi piacciono le porte chiuse, le grate abbassate, i ponti levatoi alzati. Non mi piace stare come uno stupido davanti a un fosso puzzolente. Odio sgolarmi rispondendo alle sentinelle che gridano in maniera indistinta dai merli e dalle feritoie, senza sapere se m’insultano, mi prendono in giro o mi chiedono il nome.
Odio dare il mio nome quando non ne ho voglia.
Dunque fu una fortuna che la porta fosse aperta, la grata sollevata e le sentinelle appoggiate alle alabarde e alle partigiane non fossero particolarmente zelanti. Fu una fortuna ancora più grande che l’uomo vestito di velluto che accolse Brangania nel cortile si accontentasse delle sue poche parole e non facesse domande sul mio conto. Le porse cortesemente la mano e le tenne la staffa, distolse cortesemente lo sguardo quando, nello smontare, Brangania mostrò il polpaccio e il ginocchio sotto la gonna. Ci fece cortesemente segno di seguirli.
Il castello era terribilmente vuoto. Come deserto. Faceva freddo, e la vista dei camini neri e spenti dava l’impressione che il freddo fosse ancora più intenso. Aspettavamo, io e Brangania, in una sala ampia e gelida, tra le oblique strisce di luce che cadevano dalle finestre a sesto acuto. Non aspettammo a lungo. Una porticina scricchiolò.
Ora, pensai, e il pensiero mi esplose sotto il cranio come una fiamma bianca, fredda, abbagliante, mostrandomi per un istante l’infinita profondità del lungo corridoio nero. Ora, pensai. Ora entrerà lei.
Entrò. Lei.
Isotta.
Mi sentii addirittura attraversare da una scossa, quando entrò, quando splendette candida nella cornice scura della porta. Che ci crediate o no, al primo colpo d’occhio era impossibile distinguerla dall’Isotta irlandese, dalla mia parente, Isotta dai Capelli d’Oro di Átha Clíath, la figlia di Diarmuid mac Cearbhaill, il re di Tara. Solo un secondo sguardo rivelò le differenze. I capelli un po’ più scuri e non tendenti ad avvolgersi in ricci. Gli occhi verdi, non azzurri, più tondi, privi di quell’irripetibile forma a mandorla. Il diverso taglio della bocca. E le mani.
A dire il vero aveva mani molto belle. Penso che fosse abituata a lusinghieri paragoni con l’alabastro o l’avorio, a me tuttavia il candore e la morbidezza di quelle mani ricordarono le candele della cappella di Ynis Witrin a Glastonbury, che ardevano nella penombra, tanto luminose da diventare trasparenti.
Brangania fece una profonda riverenza. Io m’inginocchiai con la testa bassa e le porsi con tutte e due le mani la spada nel fodero. Come prescriveva la consuetudine, offrivo la mia lama ai suoi servigi. Qualunque cosa dovesse significare.
Rispose con un inchino, si avvicinò, toccò la spada con la punta delle dita sottili. Ormai potevo alzarmi. Il cerimoniale lo permetteva. Consegnai la spada all’uomo vestito di velluto, come prescriveva la consuetudine.
«Benvenuta al castello di Carhaing», disse Isotta. «Signora...»
«Sono Brangania di Cornovaglia. E questo è il mio compagno...»
Ah, interessante, pensai.
«... il cavaliere Moroldo dell’Ulster.»
Per Lugh e Lir! Mi ricordai. Brangania di Tara. In seguito Brangania di Tintagel, naturalmente. Lei.
Isotta ci osservava in silenzio. Infine, giunte le famose bianche mani, fece scrocchiare le dita. «Venite di là? Dalla Cornovaglia? Come siete arrivati qui? Ogni giorno cerco con lo sguardo una nave e so che non ha ancora raggiunto le nostre coste.»
Brangania taceva. Neanch’io, naturalmente, sapevo cosa rispondere.
«Parlate», disse Isotta. «Quando arriverà l’imbarcazione che aspettiamo? Chi ci sarà sul ponte? Di che colore sarà la vela con cui arriverà qui la nave da Tintagel? Bianca? O nera?»
Brangania non rispose.
Isotta dalle Bianche Mani fece cenno di avere capito. La invidiai. «Tristano di Lyonesse, mio marito e signore, è gravemente ferito. Durante un combattimento contro il conte Estult Orgellis e i suoi mercenari è stato trafitto da una lancia. La ferita sta andando in suppurazione... e non vuole saperne di rimarginarsi...» La voce d’Isotta si spezzò, le belle mani tremarono. «Da molti giorni Tristano è consumato dalla febbre. Spesso delira, cade in deliquio, non riconosce nessuno. Sono io che veglio al suo capezzale, lo assisto, lo curo, lenisco i suoi dolori. Cionondimeno, certo a causa dalla mia goffaggine e della mia inettitudine, Tristano ha mandato mio fratello a Tintagel. Mio marito ritiene sicuramente che in Cornovaglia sia più facile trovare bravi medici.»
Rimanemmo in silenzio, io e Brangania.
«Ma non arrivano tuttora notizie di mio fratello, non c’è tuttora traccia della vela della sua nave», proseguì Isotta dalle Bianche Mani. «Ed ecco che all’improvviso, invece di colei che Tristano aspetta, compari tu, Brangania. Cosa conduce qui proprio te? Te, ancella e confidente della Regina dai Capelli d’Oro di Tintagel? Mi hai forse portato un elisir magico?»
Brangania impallidì. Sentii un’inaspettata fitta di pietà. Perché a confronto di Isotta, snella, alta, eterea e maestosa, misteriosa e di straordinaria bellezza, Brangania sembrava una semplice contadina irlandese, paffuta, ordinaria, coi fianchi rotondetti e coi capelli color stoppa ancora increspati dalla pioggia. Che ci crediate o no, mi faceva pena.
«Già una volta Tristano ha ricevuto dalle tue mani una bevanda magica, Brangania», continuò Isotta. «Una bevanda che continua a fare effetto e lo sta uccidendo a poco a poco. Allora, sulla nave, Tristano ha ricevuto dalle tue mani la morte. Ora arrivi forse per dargli la vita? Davvero, Brangania, se è così, affrettati. È rimasto poco tempo. Molto poco.»
Brangania non tremò neppure. Aveva il viso immobile come una bambola di cera. I loro occhi, i suoi e quelli di Isotta, ardenti di fuoco e di forza, s’incontrarono, rimasero fissi gli uni negli altri. Percepivo la tensione, che scricchiolava come una fune attorcigliata. Contrariamente alle mie aspettative, fu Isotta a rivelarsi più forte.
Brangania cadde in ginocchio, chinò la testa. «Isotta, mia signora, hai tutto il diritto di essere in collera con me. Ma non ti chiedo di perdonarmi, perché non ho mancato nei tuoi confronti. Ti chiedo unicamente un favore. Voglio vederlo, bella Isotta dalle Bianche Mani. Voglio vedere Tristano.»
La sua voce era sommessa, dolce, calma. Negli occhi di Isotta ormai c’era solo tristezza. «Va bene. Lo vedrai. Sebbene abbia giurato che non avrei permesso a mani e occhi estranei di toccarlo. Soprattutto dalle sue mani. Le mani della donna della Cornovaglia.»
«Non è sicuro che lei verrà da Tintagel», sussurrò Brangania, sempre in ginocchio.
«Alzati, ti prego.» Isotta dalle Bianche Mani alzò la testa e umidi diamanti le brillarono negli occhi. «Non è sicuro, dici. Ma io... io correrei a piedi nudi sulla neve, sulle spine, sui carboni ardenti, se... Se solo mi chiamasse. Ma non mi chiama, anche se lo sa. Chiama colei di cui non è altrettanto certo. La nostra vita, Brangania, non cessa di stupirci con la sua ironia.»
Brangania si alzò. I suoi occhi, lo vedevo chiaramente, si erano riempiti anch’essi di diamanti. Ah, le donne...
«Dunque va’ da lui, cara Brangania», disse amaramente Isotta. «Va’ e portagli ciò che vedo nei tuoi occhi. Ma preparati al peggio. Perché, quando t’inchinerai accanto al suo letto, Tristano ti getterà in faccia un nome che non sarà il tuo. Te lo getterà in faccia come un insulto. Va’. I servi t’indicheranno la strada.»
Rimasi solo con lei, quando Brangania uscì con un paggio. Il cappellano con la tonsura luccicante chino sul banco da preghiera, che mormorava non so che sciocchezze in latino, non contava. Non l’avevo notato prima. Era stato lì tutto il tempo? Andasse al diavolo. Non mi disturbava.
Continuando a torcersi inconsapevolmente le dita delle bianche mani, Isotta mi guardava con aria indagatrice. Cercavo nei suoi occhi ostilità e odio. Doveva pur sapere. Quando si sposa una leggenda vivente, ambulante, la si conosce nei più piccoli dettagli. E io, peste, non ero così piccolo.
Mi guardava, e nel suo sguardo c’era qualcosa di molto strano. Poi, raccolto il vestito lungo intorno agli stretti fianchi, si sedette su una savonarola intagliata, serrando le bianche mani sui braccioli. «Siedi qui accanto a me, Moroldo dell’Ulster.»
Mi sedetti.
Sul mio duello con Tristano di Lyonesse circola una gran quantità di storie inverosimili, inventate di sana pianta. In una vengo perfino trasformato in un drago che Tristano vince, conquistando in tal modo il diritto formale ad avere Isotta dai Capelli d’Oro. Niente male, eh? È romantico, ed è anche una bella giustificazione. In effetti avevo un drago nero sullo scudo, forse è per questo. Perché tutti sanno che in Irlanda non ci sono draghi dai tempi di Cuchullain.
Stando a un altro racconto il combattimento ebbe luogo in Cornovaglia, prima ancora che Tristano conoscesse Isotta. Non è vero. È un’invenzione dei menestrelli. È un fatto che re Diarmuid mi mandava da Marco, a Tintagel. Ci sono stato parecchie volte e davvero ho litigato per un tributo dovuto a Diarmuid dal re di Cornovaglia, la peste sa a che titolo, non m’interessavo di politica. Ma allora non incontrai mai Tristano.
Non lo incontrai neppure quando venne per la prima volta in Irlanda. Lo conobbi solo durante la sua seconda visita, quando si presentò a chiedere la mano di Capelli d’Oro per la Cornovaglia. A Marco, figlio di Meirchion, cugino del Grande Artù, era venuta voglia di fare della nostra Isotta la signora di Tintagel. La corte di Diarmuid, com’è solito in queste occasioni, si divise tra coloro che appoggiavano l’unione e coloro che la osteggiavano. Tra questi ultimi c’ero anch’io. A essere sinceri non avevo idea di cosa si trattasse precisamente, come ho già detto non avevo propensione né per la politica né per gli intrighi. Mi era indifferente a chi andasse in sposa Isotta. Ma sapevo battermi e mi piaceva farlo.
Il piano, per come lo avevo concepito, era semplice, in sostanza non meritava di essere definito un intrigo. Si trattava di far fallire la domanda di matrimonio di Marco, impedire l’unione con Tintagel. Quale metodo migliore che fare fuori l’inviato? Trovai un pretesto, attaccai lite con Tristano e l’offesi, e lui mi sfidò a duello. Lui sfidò me, badate. Non il contrario.
Ci battemmo a Dún Laoghaire, in riva al golfo. Pensavo di sbrigarmela alla svelta. A occhio e croce pesavo il doppio di lui e avevo almeno il doppio dell’esperienza. O almeno così mi sembrava.
Capii il mio errore al primo scontro, quando le nostre lance andarono in pezzi. Mi spinse contro l’arcione con una tale violenza che per poco non mi spaccai le reni e non caddi con tutto il cavallo. Quando tornò indietro e, invece di chiedere un’altra lancia, sfoderò la spada, mi rallegrai: la lancia ha il pregio che con un po’ di fortuna e un buon cavallo un giovincello può ridurre in poltiglia perfino un cavaliere esperto. La spada – alle lunghe – è più equa.
Menammo alcuni colpi sugli scudi. Era forte come un toro, più forte di quanto avessi supposto. Combatteva in maniera classica, da destra, da sinistra, sopra-sotto, colpo su colpo, molto velocemente, e questa velocità m’impediva di approfittare della superiorità dell’esperienza, d’imporgli il mio stile, meno classico. A poco a poco cominciò a irritarmi, dunque alla prima occasione lo colpii in maniera scorretta, alla coscia, sotto il bordo inferiore dello scudo ornato del leone rampante di Lyonesse.
Se avessimo combattuto a terra, non sarebbe rimasto in piedi. Ma eravamo a cavallo. Non si accorse nemmeno che sanguinava come un porco, che spruzzava di carminio scuro la sella, la gualdrappa, la sabbia. I presenti urlavano come ossessi. Ero sicuro che l’emorragia avrebbe fatto la sua parte, e siccome ero anch’io sull’orlo dello sfinimento attaccai duramente, con furia e imprudenza, per farla finita. E quello fu il mio errore. Abbassai inconsapevolmente lo scudo, convinto che mi avrebbe ripagato con lo stesso colpo cattivo, basso. D’un tratto qualcosa mi brillò negli occhi, e poi non so cosa successe.
Non lo so. Non so cosa successe poi, pensai guardando le bianche mani di Isotta. Possibile? C’era stato davvero solo quel lampo, a Dún Laoghaire, il corridoio nero, e subito dopo la costa grigio-bianca e il castello di Carhaing?
Possibile?
E immediatamente, come una risposta bella e pronta, come una prova inoppugnabile, come un argomento incontestabile, apparvero visi, nomi, parole, colori, odori. Era tutto là, ogni singolo giorno. Sia i brevi giorni invernali, scuri dietro le membrane di pesce delle finestre, sia quelli primaverili, tiepidi, odorosi di pioggia e terra fumante. I giorni estivi, lunghi e caldi, gialli di sole e girasoli. I giorni autunnali, che tingevano di mille colori le alture intorno all’Emain Macha. E tutto ciò che era avvenuto in quei giorni: marce, combattimenti, campagne militari, cacce, banchetti, donne, ancora combattimenti, ancora banchetti e ancora donne. I fuochi di Beltaine e i fumi di Samhain. Tutto. Ciò che era accaduto da quel momento a Dún Laoghaire fino a quel giorno inzaccherato di acquerugiola sulla costa armoricana.
C’era stato tutto. Aveva avuto luogo. Era accaduto. Dunque non potevo capire perché tutto ciò mi sembrava...
Irrilevante.
Secondario.
Respirai a fatica. Ricordare mi aveva sfinito. Mi sentivo esausto quasi come allora, durante il combattimento. Come allora, sentivo il dolore alla nuca, il peso delle spalle. La cicatrice sulla testa pulsava, mi lacerava con un dolore furioso.
Isotta dalle Bianche Mani, lo sguardo fisso da un pezzo sulla finestra, sull’orizzonte coperto di nubi, girò lentamente il viso verso di me. «Perché sei venuto qui, Moroldo dell’Ulster?»
Che cosa dovevo risponderle? Non volevo tradirmi davanti a lei col vuoto nero nella mia memoria. Non aveva senso raccontarle dello scuro corridoio senza fine. Rimaneva, come al solito, la consuetudine cavalleresca, la norma universalmente rispettata e riconosciuta. Mi alzai. «Sono qui ai tuoi ordini, Isotta, mia signora», dissi, eseguendo un rigido inchino. Avevo osservato di nascosto Kay eseguire quell’inchino, a Camelot, mi era sempre sembrato dignitoso, distinto e degno di essere imitato. «Sono venuto per eseguire ogni tuo ordine. Disponi pure della mia vita, mia signora.»
«Temo che sia troppo tardi per questo», disse piano, torcendosi le dita.
Vidi una lacrima, un sottile filo scintillante scivolarle giù dall’angolo dell’occhio, rallentare la corsa sulla pinna del naso. Sentii odore di mele.
«La leggenda volge alla fine, Moroldo.»
A cena Isotta non ci fece compagnia. Eravamo soli, io e Brangania, senza contare il cappellano con la tonsura scintillante. Ma quello non ci disturbava. Dopo avere mormorato una breve preghiera e avere fatto il segno della croce sulla tavola, si dedicò al cibo. Ben presto smisi di fargli caso. Come se fosse là tutto il tempo. Sempre.
«Brangania?»
«Sì, Moroldo?»
«Come facevi a sapere?»
«Mi ricordo di te dall’Irlanda, dalla corte di Diarmuid. Ti ricordo bene. No, non credo che tu ti ricordi di me. Allora non mi hai prestato attenzione, sebbene – oggi posso confessartelo – cercassi di attirare il tuo sguardo. È comprensibile. Dov’era Isotta, non si faceva caso alle altre.»
«No, Brangania. Mi ricordo di te. Oggi non ti ho riconosciuta, perché...»
«Sì, Moroldo?»
«Allora, a Tara... eri sempre sorridente.»
Silenzio.
«Brangania?»
«Sì, Moroldo?»
«Come sta Tristano?»
«Male. La ferita sta andando in suppurazione, non vuole saperne di rimarginarsi. Sta cominciando la cancrena. È orribile.»
«Ma pensi...»
«Finché crederà, vivrà. E lui crede.»
«In cosa?»
«In lei.»
Silenzio.
«Brangania...»
«Sì, Moroldo.»
«Ma Isotta dai Capelli d’Oro... La regina... verrà davvero qui da Tintagel?»
«Non lo so. Ma lui lo crede.»
Silenzio.
«Moroldo.»
«Sì, Brangania.»
«Ho detto a Tristano che sei qui. Vuole vederti. Domani.»
«Va bene.»
Silenzio.
«Moroldo...»
«Sì, Brangania.»
«Là sulle dune...»
«Non importa.»
«No, importa. Ti prego, cerca di capire. Non volevo, non potevo permettere che morissi. Non potevo lasciare che il dardo di una balestra, uno stupido pezzo di legno e metallo, rovinasse... Non potevo permetterlo. A nessun costo, nemmeno a quello del tuo disprezzo. E là... sulle dune... Il prezzo che hanno chiesto non mi è sembrato eccessivo. Vedi, Moroldo...»
«Brangania... Basta, ti prego. Smettila.»
«Mi è già capitato di pagare con me stessa.»
«Brangania. Non una parola di più.»
Mi toccò la mano, e il suo tocco, che ci crediate o no, era una rossa sfera solare che sorgeva dopo una notte lunga e fredda, era l’odore di mele, era il salto di un cavallo che va alla carica. Mi guardò negli occhi, e il suo sguardo era come un garrire di bandiere agitate dal vento, come una musica, come il tocco di una pelliccia sulla guancia. Brangania, la ridente Brangania di Tara. La seria, calma e triste Brangania di Cornovaglia, dagli occhi che sanno. Forse nel vino che bevevamo c’era qualcosa? Come in quello che Tristano e Capelli d’Oro avevano bevuto in mare?
«Brangania...»
«Sì, Moroldo?»
«Niente. Volevo soltanto sentire il suono del tuo nome.»
Silenzio.
Il rumore del mare, monotono e sordo, e al suo interno sussurri fastidiosi, ripetuti, insopportabilmente ostinati.
Silenzio.
«Moroldo.»
«Tristano.»
Era cambiato. Allora, ad Átha Clíath, era un ragazzino, un giovane allegro dagli occhi trasognati, sempre, immancabilmente con lo stesso sorriso gentile che provocava nelle fanciulle i crampi al basso ventre. Sempre quel sorriso, perfino mentre ci battevamo con le spade a Dún Laoghaire. Ma adesso... Adesso aveva il viso grigio, emaciato, contratto, solcato da scintillanti rivoli di sudore, la bocca screpolata e piegata in una smorfia di dolore, le orbite annerite dalla sofferenza.
E puzzava. Puzzava di malattia. Di morte. Di paura.
«Sei vivo, irlandese.»
«Sono vivo, Tristano.»
«Quando ti hanno portato via dal campo, dicevano che eri morto. Avevi...»
«Avevo la testa spaccata e il cervello di fuori», dissi, cercando di assumere un tono naturale e indifferente.
«Un miracolo. Qualcuno ha pregato per te, Moroldo.»
«Non credo.» Scrollai le spalle.
«I verdetti del destino sono imperscrutabili», disse, corrugando la fronte. «Tu e Brangania... Siete entrambi vivi. E io... In una stupida scaramuccia... Ho ricevuto un colpo di lancia all’inguine, mi ha passato da parte a parte, si è spezzata. Un frammento dev’essersi staccato dall’asta, perciò la ferita stenta a rimarginarsi. È una punizione divina. Una punizione per tutte le mie colpe. Per te, per Brangania. Ma soprattutto... per Isotta...»
Corrugò di nuovo la fronte, contrasse le labbra. Sapevo quale Isotta intendesse. D’un tratto provai una gran pena. In quella smorfia c’era tutto. Gli occhi cerchiati di lei, il suo torcersi involontariamente le mani, le dita piegate. L’amarezza nella voce. Quanto spesso doveva vedere quello spettacolo. Quell’improvvisa, involontaria contrazione delle labbra quando lui diceva «Isotta» e non poteva aggiungere «Capelli d’Oro». Mi faceva pena, lei, sposata a una leggenda vivente. Perché aveva acconsentito a quel matrimonio? Eppure era la figlia di Hoel di Armorica, avrebbe potuto avere chiunque avesse voluto. Perché aveva voluto Tristano? Perché aveva acconsentito a essere un nome, un vuoto suono? Non aveva forse sentito i racconti su di lui e sulla donna della Cornovaglia? O forse le sembrava che non avesse importanza? Forse pensava che Tristano fosse uno come tanti, come i giovani cavalieri di Artù, come Galvano, Gaheris, Lamorak o Bedivere, che avevano dato inizio alla stupida moda di adorare una donna, scoparne un’altra e sposarne una terza, e filava tutto liscio, nessuno si lamentava?
«Moroldo...»
«Sono qui, Tristano.»
«Ho mandato Caerdin a Tintagel. La nave...»
«Non ci sono ancora notizie.»
«Solo lei...» sussurrò. «Solo lei può salvarmi. Sono allo stremo. I suoi occhi, le sue mani, la sua stessa vista e il suono della sua voce. Ormai per me non c’è altra salvezza. Perciò... se sarà sul ponte, Caerdin deve far innalzare sull’albero...»
«Lo so.»
Rimase in silenzio guardando il soffitto, respirando a fatica. «Moroldo... Lei... verrà? Ricorda?»
«Non lo so, Tristano», dissi, e mi pentii immediatamente di quelle parole. Al diavolo, che male c’era a rispondere affermativamente, in tono solerte e convinto? Dovevo lasciar trapelare anche davanti a lui la mia ignoranza?
Tristano girò la testa verso la parete. «Ho sprecato questo amore», gemette. «L’ho distrutto. E così facendo ho attirato una maledizione sulle nostre teste. Perciò sto morendo, e non posso neppure morire nella convinzione che Isotta verrà qui rispondendo al mio richiamo. Che magari troppo tardi, ma verrà...»
«Non dire così, Tristano.»
«Devo. È tutta colpa mia. O forse il colpevole è il mio destino maledetto? Forse ero condannato a questo fin dall’inizio? Io, concepito dall’amore e dalla tragedia? Tu sai che Biancofiore mi partorì nella disperazione, i dolori l’assalirono quando le fu portata la notizia della morte di Rivalen. Non sopravvisse al parto. Non so se fu lei, con l’ultimo respiro, o più tardi Foytenant... a darmi questo nome, un nome che è come una rovina, come una maledizione. Come una sentenza. La tristesse. Causa ed effetto. La tristesse che mi circonda come una nebbia... Una nebbia come quella che ha avvolto la foce del Liffey quando...» Tacque, passando inconsapevolmente le mani sulle pellicce che lo coprivano. «Tutto, tutto ciò che ho fatto mi si è rivoltato contro. Mettiti al mio posto, Moroldo. Immagina di arrivare in Irlanda e d’incontrarvi una fanciulla... Dal primo sguardo, dalla prima occhiata che vi scambiate, senti che il cuore vuole frantumarti le costole e che ti tremano le mani. Cammini su e giù tutta la notte senza coricarti, fremi di ansia, tremi, pensi a una sola cosa: a rivederla l’indomani. Ebbene? Invece della gioia, la tristesse...»
Rimasi in silenzio. Non capivo di cosa parlava.
«E poi il primo colloquio. Il primo contatto delle mani, che ti scuote come un colpo di lancia a un torneo. Il primo sorriso, il suo sorriso, che fa sì che... Eh, Moroldo. Che cosa avresti fatto al posto mio?»
Rimasi in silenzio. Non sapevo che cosa avrei fatto al posto suo. Perché non ero mai stato al posto suo. Perché, per Lugh e Lir, non avevo mai vissuto niente del genere. Mai.
«So che cosa non avresti fatto», disse Tristano, socchiudendo gli occhi. «Non ne avresti tessuto le lodi con Marco, non ne avresti risvegliato l’interesse parlando incessantemente di lei in sua presenza. Non saresti andato a prenderla in Irlanda a nome di un altro. Non avresti sprecato l’amore che era cominciato allora. Allora, non sulla nave. Brangania si tormenta ingiustamente con questa storia della bevanda magica. La bevanda non ha avuto nessun ruolo nella vicenda. Quand’è salita sulla nave, era già mia. Moroldo... Se tu fossi salito con lei su quella nave, avresti fatto vela per Tintagel? Avresti consegnato Isotta a Marco? Certo che no. Piuttosto saresti fuggito con lei in capo al mondo, in Bretagna, in Arabia, nell’Iperborea, magari nell’Ultima Thule. Moroldo? Ho ragione?»
Non potevo rispondere a questa domanda. E, se avessi potuto, non avrei voluto. «Sei sfinito, Tristano. Hai bisogno di dormire. Riposa.»
«Spiate l’arrivo della... nave...»
«Va bene, Tristano. Hai bisogno di qualcosa? Devo mandarti... la signora dalle Bianche Mani?»
Una smorfia. «No.»
Siamo sulle mura, io e Brangania. Pioviggina, com’è tipico in Bretagna. Il vento s’intensifica, scompiglia i capelli di Brangania, le incolla il vestito sui fianchi. Le raffiche di vento ci soffocano le parole sulle labbra. Ci spremono le lacrime dagli occhi, fissi sull’orizzonte.
Nessuna traccia di vele.
Guardo Brangania. Per Lugh, che gioia mi procura guardarla. Potrei guardarla all’infinito. E pensare che allora, quando stava di fronte a Isotta, mi sembrava brutta. Dovevo avere una benda sugli occhi. «Brangania?»
«Ti ascolto, Moroldo.»
«Mi stavi aspettando sulla spiaggia. Sapevi che...»
«Sì.»
«Come?»
«Non lo sai?»
«No. Non lo so... non ricordo... Brangania, basta indovinelli. Non vanno bene per la mia testa. Per la mia testa rotta.»
«La leggenda non può finire senza di noi. Senza la nostra partecipazione. Tua e mia. Non so perché, ma siamo importanti, indispensabili in questa storia. Nella storia di un grande amore che è un vortice che attira in sé tutto e tutti. Non lo sai, Moroldo dell’Ulster, oppure non capisci che forza potente sia il sentimento? Una forza capace di ribaltare l’ordine naturale delle cose? Non lo senti?»
«Brangania... Non capisco. Qui, nel castello di Carhaing...»
«Accadrà qualcosa. Qualcosa che dipende solo da noi. Perciò siamo qui. Dobbiamo essere qui, indipendentemente dalla nostra volontà. Perciò sapevo che saresti comparso sulla spiaggia. Perciò non potevo permettere che morissi sulle dune...»
Non so che cosa mi spinse a farlo. Forse le sue parole, forse l’improvviso ricordo degli occhi di Capelli d’Oro. Forse qualcosa che avevo dimenticato percorrendo il lungo corridoio scuro senza fine. Ma lo feci senza riflettere, senza calcolo.
La presi tra le braccia.
Si strinse a me, docilmente e volentieri, e pensai che in effetti il sentimento può essere una forza potente. Ma eguale potere ha la sua mancanza protratta, dolorosa e sconvolgente.
Passò un po’ di tempo. O almeno così mi sembrò. Brangania si liberò adagio dalla mia stretta, si girò, una raffica di vento le agitò i capelli. «Qualcosa dipende da noi, Moroldo. Da te e da me. Ho paura.»
«Di cosa?»
«Del mare. E della barca che non ha timone.»
«Sono qui, Brangania.»
«Rimani al mio fianco, Moroldo.»
Oggi è un’altra sera. Una sera completamente diversa. Non so dov’è Brangania. Forse veglia insieme con Isotta al capezzale di Tristano, che è di nuovo privo di sensi e si agita in preda alla febbre. Agitandosi, sussurra: «Isotta...» Isotta dalle Bianche Mani sa che non è lei che chiama Tristano, ma nel sentire quel nome freme. E si torce le dita delle bianche mani. Brangania, se è là con lei, ha dei diamanti bagnati negli occhi. Brangania... Peccato che... Ah, peste!
E io... Io bevo in compagnia del cappellano. Non so come sia finito qui, questo cappellano. Forse c’è sempre stato?
Beviamo, e velocemente. E molto. So che mi fa male. Non dovrei, la mia testa spaccata non lo sopporta troppo bene. Quando mi ubriaco, ho delle allucinazioni. Mal di testa. A volte svengo. Per fortuna di rado.
Ma insomma, beviamo. Peste, devo soffocare la mia ansia. Dimenticare il tremito alle mani. Il castello di Carhaing. Gli occhi di Brangania, pieni di paura di fronte all’ignoto. Voglio soffocare in me l’ululato del vento impetuoso, il rumore delle onde, il dondolio del ponte della nave sotto i piedi. Voglio soffocare in me ciò che non ricordo. E quest’odore di mele che mi perseguita.
Beviamo, io e il cappellano. Ci separa il tavolo di quercia, ormai tutto inzaccherato di vino. Non ci separa soltanto il tavolo.
«Bevi, prete.»
«Dio sia con te, figliolo.»
«Non sono il tuo figliolo.»
Come molti altri, dal giorno della battaglia di Badon porto una croce sulla corazza, ma non sono stato preso dal misticismo, com’è accaduto a molti altri. Nei confronti della religione sono piuttosto indifferente. Nei confronti di qualsiasi sua manifestazione. Il cespuglio che dicono sia stato piantato da Giuseppe d’Arimatea a Glastonbury per me non è diverso dagli altri cespugli, se non forse perché è più storto e più spoglio. La stessa abbazia della quale alcuni uomini di Artù parlano con pio raccoglimento non suscita in me emozioni più profonde, anche se devo ammettere che crea un bel quadro d’insieme col bosco, con la collina e col lago. E il fatto che vi suonino regolarmente le campane rende più facile trovare la strada nella nebbia, e là ce n’è sempre, la peste la colga.
Questa religione romana, sebbene ormai piuttosto diffusa, non ha grandi possibilità qui da noi, sulle isole. Da noi, in Irlanda, in Cornovaglia o nel Galles, s’incontrano a ogni pie’ sospinto cose la cui esistenza viene ostinatamente negata dai monaci. Da noi qualsiasi sciocco ha visto elfi, puck, silfidi, korrigan, leprecauni, sidhe, anzi, perfino bean sidhe. Ma nessuno, per quanto ne so, ha visto un angelo. A parte Bors di Ganis, che una volta, prima o durante una battaglia, pare abbia visto addirittura Gabriele, ma Bors è un babbeo e un bugiardo, chi gli crederebbe?
I monaci diffondono racconti sui presunti miracoli di Cristo. Siamo onesti: se si pensa a ciò di cui sono state capaci Viviana del Lago, Morgana la Fata o Morgause, la moglie di Lot delle Orcadi, per non citare Merlino, Cristo non ha di che vantarsi. La magia seria, qualificata, non è uno scherzo, ve l’assicuro. Un mago o un druido suscitano rispetto e venerazione. Merlino, potete credermi, non si sarebbe mai abbassato a esibirsi in un’assurda camminata sull’acqua. Sempre che quella camminata sull’acqua sia vera. Troppe volte ho sorpreso i monaci a mentire, per credere a tutto ciò che raccontano. Pensate forse che non ami i monaci? Non è affatto vero. Qui l’amore non c’entra. Semplicemente non ci capiamo. Loro dicono «Pentecoste», io penso «Beltaine». Loro dicono «santa Brigida», io penso «Birgit di Cill Dara». Non ci capiamo. E non dobbiamo capirci. Perché i monaci vanno e vengono. Ma i druidi restano. Non che sia convinto che i druidi siano molto meglio dei monaci, no. Ma i druidi sono dei nostri. Lo sono sempre stati. Mentre i monaci sono dei vagabondi. Come questo prete, il mio compagno di tavola di questa sera. Lo sa il diavolo che cosa lo ha portato qui, in Armorica. Usa parole strane e ha uno strano accento, sembra aquitano o gallico. La peste lo colga.
«Bevi, prete.»
Ma qui da noi in Irlanda, ci metto la mano sul fuoco, il cristianesimo avrà vita breve. Noi irlandesi siamo poco propensi a questo fanatismo romano intransigente e accanito, siamo troppo lucidi per questo, troppo ingenui. La nostra isola è l’avamposto dell’Occidente, è l’Ultima Riva. Dietro di noi, non lontano, ci sono i Paesi Vecchi: Hy Brasil, Ys, Emain Ablach, Mainistir Leitreach, Beag-Arainn. Sono loro che, come secoli fa, anche oggi guidano le menti della gente, non la croce, non la liturgia latina. Del resto, noi irlandesi siamo tolleranti. Ognuno creda pure in ciò che vuole. Nel mondo, a quanto ho sentito, diverse fazioni dei cristiani cominciano già ad accapigliarsi. Da noi questo è impossibile. Posso immaginare tutto, ma non che, per esempio, l’Ulster diventi teatro di tumulti a sfondo religioso.
«Bevi, prete.»
Bevi, perché chissà che domani non ti aspetti una giornata laboriosa. Forse già domani dovrai ripagare col lavoro quanto hai divorato e tracannato. Perché colui che deve andarsene deve andarsene in pompa magna, nella gloria del rituale. È più facile morire quando accanto a te qualcuno celebra un rituale, non importa se quel qualcuno reciti meccanicamente il Requiem aeternam, appesti l’aria d’incenso, urli o batta la spada sullo scudo. Allora è più facile andare via. E che differenza c’è, al diavolo, dove si va, in paradiso, all’inferno o a Tír Nan Óg? Si va sempre nell’oscurità. Ne so qualcosa. Si va nel corridoio scuro che non ha fine.
«Il tuo signore sta morendo, prete.»
«Ser Tristano? Prego per lui.»
«Preghi che avvenga un miracolo?»
«È tutto nelle mani di Dio.»
«Non tutto.»
«Bestemmi, figliolo.»
«Non sono il tuo figliolo. Sono il figliolo di Flann Cernach Mac Cathair, ucciso dai danesi nella battaglia sulle rive del fiume Shannon. La sua è stata una morte degna di un uomo, prete. Flann, morendo, non ha piagnucolato: ’Isotta, Isotta’. Flann, morendo, ha riso e ha apostrofato lo jarl dei vichinghi con tali epiteti che per la durata di tre paternoster quello non è riuscito a chiudere la bocca spalancata per la meraviglia.»
«Si dovrebbe morire, figliolo, col nome del Signore sulle labbra. Inoltre, è più facile morire in combattimento per un colpo di spada, che non agonizzare in un letto consumato dalla maladie. La lotta contro la maladie è una lotta solitaria, e morire da soli è ancora più pesante.»
«La maladie? Parli a vanvera, prete. Guarirebbe da questa ferita altrettanto facilmente che dall’altra... Ma allora, in Irlanda, era pieno di vita, pieno di speranza, mentre adesso la speranza scorre via da lui insieme col sangue malato e maleodorante. Al diavolo, se riuscisse a smetterla di pensare a lei, se dimenticasse questo maledetto amore...»
«Anche l’amore, figliolo, proviene da Dio.»
«Macché. Qui tutti parlano dell’amore e si stupiscono di dove proviene. Tristano e Isotta... Devo proprio dirti, prete, da dove venne quell’amore o come si vuole chiamarlo? Devo dirti che cosa li unì? Sono stato io, Moroldo. Prima che Tristano mi spaccasse la testa lo trafissi alla coscia e lo inchiodai a letto per un paio di settimane. E lui, non appena si rimise un pochino, trascinò in quel letto Capelli d’Oro. Ogni uomo sano avrebbe fatto lo stesso, se ne avesse avuto l’occasione e il tempo. E poi i menestrelli si sono messi a cantare della Foresta del Morois e della spada sguainata. Sciocchezze, non ci credo. Vedi tu stesso, monaco, da dove proviene l’amore. Non da Dio, ma da Moroldo. Perciò vale quello che vale, questo amore. Questa tua maladie.»
«Bestemmi. Parli di cose che non capisci. Dunque sarebbe meglio se smettessi di parlarne.»
Non l’ho colpito in mezzo agli occhi col bicchiere di stagno che cercavo di schiacciare nella mano. Vi chiedete perché? Ve lo dirò. Perché aveva ragione. Non capivo.
Come potevo capire? Non ero stato concepito nella disgrazia, partorito nella tragedia. Flann e mia madre mi concepirono sul fieno e da quell’atto trassero sicuramente un mucchio di gioia semplice, sana. Dandomi il nome, non vi introdussero nessun significato nascosto. Lo scelsero affinché fosse facile chiamarmi. «Moroldo, la cena!» «Moroldo, figlio di un cane!» La tristesse? Sciocchezze, altro che la tristesse.
Portando un simile nome si può sognare? Suonare l’arpa? Dedicare all’amata tutti i pensieri, tutte le faccende quotidiane e di notte camminare su e giù per la stanza senza riuscire a addormentarsi? Sciocchezze. Portando un simile nome si può tracannare birra e vino, e poi vomitare sotto la tavola. Rompere nasi a suon di pugni. Spaccare teste con la spada o con l’ascia o ricevere a propria volta un colpo in testa. L’amore? Qualcuno che si chiama Moroldo alza la sottana e scopa, e poi si addormenta, oppure, se per caso è in vena, dice: «Uh, accidenti che ragazza gagliarda sei, Márie O’Connell, ti mangerei volentieri tutta, soprattutto le tette!» Potete cercare tre giorni e tre notti, in tutto ciò non troverete traccia della tristesse. Nemmeno una traccia. E cosa significa che mi piace guardare Brangania? Mi piace guardare tante cose.
«Bevi, prete. E versa, non perdere tempo. Che hai da bofonchiare?»
«È tutto nelle mani di Dio, sicut in coelo et in terris, amen.»
«Forse lo sarà in coelo, ma sicuramente non in terris.»
«Bestemmi, figliolo. Cave!»
«Con che cosa vuoi spaventarmi? Con un fulmine a ciel sereno?»
«Non ti sto spaventando. Ho paura per te. Rigettando Dio, rigetti la speranza. La speranza di non perdere ciò che conseguirai. La speranza che, quando si tratterà di fare una scelta, la farai bene, che prenderai la decisione giusta. E che allora non sarai inerme.»
«La vita, prete, con Dio o senza di lui, con la speranza o senza di essa, è una strada senza fine né principio, una strada che conduce lungo l’orlo scivoloso di un enorme imbuto di latta. La maggior parte degli uomini non si accorge di camminare in tondo, d’incrociare un incalcolabile numero di volte lo stesso punto sullo stretto bordo scivoloso. Ma ci sono alcuni ai quali capita di scivolare. Di cadere. E allora per loro è la fine, non tornano più sull’orlo, non riprendono la marcia. Scivolano verso il basso finché non s’incontrano tutti allo sbocco dell’imbuto, nel punto più stretto. S’incontrano, ma solo per un breve istante, perché oltre, sotto l’imbuto, li aspetta l’abisso. E questo castello, su questa roccia battuta dalle onde, è proprio un luogo simile. Lo sbocco dell’imbuto. Lo capisci, prete?»
«No. Ma d’altra parte non credo che tu capisca il motivo per cui non lo capisco.»
«Al diavolo le cause e anche gli effetti, sicut in coelo et in terris. Bevi, prete.»
Bevemmo fino a notte fonda. Il cappellano resse alla grande. A me andò peggio. Mi presi una sbronza colossale, credetemi. Soffocai in me... tutto.
O almeno così mi sembrava.
Oggi il mare ha il colore del piombo. Oggi il mare è infuriato. Sento la sua rabbia e ne ho rispetto. Capisco Brangania, capisco la sua paura. Non capisco le ragioni. E le sue parole.
Oggi il castello è deserto e spaventosamente silenzioso. Tristano è consumato dalla febbre. Isotta e Brangania sono con lui. Io, Moroldo dell’Ulster, sto sulle mura e scruto il mare.
Non c’è neppure la traccia di una vela.
Non dormivo, quando entrò. E non mi stupii. Era come se me lo aspettassi. Lo strano incontro sulla spiaggia, il viaggio tra le dune e i prati salmastri, lo stupido incidente con Bec de Corbin e i suoi compari, quella sera a lume di candela, il calore del suo corpo quando l’avevo abbracciata sulle mura, ma soprattutto quell’aura di amore e morte che impregnava Carhaing... Tutto questo ci aveva avvicinati, legati. Cominciavo perfino a sorprendermi a pensare che mi sarebbe stato difficile separarmi...
Da Brangania.
Non disse una parola. Sganciò la spilla che fissava la guarnacca sulla spalla, lasciò scivolare la stoffa pesante sul pavimento. Si sfilò svelta la camicia, semplice, quasi rozza, come quelle che le ragazze irlandesi portano tutti i giorni. Si girò di fianco, arrossata dal fuoco che lambiva i ciocchi nel camino e la osservava con rossi occhi di brace.
Senza dire neanch’io una parola mi spostai, facendole posto accanto a me. Si stese lentamente, girando il viso. La coprii con le pellicce. Continuammo entrambi a tacere, giacendo immobili e guardando le ombre che correvano sul soffitto.
«Non riuscivo a dormire», disse. «Il mare...»
«Lo so. Lo sento anch’io.»
«Ho paura, Moroldo.»
«Sono qui.»
«Resta al mio fianco.»
L’abbracciai più teneramente, più delicatamente che potei. Mi cinse il collo con le braccia, mi premette il viso contro la guancia, mi sfiorò con un alito ardente. La toccavo con cautela, lottando col gioioso desiderio di stringerla più forte, con la voglia di una carezza più impetuosa, più bramosa, come se toccassi le piume di un falco, le froge di un cavallo ombroso. Le toccavo i capelli, il collo, le spalle, i seni pieni e meravigliosamente modellati, coi capezzoli piccoli. Le toccavo i fianchi, che fino a poco tempo prima, pensate un po’, avevo trovato troppo tondi, e che erano splendidamente tondi. Le toccavo le cosce lisce, le toccavo la femminilità, il punto innominato, perché neppure nel pensiero avrei osato chiamare il suo com’ero solito fare, con una qualunque parola irlandese, gallese o sassone. Perché sarebbe stato come chiamare Stonehenge un mucchio di sassi. O la Glanstonbury Tor una collinetta.
Tremava, si offriva impaziente alle mie mani, guidandole coi movimenti del corpo. Chiedeva, esigeva con un linguaggio muto, con un respiro impetuoso, rotto. Chiedeva un sollievo momentaneo, morbido e caldo, per irrigidirsi, per indurirsi un istante in un diamante fremente. «Amami, Moroldo», sussurrò. «Amami.»
Era audace, avida, impaziente. Tuttavia, inerme e impotente tra le mie braccia, dovette sottomettersi al mio amore tranquillo, cauto, misurato. Il mio. Come lo desideravo. Perché in quello che provava a impormi percepivo paura, sacrificio e rassegnazione, e non volevo che avesse paura, che mi sacrificasse nulla, che rinunciasse a nulla. Ed ebbi la meglio.
O così almeno mi sembrava.
Sentivo il castello tremare al lento ritmo delle onde che s’infrangevano sulla roccia.
«Brangania...»
Aderì a me, ardente, e il suo sudore odorava di piume bagnate. «Moroldo... È bello...»
«Che cosa, Brangania?»
«È bello vivere.»
Rimanemmo a lungo in silenzio. E poi le rivolsi una domanda. Quella che non avrei dovuto fare. «Brangania... Lei... Isotta verrà qui da Tintagel?»
«Non lo so.»
«Non lo sai? Tu? La sua confidente? Tu, che...» Tacqui. Per Lugh, che stupido, pensai. Che maledetto idiota.
«Non tormentarti. Chiedi pure.»
«Riguardo a cosa?»
«Alla prima notte di nozze d’Isotta e di re Marco.»
«Ah, quella. Figurati, non m’interessa.»
«Credo che tu menta.»
Non risposi. Aveva ragione.
«È andata come raccontano le ballate», disse piano. «Non appena le candele si spensero, presi astutamente il posto di Isotta nel letto di Marco. Non so se fosse davvero necessario. Marco era talmente affascinato da Capelli d’Oro che avrebbe accettato senza rinfacciarglielo il fatto che non fosse vergine. Non era così schizzinoso. Ma successe quello che successe. Furono decisivi i miei rimorsi di coscienza per quanto era accaduto sulla nave. Credevo di essere colpevole di tutto, io e quella bevanda che avevo dato loro. Mi ero messa in testa che la responsabilità fosse mia e volevo pagare. Solo in seguito venne fuori che Isotta e Tristano erano già stati insieme ad Átha Clíath. Che non ero colpevole di nulla.»
«Va bene così, Brangania. I dettagli non sono necessari.»
«No. Ascolta sino alla fine. Ascolta ciò su cui le ballate tacciono. Isotta mi ordinò, subito dopo avere provato la mia verginità, di scivolare fuori dal letto e scambiarci ancora di posto. Forse temeva di essere smascherata, forse semplicemente non voleva che mi abituassi troppo al re, chissà. Era con Tristano nella stanza accanto, erano molto presi l’uno dall’altra. Si liberò dalle sue braccia e andò dall’uomo della Cornovaglia, nuda com’era, senza neppure aggiustarsi i capelli. E io restai nuda... con Tristano. Fino al mattino. Non so neanch’io come e perché.»
Rimasi in silenzio.
«Non è finita», disse girando la testa verso il fuoco nel camino. «Poi ci fu la luna di miele, durante la quale re Marco non si allontanò di un passo da Isotta. Per forza di cose, Tristano non poteva avvicinarsi a lei. Ma a me sì. Senza diffondermi in particolari: dopo quei pochi mesi lo amavo. Più della mia stessa vita. Lo so, sei sorpreso. Sì, è vero, a unirci era solo il letto, dove del resto Tristano – mi era chiaro anche allora – provava a soffocare in sé l’amore per Isotta, l’invidia per Marco, il senso di colpa. Per lui non ero che un mezzo per raggiungere un fine. Saperlo non mi era d’aiuto.»
«Brangania...»
«Pazienza. Non è ancora finita. La luna di miele giunse al termine. Marco riprese le consuete incombenze legate alla sua carica e Isotta cominciò ad avere un’infinità di occasioni. E Tristano... Tristano non mi rivolse più nessuna attenzione. Anzi, cominciò a sfuggirmi. E io ero folle d’amore.» Tacque, cercò la mia mano tra le pellicce, vi serrò intorno le dita. «Cercai a più riprese di dimenticarlo», disse, lo sguardo fisso al soffitto. «Tintagel brulicava di cavalieri belli e senza complicazioni. Niente da fare. E così, una mattina, mi spinsi in mare a bordo di una barca. Quando fui abbastanza lontana da riva, mi gettai in acqua.»
«Brangania», dissi abbracciandola forte, per soffocare con la mia stretta il tremito che la scuoteva. «È passato. Dimentica. Sei caduta, come molti altri, nel vortice del loro amore. Un amore che ha reso infelici loro per primi e per altri è stato addirittura mortale. Perché anch’io... fui ridotto a mal partito, sebbene avessi solo sfiorato quell’amore senza saperne nulla. A Dún Laoghaire Tristano mi sconfisse, sebbene fossi più forte e più esperto. Perché lui allora si batteva per Isotta, per il suo amore. Non lo sapevo, ricevetti un colpo sul cranio, e come te devo la vita a coloro che erano nelle vicinanze e ritennero opportuno accorrere in aiuto. Salvare. Tirare fuori dall’abisso senza fondo. E ci salvarono, tutti e due. Siamo vivi, e al diavolo tutto il resto.»
M’infilò un braccio sotto la testa, mi passò la mano sui capelli, toccò l’ispessimento che andava dalla sommità del capo all’orecchio.
Feci una lieve smorfia. I capelli sulla cicatrice mi crescono in direzioni bizzarre e quando me li toccano a volte provo un dolore insopportabile.
«Il vortice del loro amore», sussurrò. «Il vortice del loro amore ci ha risucchiati. Tutti e due. Ma davvero siamo stati salvati? E se sprofonderemo con loro nell’abisso? Che cosa ci aspetta, Moroldo? Il mare? La barca senza timone?»
«Brangania...»
«Amami, Moroldo. Il mare ci reclama, senti? Ma finché siamo qui, finché la leggenda non è ancora giunta al termine...»
«Brangania...»
«Amami, Moroldo.»
Cercai di essere tenero. Cercai di essere delicato. Cercai di essere al tempo stesso Tristano, re Marco e tutti i cavalieri senza complicazioni di Tintagel messi insieme. Del viluppo di desideri che avevo dentro di me ne conservai solo uno: desiderai che dimenticasse. Che dimenticasse tutto. Cercai di far sì che tra le mie braccia si ricordasse esclusivamente di me. Cercai. Che ci crediate o no.
Invano.
O almeno così mi sembrava.
Nessuna traccia di vela. Il mare...
Il mare ha il colore degli occhi di Brangania.
Cammino per la stanza come un lupo in gabbia. Il cuore mi martella, quasi volesse frantumarmi le costole. Qualcosa mi serra il diaframma e la gola, qualcosa di strano, qualcosa che è dentro di me. Mi butto tutto vestito sul letto. Al diavolo. Chiudo gli occhi e vedo scintille dorate. Sento odore di mele. Brangania. L’odore delle piume del falco posato sul mio guanto quando torno dalla caccia. Scintille dorate. Vedo il suo volto. Vedo la curvatura della guancia, il naso piccolo e leggermente all’insù. La rotondità delle braccia. La vedo... La porto...
La porto nel lato interno delle palpebre.
«Moroldo...»
«Non dormi?»
«No. Non ci riesco... Il mare m’impedisce di prendere sonno.»
«Sono qui con te, Brangania.»
«Per quanto? Quanto tempo ci è rimasto?»
«Brangania...»
«Domani... domani arriverà la nave da Tintagel.»
«Come lo sai?»
«Lo so.»
Silenzio.
«Moroldo?»
«Sì, Brangania.»
«Siamo legati. Intrecciati su questa ruota della tortura, avvinti da una catena, risucchiati in un vortice. Domani, qui, a Carhaing, la catena si spezzerà. L’ho capito nel momento in cui ti ho scorto sulla riva. Quando si è rivelato che eri vivo. Quando si è rivelato che ero viva anch’io. Ma noi non viviamo per noi, non più, non siamo che una particella dei destini di Tristano di Lyonesse e Isotta dai Capelli d’Oro dell’Isola Verde. E qui, nel castello di Carhaing, ci siamo trovati solo per perderci subito dopo. L’unica cosa che ci lega è la leggenda dell’amore, che non è la nostra leggenda. Nella quale svolgiamo ruoli che non comprendiamo. Che forse non ricorda nemmeno questi ruoli, oppure li travisa e li deforma, ci mette in bocca parole che non abbiamo pronunciato, ci attribuisce azioni che non abbiamo compiuto. Noi non ci siamo, Moroldo. C’è la leggenda, che volge al termine.»
«No, Brangania», dissi, cercando di conferire alla mia voce un tono duro, sicuro e deciso. «Non puoi parlare così. La tristezza ti detta simili parole, e nient’altro. Perché è vero che Tristano di Lyonesse sta morendo e, anche se Capelli d’Oro è sulla nave che sta venendo da Tintagel, temo che possa arrivare troppo tardi. E, sebbene questo pensiero rattristi anche me, non accetterò mai l’affermazione che la sua leggenda sia l’unica cosa che ci lega. Non lo accetterò mai, ora che giaccio accanto a te, che ti tengo tra le braccia. In questo istante non c’è Tristano, non c’è la leggenda, non c’è il castello di Carhaing. Ci siamo solo noi.»
«Anch’io ti tengo tra le braccia, Moroldo. O almeno così mi sembra. Ma so che non ci siamo. C’è solo la leggenda. Che ne sarà di noi? Che cosa accadrà domani? Quale decisione saremo costretti a prendere? Che ne sarà di noi?»
«Sarà come vorrà il destino. Il caso. Tutta questa leggenda di cui ci ostiniamo a parlare è opera del caso. Di una serie di casi. Non fosse stato per il destino cieco, forse non ci sarebbe stata nessuna leggenda. Allora a Dún Laoghaire, pensaci, Brangania, non fosse stato per il destino cieco... Avrebbe potuto essere lui, e non io, a...» M’interruppi, spaventato da un pensiero improvviso. Spaventato da una parola che avevo sulla punta della lingua.
«Moroldo», sussurrò Brangania. «Il destino ha già fatto di noi ciò che doveva. Il resto non può più essere opera del caso. Noi non siamo più sottomessi al caso. Ciò che sta finendo, sta finendo anche per noi. Perché potrebbe essere...»
«Che cosa, Brangania?»
«Forse allora, a Dún Laoghaire...»
«Brangania!»
«Forse la tua ferita era mortale? Forse io... sono annegata nel mare di Sabrina?»
«Brangania! Ma noi siamo vivi.»
«Ne sei sicuro? Come siamo capitati su questa riva, nello stesso istante, tu e io? Ricordi? Non ritieni possibile che ci abbia portati la barca senza timone? La stessa che un tempo ha condotto Tristano alla foce del fiume Liffey? La barca di Avalon, la barca odorosa di mele che emerge dalla nebbia? La barca sulla quale ci è stato ordinato di salire, perché la leggenda non può finire senza di noi, senza la nostra partecipazione? Perché proprio noi e nessun altro dobbiamo porre fine alla leggenda? E quando lo avremo fatto torneremo a riva, dove la barca senza timone ci starà aspettando, e dovremo salirci e partire, svanire nella nebbia? Moroldo?»
«Siamo vivi, Brangania.»
«Ne sei sicuro?»
«Ti tocco. Ci sei. Giaci tra le mie braccia. Sei bella, calda, hai la pelle liscia. Odori come il falco posato sul mio guanto quando torno dalla caccia e la pioggia fruscia sulle foglie di betulla. Ci sei, Brangania.»
«Ti tocco, Moroldo. Ci sei. Sei caldo e il tuo cuore batte con una tale forza. Odori di sale. Ci sei.»
«E dunque... siamo vivi, Brangania.»
Sorrise. Non lo vidi. Lo sentii dal movimento delle labbra premute contro il mio braccio.
Più tardi, a notte fonda, steso immobile col braccio intorpidito dalla pressione della sua testa, perché non volevo disturbarne il sonno agitato, ascoltavo il rumore del mare. Per la prima volta nella mia vita quel rumore, come un dente dolorante, m’inquietava, mi disturbava, m’impediva di prendere sonno. Avevo paura. Avevo paura del mare. Io, un irlandese, cresciuto in riva al mare, abituato fin dalla culla ad ascoltare il rumore della risacca. Il mare rumoreggiava, e in quel rumore io sentivo il canto della sommersa Ys. Sentivo il suono attutito delle campane di Lyonesse inghiottita dalle onde. E ancora più tardi, ormai in sogno, vidi la barca senza timone sballottata dalle onde spumeggianti, la barca dall’alta prua all’insù, con l’albero ornato di ghirlande di fiori.
Sentivo odore di mele.
«Mia buona Brangania...» Il paggio, trafelato, stentava a riprendere fiato. «La signora Isotta ti chiama nella stanza di ser Tristano. Insieme con ser Moroldo dell’Ulster. Affrettati, signora.»
«Che cos’è successo? Tristano...»
«No, signora. Non si tratta di questo. Ma...»
«Parla, ragazzo.»
«La nave da Tintagel... Ser Caerdin è di ritorno. È arrivato un messo dal promontorio. È già in vista...»
«Di che colore è la vela?»
«Non si sa. La nave è troppo lontana. Oltre il promontorio.»
Spuntò il sole.
Quando entrammo, Isotta dalle Bianche Mani dava le spalle alla finestra semiaperta, illuminata dai bagliori che giocavano sui vetri, fissati in una griglia di piccoli riquadri di piombo. Emanava una luce innaturale, nebulosa, riflessa. Tristano, il viso lucido di sudore, respirava a fatica, in maniera spezzata, aritmica. Aveva gli occhi chiusi.
Isotta ci guardò. Aveva il volto contratto, lo deformavano due profondi solchi scavati ai lati della bocca da una smorfia di dolore. «È appena cosciente. Delira...»
Brangania indicò la finestra. «La nave...»
«È troppo lontana, Brangania. Ha appena doppiato il promontorio. È troppo lontana...»
Brangania guardò Tristano e sospirò. Sapevo a cosa stava pensando.
No. Non lo sapevo.
Lo udivo.
Che ci crediate o no, udivo i loro pensieri. I pensieri di Brangania, agitati e pieni di paura, rimescolati come un’onda tra le rocce della riva. I pensieri d’Isotta, dolci, tremuli, pulsanti e selvaggi come un uccello serrato nel pugno. I pensieri di Tristano, scoordinati, laceri come una striscia di nebbia.
Tutti, pensava Isotta, siamo tutti accanto a te, Tristano... Brangania di Cornovaglia, che è la Signora delle Alghe. Moroldo dell’Ulster, che è la Decisione. E io, che ti amo, Tristano, ti amo sempre di più ogni minuto che passa e ti porta lentamente via da me. Ti porta via da me, a prescindere dal colore delle vele della nave che sta guadagnando le coste della Bretagna. Tristano...
Isotta, pensava Tristano, Isotta. Perché non guardano dalla finestra? Perché guardano me? Perché non mi dicono di che colore è la vela? Eppure devo saperlo, devo, e subito, perché in caso contrario...
Si addormenterà, pensava Brangania. Si addormenterà e non si sveglierà mai più. È già in quel luogo ugualmente lontano dalla superficie rilucente e dalle alghe verdi che crescono sul fondale. In quel luogo nel quale cesserà di lottare. E oltre il quale c’è solo la pace.
Tristano, pensava Isotta, ora so che sono stata felice con te. Nonostante tutto. Benché ogni momento che hai trascorso con me tu non abbia fatto altro che pensare a un’altra. Benché mi abbia chiamata così di rado col mio nome. Di solito mi dicevi: «Signora». Ti sforzavi talmente di non ferirmi. Ti sforzavi talmente, ci mettevi tanto di quell’impegno, che erano proprio quegli sforzi e quell’impegno a ferirmi di più. E nonostante ciò ero felice. Mi hai dato la felicità. Mi hai dato le scintille dorate che luccicano sotto le palpebre. Tristano...
Brangania guardava dalla finestra. La nave che stava spuntando dal promontorio. Più veloce, pensava. Più veloce, Caerdin. Naviga più stretto al vento. Non importa con quale vela, più stretto al vento, Caerdin. Vieni, Caerdin, vieni e portaci aiuto. Salvaci, Caerdin...
Ma il vento, che da tre giorni soffiava, gelandoci e bagnandoci di acquerugiola, si placò. Uscì il sole.
Tutti loro, pensava Tristano. Loro. Isotta dalle Bianche Mani. Brangania. Moroldo. E ora io... Isotta, mia Isotta... Che vele ha questa nave... Di che colore...
Siamo come fili d’erba che si attaccano al lembo del mantello quando si attraversa un prato, pensava Isotta. Siamo fili d’erba sul tuo mantello, Tristano. Tra un istante scuoterai il mantello e saremo liberi... e il vento ci porterà via. Non ordinarmi di guardare quelle vele, Tristano, marito mio. Ti prego, non ordinarmelo.
Peccato, pensava Tristano, peccato non averti conosciuta prima. Perché il destino mi ha gettato proprio in Irlanda? Da Lyonesse era più vicina l’Armorica... Avrei potuto conoscerti prima... Peccato non averti potuto amare... Peccato... Che vele ha questa nave? Peccato... Vorrei poterti manifestare amore, signora. Mia buona Isotta dalle Bianche Mani... Ma non posso... Non posso...
Brangania girò il viso verso un arazzo, le spalle scosse dal pianto. Dunque udiva anche lei.
L’abbracciai. Per tutti i tritoni di Lir, maledicevo la mia goffaggine da orso, le mie zampe nodose e i polpastrelli screpolati che s’impigliavano nella seta come ami da pesca. Ma Brangania, cadendo tra le mie braccia, riempì tutto di sé, corresse gli errori, smussò gli angoli, come l’onda che dilava la sabbia scavata dagli zoccoli su una spiaggia. D’un tratto eravamo una cosa sola. D’un tratto sapevo che non potevo perderla. Per nulla al mondo. A nessun costo.
Al di sopra della sua testa, premuta contro il mio petto, vedevo la finestra. Il mare. E la nave.
Puoi manifestarmi amore, Tristano, pensava Isotta. Manifestalo, prima che io ti perda. Una volta, un’unica volta. Lo desidero talmente. Non ordinarmi di guardare le vele di quella nave. Non chiedermi di dirti di che colore sono. Non costringermi a svolgere nella tua leggenda un ruolo che non voglio svolgere.
Non posso, pensava Tristano. Non posso. Isotta dai Capelli d’Oro... Che freddo tremendo ho... Isotta... Isotta... mia Isotta.
Non è il mio nome, pensò Isotta. Non è il mio nome. «Non è il mio nome!» gridò.
Tristano aprì gli occhi, si guardò intorno girando la testa sul cuscino. «Signora...» sussurrò. «Brangania... Moroldo...»
«Siamo tutti qui», disse Isotta molto piano.
No, pensò Tristano. Qui non c’è Isotta. E dunque... è come se non ci fosse nessuno. «Signora...»
«Non ordinarmi...» sussurrò lei.
«Signora... Ti prego...»
«Non ordinarmi di guardare le vele, Tristano. Non costringermi a dirti...»
«Ti prego...» Tristano s’irrigidì. «Ti prego...» E allora lo disse. In maniera diversa.
Brangania rabbrividì tra le mie braccia.
«Isotta.»
Isotta sorrise. «Volevo cambiare il corso della leggenda», disse poi con molta calma. «Che idea folle. Le leggende non si possono cambiare. Nulla si può cambiare. Be’, quasi nulla...» S’interruppe, guardò me, Brangania, ancora abbracciati sullo sfondo del melo di Avalon ricamato sull’arazzo. Sorrise. Sapevo che non avrei mai dimenticato quel sorriso. Con passo lento, lentissimo, si avvicinò alla finestra, si fermò e appoggiò le mani allungate ai lati dell’arco acuto.
«Isotta», gemette Tristano. «Come... Come sono...»
«Sono bianche. Bianche, Tristano. Bianche come la neve. Addio.» Si girò. Senza guardarlo, senza guardare nessuno, uscì dalla stanza.
Nel momento in cui uscì, smisi di udire i suoi pensieri. Ormai udivo soltanto il rumore del mare.
«Bianche!» gridò Tristano. «Isotta dai Capelli d’Oro! Finalmente...» La voce gli si spense in gola come la fiamma di una lucernetta su cui si soffi sopra.
Brangania gridò. Corsi accanto al letto.
Tristano muoveva leggermente le labbra. Provò a sollevarsi ma lo trattenni, con una leggera pressione lo costrinsi a ricadere sui cuscini. «Isotta», sussurrò. «Isotta. Isotta...»
«Rimani steso, Tristano. Non alzarti.»
Sorrise. Per Lugh, sapevo che non sarei mai riuscito a dimenticare quel sorriso. «Isotta... Devo vedere io stesso...»
«Rimani steso, Tristano...»
«La ve...»
Brangania, che stava alla finestra, nel punto in cui un istante prima stava Isotta dalle Bianche Mani, singhiozzò forte. «Moroldo!» gridò. «La nave...»
«Lo so. Brangania...»
Si girò.
«È morto.»
«Cosa?»
«Tristano è morto. In questo istante. È la fine, Brangania.» Guardai dalla finestra. La nave era più vicina di prima. Ma era ancora troppo lontana.
Decisamente troppo lontana per poter distinguere il colore delle vele.
Li incontrai nella grande sala, quella in cui ci aveva accolti Isotta dalle Bianche Mani. Nella sala in cui avevo offerto la mia spada ai suoi servigi, chiedendole di disporre a suo piacimento della mia vita. Qualunque cosa dovesse significare.
Cercavo Isotta e il cappellano, trovai loro.
Erano in quattro.
Una volta un druido gallese di nome Hwyrddyddwg, un vecchietto arzillo, mi disse che le intenzioni umane, per quanto astutamente celate, vengono sempre tradite da due cose: dagli occhi e dalle mani. Osservai attentamente gli occhi e le mani dei cavalieri che si trovavano nella grande sala.
«Sono ser Mariadoc», disse il più alto. Sulla tunica aveva uno stemma: due teste di cinghiale nere armate d’argento in campo bipartito azzurro e rosso. «E questi sono i valorosi cavalieri Gwydolwyn, Anoeth e Deheu ap Owein. Arriviamo dalla Cornovaglia con un’ambasceria per ser Tristano di Lyonesse. Conduceteci da lui, cavaliere.»
«Arrivate troppo tardi», dissi.
«Chi siete, signore?» chiese Mariadoc con una smorfia. «Non vi conosco.»
In quel momento entrò Brangania. Il viso di Mariadoc si contrasse, rabbia e odio vi strisciarono sopra contorcendosi come serpenti.
«Mariadoc.»
«Brangania.»
«Gwydolwyn, Anoeth, Deheu. Non credevo che vi avrei rivisti. Perché si dice che siate stati uccisi da Tristano e Governale, allora, nella Foresta del Morois.»
Mariadoc fece un brutto sorriso. «I verdetti del destino sono imperscrutabili. Neanch’io pensavo che ti avrei rivista, Brangania. Soprattutto qui. Be’, conduceteci da Tristano. Quanto dobbiamo comunicargli non tollera indugi.»
«Come mai tanta fretta?»
«Conduceteci da Tristano», ripeté in tono iroso Mariadoc. «Abbiamo una faccenda da discutere con lui. Non coi suoi servitori. E tantomeno con le ruffiane della regina di Cornovaglia.»
«Da dove vieni, Mariadoc?»
«Da Tintagel, come ho già detto.»
«Curioso», disse Brangania con un sorriso, «perché la nave non è ancora giunta a riva. Ma è ormai vicina. Vuoi sapere con quale vela naviga?»
«No», rispose tranquillamente Mariadoc.
«Siete arrivati troppo tardi.» Continuando a bloccare la porta con la sua persona, Brangania si appoggiò al muro. «Tristano di Lyonesse è morto. È spirato poco fa.»
Gli occhi di Mariadoc non mutarono espressione neppure per un momento. Capii che sapeva. Capii tutto. La luce che vedevo alla fine del corridoio scuro si faceva sempre più vivida. «Andatevene», ringhiò, mettendo la mano sull’impugnatura della spada. «Lasciate il castello. Subito.»
«Come siete arrivati qui?» chiese Brangania con un sorriso. «Non forse a bordo della barca senza timone? Con un lacero straccio nero al posto della vela? Con un cranio di lupo inchiodato alla prua volta all’insù? Perché siete venuti? Chi vi manda?»
«Vattene, spirito di annegata. Non esserci d’intralcio, o potresti pentirtene.»
Il viso di Brangania era calmo. Questa volta però non era la calma della rassegnazione e dell’impotenza, il gelo dell’indifferenza disperata, insensibile. Questa volta era la calma della volontà inflessibile, ferrea. No, non potevo perderla. A nessun costo.
A nessuno? E la leggenda?
Sentivo odore di mele.
«Hai strani occhi, Mariadoc», disse d’un tratto Brangania. «Occhi che non sono abituati alla luce del giorno.»
«Togliti di mezzo.»
«No. Non mi toglierò di mezzo. Prima rispondi alla mia domanda. Alla domanda: perché?»
Mariadoc non si mosse. Mi guardava. «Non ci sarà nessuna leggenda su un grande amore», disse, ma io sapevo che non era affatto lui a parlare. «Una simile leggenda sarebbe inutile e dannosa. Un’inutile follia sarebbe il sepolcro di berillo, e il biancospino che ne germoglia per avviluppare tra i suoi rami un altro sepolcro, di calcedonio. Non vogliamo simili sepolcri. Non vogliamo che la storia di Tristano e Isotta attecchisca tra la gente, che diventi un modello e un esempio, che un giorno si ripeta. Non permetteremo che in un qualsiasi luogo, un giorno, i giovani si dicano: ’Siamo come Tristano e Isotta’.»
Brangania rimase in silenzio.
«Non permetteremo che in futuro qualcosa come il loro amore offuschi le menti predestinate a cose superiori. Che indebolisca le braccia il cui compito è distruggere e uccidere. Che rammollisca i caratteri che devono tenere il potere fra tenaglie d’acciaio. Ma soprattutto, Brangania, non permetteremo che quanto univa Tristano e Isotta entri nella leggenda come l’amore trionfante, che supera gli ostacoli, che unisce gli amanti perfino dopo la morte. Perciò Isotta di Cornovaglia deve morire lontano da qui, come si conviene, durante il parto, dando alla luce un altro discendente del re Marco. Quanto a Tristano, se prima del nostro arrivo ha fatto in tempo a crepare da vile, deve riposare in fondo al mare, con una pietra al collo. O bruciare. Oh, sì, molto meglio che bruci. Della Lyonesse sommersa dalle acque sono rimaste sopra la superficie del mare le cime delle Scilly, ma di Tristano non deve rimanere nulla. E il castello di Carhaing deve bruciare con lui. E subito, prima che la nave da Tintagel raggiunga la baia. Ed è proprio così che accadrà. Invece di un sepolcro di berillo, le rovine maleodoranti di un incendio. Invece di una bella leggenda, la brutta verità. La verità della cecità compiaciuta, del passare sui cadaveri, del calpestare i sentimenti del prossimo, del danno a esso provocato. Che ne dici, Brangania? Vuoi sbarrare la strada a noi, ai combattenti per la verità? Ripeto, togliti di mezzo. Non abbiamo niente contro di te. Non vogliamo annientarti, e perché poi? Hai svolto il tuo ruolo, non troppo glorioso, puoi andartene, tornare sulla riva. Là ti aspettano. Lo stesso vale per te, cavaliere... Qual è il tuo nome?»
Guardavo i loro occhi e le loro mani, e pensavo che il vecchio Hwyrddyddwg non aveva poi fatto chissà che scoperta. Sì, in effetti, gli occhi e le mani tradivano le loro intenzioni. Perché nei loro occhi c’era crudeltà e determinazione, e nelle loro mani c’erano le spade. E io non avevo la mia, di spada, quella che avevo offerto ai servigi di Isotta dalle Bianche Mani. Be’, pensai, pazienza. In fondo, che sarà mai morire in combattimento? È forse una novità per me?
Sono Moroldo! Colui che è la Decisione.
«Il tuo nome», ripeté Mariadoc.
«Tristano», dissi.
Il cappellano comparve da chissà dove, spuntò fuori come un Puck da sotto terra. Gemendo per lo sforzo, mi gettò attraverso la sala una grande spada a due mani.
Mariadoc balzò verso di me, sollevando la sua per colpire. Per un momento le due spade rimasero in alto, quella di Mariadoc e quella che volava verso la mia mano protesa. Sembrava che non potessi essere più veloce. Ma lo fui.
Lo colpii sotto l’ascella con tutte le mie forze, dopo avere compiuto un mezzo giro, e la lama si conficcò in diagonale proprio lungo la linea che divideva i colori dello stemma. Mi girai dall’altra parte abbassando la spada, e Mariadoc ne scivolò giù e finì tra i piedi degli altri tre, che correvano nella mia direzione. Anoeth inciampò nel corpo, offrendomi l’occasione di spaccargli agevolmente la testa. Cosa che feci.
Vedendo Gwydolwyn e Deheu scagliarsi su di me da due parti diverse, mi gettai tra loro girando come una trottola con la spada tesa. Dovettero saltare indietro, le loro lame erano di un buon cubito più corte della mia. Inginocchiandomi, colpii Gwydolwyn alla coscia e sentii la lama stridere sull’osso e maciullarlo. Deheu fece per assalirmi di lato, ma scivolò sul sangue e cadde di schianto su un ginocchio. I suoi occhi erano pieni di spavento e preghiera, ma in me non trovai nessuna pietà. E neppure la cercai. Una stoccata inferta da distanza ravvicinata con una spada a due mani è impossibile da parare. Se non si può balzare indietro, la lama si conficca per due terzi, fino ai due denti di ferro che vi sono appositamente collocati. E così fu.
Che ci crediate o no, nessuno di loro emise un solo grido. E io... Io non sentivo niente dentro di me. Niente di niente.
Gettai la spada sul pavimento.
«Moroldo!» Brangania accorse e si strinse a me, tremando per lo spavento che andava scemando a poco a poco.
«Va tutto bene, bambina, è tutto finito», dissi accarezzandole i capelli ma guardando il cappellano, inginocchiato accanto a Gwydolwyn che agonizzava. «Grazie per la spada, prete.»
Il cappellano alzò la testa e mi guardò negli occhi. Da dov’era venuto? Era stato lì tutto il tempo? Ma se era stato lì tutto il tempo... chi era? Chi era, al diavolo? «È tutto nelle mani di Dio», disse, quindi si chinò di nuovo su Gwydolwyn. «Et lux perpetua luceat ei...»
Nonostante tutto non mi convinse. Non mi convinse né con la prima, né con la seconda frase. In fondo, ero io Moroldo. Ero io la Decisione. E la luce eterna? Sapevo com’era quella luce. Lo sapevo meglio di lui.
Più tardi, trovammo Isotta.
Nel bagno, col viso premuto contro il piancito. La pulita, pedante Isotta dalle Bianche Mani non avrebbe potuto farlo in nessun altro posto che sul pavimento di pietra, accanto al canale di scolo dell’acqua. Ora quel canale scintillava per tutta la sua lunghezza di un rosso scuro, rappreso.
Si era tagliata le vene su entrambe le braccia. Con perizia, in modo che fosse impossibile salvarla anche se l’avessimo trovata prima. Lungo tutti gli avambracci, nella parte interna. E in diagonale sui polsi. In croce.
Aveva le mani ancora più bianche del solito.
E allora, che ci crediate o no, capii che la barca senza timone odorosa di mele stava allontanandosi dalla riva. Senza di noi. Senza Moroldo dell’Ulster. Senza Brangania di Cornovaglia. Ma non vuota.
Addio, Isotta. Addio per sempre. A Tír Nan Óg o ad Avalon, il candore delle tue mani durerà per sempre, per l’eternità.
Addio, Isotta.
Lasciammo Carhaing prima dell’arrivo di Caerdin. Non avevamo voglia di parlare con lui. Né con lui, né con chiunque poteva trovarsi sul ponte della nave che giungeva dalla Cornovaglia, da Tintagel. Per noi, ormai, la leggenda era finita. Non ci interessava che cosa ne avrebbero fatto i menestrelli.
Si era di nuovo annuvolato, piovigginava. Normalmente, com’è tipico in Bretagna. Davanti a noi c’era il sentiero. Il sentiero attraverso le dune, verso la spiaggia sassosa. Non volevo pensare a cosa sarebbe avvenuto poi. Non aveva importanza.
«Ti amo, Moroldo», disse Brangania senza guardarmi. «Ti amo, che tu lo voglia o no. Che io lo voglia o no. È come una malattia. Come un languore che mi toglie la possibilità di una libera scelta, che mi fa affondare in un abisso. Mi sono smarrita in te, Moroldo, non mi ritroverò più, non mi ritroverò più com’ero prima. E se ricambierai il mio amore ti perderai anche tu, scomparirai, sprofonderai nel baratro, non troverai più il vecchio Moroldo. Perciò rifletti bene, prima di rispondermi.»
La nave era accanto al molo di pietra. Ne stavano scaricando qualcosa. Qualcuno gridava e imprecava in gallese, incitando i portatori. Le vele venivano ammainate. Le vele...
«È una terribile malattia, questo amore», proseguì Brangania, osservando anche lei le vele della nave. «La maladie, come dice la gente del Sud, dell’interno del Paese. La maladie d’espoir, la malattia della speranza. La cecità compiaciuta, che fa danno a chiunque sia intorno. Ti amo, Moroldo, con cecità compiaciuta. Non mi preoccupa il destino di coloro che senza volere posso coinvolgere nel mio amore, che posso danneggiare e calpestare. Non è terribile? Ma se ricambierai il mio sentimento... Rifletti bene, Moroldo, prima di rispondermi.»
Le vele...
«Siamo come Tristano e Isotta», disse Brangania, e la voce le si spezzò pericolosamente. «La maladie... Che ne sarà di noi, Moroldo? Che cosa avverrà di noi? Anche noi alla fine saremo uniti soltanto da un cespuglio di biancospino o di rose selvatiche che germoglierà da un sepolcro di berillo per avviluppare coi suoi rami un altro sepolcro, quello di calcedonio? Ne vale la pena? Moroldo, rifletti bene prima di rispondermi.»
Non avevo intenzione di riflettere. Credo che Brangania lo sapesse. Lo vidi nei suoi occhi, quando rivolse il viso verso di me.
Sapeva che eravamo stati mandati a Carhaing per salvare la leggenda. E lo avevamo fatto. Nel modo più sicuro.
Iniziandone un’altra.
«So che cosa provi, Brangania», dissi, guardando le vele. «Perché io provo esattamente lo stesso. Questa terribile malattia. La terribile, incurabile maladie. So che cosa provi. Perché mi sono ammalato anch’io, bambina.»
Brangania sorrise, e mi sembrò che il sole si aprisse un varco attraverso le nubi basse tanto era luminoso quel sorriso, che ci crediate o no.
Colpii il cavallo con gli sproni. «E al diavolo i sani, Brangania!»
Le vele erano sporche.
O almeno così mi sembrava.