LE FOSSE

Là dove praticamente la città finiva, oltre il capolinea del tram, oltre i binari del treno nascosti in un avvallamento e il quadrato variopinto degli orti urbani, si stendeva un campo irregolare e accidentato, sporco e pieno di buche, irto di pezzi di cemento e ciuffi di armature di acciaio, fittamente ricoperto di cardi, gramigna, agrostide, crespigno e amaranto.

Era una striscia di terra di nessuno, una zona cuscinetto tra la parete di pietra dei caseggiati e il lontano bosco di un verde scuro, al quale lo smog conferiva una sfumatura bluastra.

La gente chiamava quel terreno le Fosse. Non era il suo vero nome.

Era una zona sempre deserta, vi s’inoltravano di rado perfino gli onnipresenti bambini che, sull’esempio dei genitori, preferivano giocare in luoghi nascosti tra i sicuri e accoglienti canyon di cemento armato. Solo di quando in quando, e proprio ai margini, vi si radunavano degli ubriaconi, che provavano un’attrazione atavica per il verde. Per il resto, nessuno si avventurava nelle Fosse.

A parte i gatti.

Di gatti ce n’era un’infinità in tutto il quartiere, ma le Fosse erano il loro regno, il loro dominio e rifugio indiscusso. Regolarmente aizzati dai padroni contro i gatti, i cani del quartiere si fermavano al confine di quella landa desolata, quindi facevano dietrofront con la coda tra le zampe, uggiolando. Accettavano con sottomissione le terribili percosse con cui i padroni punivano questa «vigliaccheria»: le Fosse suscitavano in loro una paura più grande delle botte.

Anche la gente si sentiva a disagio nelle Fosse. Di giorno. Perché di notte nelle Fosse non si avventurava nessuno.

A parte i gatti.

Acquattati e circospetti durante il giorno, di notte i gatti si aggiravano nelle Fosse con passo felpato e minaccioso, apportavano le inevitabili correzioni al quantitativo di ratti e topi locali, svegliavano gli abitanti dei palazzi di confine con gridi laceranti che preannunciavano un accoppiamento o un combattimento sanguinoso. Di notte i gatti si sentivano al sicuro nelle Fosse. Di giorno no.

Gli abitanti del quartiere non amavano i gatti. Considerato che di quando in quando erano soliti tormentare atrocemente le creature che amavano e che tenevano nei loro nidi di pietra, l’espressione «non amavano» riferita ai gatti assumeva un significato particolare, fosco. Capitava che i gatti si chiedessero dove risiedesse la ragione di quello stato di cose. C’erano svariate opinioni: la maggior parte dei gatti riteneva che la colpa fosse di quelle quisquilie apparentemente insignificanti che in maniera lenta ma efficace uccidevano e conducevano alla follia gli uomini, gli acuminati e micidiali aghi di asbesto che avevano nei polmoni, le radiazioni mortali che emanavano dai pannelli di cui erano fatte le pareti delle loro abitazioni, l’aria acida e nociva incessantemente sospesa sopra la città. Come stupirsi, dicevano i gatti, che qualcuno in bilico sull’orlo dell’annientamento, intossicato, consumato da veleni e malattie, odi la vitalità, l’agilità e la forza? Che un essere sconvolto, che non conosce requie, reagisca con rabbia e furore alla calma tiepida, soffice e ronfante degli altri? No, non c’era nulla di cui stupirsi. Bisognava piuttosto essere vigili, bisognava fuggire con quanta forza si aveva nelle zampe, con balzi il più lunghi possibile, quando si scorgevano all’orizzonte sagome a due gambe, grandi o piccine che fossero. Bisognava guardarsi da un calcio, da un bastone, da un sasso, dai denti di un cane aizzato dal padrone, dalla ruota di una macchina. Bisognava saper riconoscere la crudeltà che si celava dietro un «micio, micio» sibilato attraverso i denti serrati. Tutto qui.

Tuttavia tra i gatti c’era anche chi riteneva che la ragione dell’odio risiedesse altrove. Che si celasse nei Tempi Antichi.

I Tempi Antichi. I gatti sapevano dei Tempi Antichi. Immagini dei Tempi Antichi apparivano di notte nelle Fosse.

Perché le Fosse non erano un luogo normale. Durante le notti di luna accompagnate dal canto dei grilli, i gatti vedevano immagini accessibili esclusivamente alle loro pupille gattesche. Immagini appannate, tremolanti. Cortei di fanciulle dai lunghi capelli intorno a strani edifici di pietra, urla folli e salti intorno a corpi mutilati appesi a impalcature di legno, file di uomini incappucciati con delle torce, case in fiamme con torri coronate dal segno della croce, le stesse croci, ma rovesciate, conficcate nella terra nera, pulsante. Roghi, pali e forche. E un uomo nero che gridava parole. Parole che – i gatti lo sapevano – erano il vero nome del luogo chiamato le Fosse.

Locus terribilis.

In notti simili i gatti avevano paura. I gatti sentivano tremare la Cortina. Allora si appiattivano a terra, conficcavano gli artigli nel suolo, aprivano le piccole bocche baffute senza emettere suono. Aspettavano.

E allora risuonava la musica. Una musica che soffocava l’inquietudine, calmava la paura, recava beatitudine, annunciava sicurezza.

Perché, oltre ai gatti, nelle Fosse abitavano i Musicanti.

IL VEEHAL

La giornata cominciò come tutte le altre: dopo un’alba gelida si riscaldò e s’impigrì in una tiepida mattinata autunnale, s’illuminò con l’estate di San Martino al suo zenith, si rischiarò e annebbiò verso sera, cominciò a spegnersi.

Accadde in maniera del tutto inaspettata, di punto in bianco, senza preavviso. Il Veehal squarciò l’aria, volò tra le erbacce come un turbine, si moltiplicò nell’eco che si riverberava sulle pareti di pietra dei palazzi. Una paura mostruosa fece rizzare le pellicce striate e pezzate, appiattire le orecchie, scoprire i denti.

Veehal!

Tormento e morte!

Assassinio!

Veehal!

La Cortina! La Cortina si strappa!

E la musica.

La calma.

Le sirene delle ambulanze si riversarono negli orti urbani solo più tardi. Solo più tardi cominciò il folle viavai degli uomini vestiti di bianco e di azzurro. I gatti stavano a guardare dai nascondigli, tranquilli, indifferenti. Non era più affar loro.

Gli uomini correvano, gridavano, imprecavano. Gli uomini estraevano dalle pergole corpi massacrati, deformi, che grondavano sangue attraverso i lenzuoli bianchi. Gli uomini vestiti di azzurro tiravano via da una rete metallica altri uomini, quelli che accorrevano dal quartiere. I gatti stavano a guardare.

Uno degli uomini vestiti di azzurro uscì barcollando nello spazio aperto, vomitava, soffocava. Qualcuno urlava, erano urla orribili. Le portiere delle macchine sbatterono furiosamente, poi, di nuovo, urlarono le sirene.

I gatti facevano sommessamente le fusa. I gatti ascoltavano la musica. Tutto ciò non era più affar loro.

IL PUSTOLOSO

Invischiato nella rete di toni che congiungevano e incollavano la Cortina strappata col delicato filo della musica, il Pustoloso indietreggiò, seminando tutt’intorno goccioline di sangue che colavano dagli artigli e dai denti. Indietreggiò, scomparve e, quando il materiale appiccicoso gli impedì di varcare di nuovo il passaggio, riversò per l’ultima volta, ormai da dietro la Cortina, il suo odio, la sua rabbia e la sua minaccia verso i Musicanti.

La Cortina si rimarginò, sparì l’ultima traccia dello strappo.

I MUSICANTI

I Musicanti sedevano all’ombra di una stufa ammaccata, annerita, sepolta a metà nella terra.

«È andata», disse Kersten. «Per questa volta è andata.»

«Sì», confermò Itka. «Ma la prossima volta... Non lo so.»

«Ci sarà una prossima volta», sussurrò Pasiburduk. «Itka? Ci sarà una prossima volta?»

«Senza dubbio. Non li conosci? Non sai a che cosa stanno pensando ora?»

«No, non lo so.»

«Io invece lo so», borbottò Kersten. «Lo so bene, perché li conosco. Pensano alla vendetta. Perciò dobbiamo trovarla.»

«Sì», disse Itka. «Dobbiamo trovarla, una buona volta. Solo lei può fermarli. È in contatto con loro. E, quando sarà tra noi, ce ne andremo di qui. Andremo a Brema. Dagli altri. Sì, come impone la Legge. Dobbiamo andare a Brema.»

LA STANZA AZZURRA

La stanza azzurra viveva di vita propria. Respirava l’odore dell’ozono e della plastica riscaldata, del metallo, dell’etere. Vi pulsava come sangue l’elettricità che ronzava nei cavi isolati, negli interruttori che mandavano bagliori oleosi, nei tasti e nelle spine. Vi tremolava il tenue chiarore degli schermi, la moltitudine dei malvagi occhietti rossi dei sensori. Si beava della maestà del cromo e del nichel, della serietà del nero, della dignità del bianco. Viveva.

Incuteva rispetto. Dominava.

Debbe si mosse nella morsa delle cinghie che la costringevano a stare bocconi sul tavolo coperto da un lenzuolo e da un’incerata. Non sentiva dolore; gli aghi infilati nel cranio e le lamine dentellate fissate alle orecchie non facevano più male, l’intricata corona di fili le pesava soltanto, la deturpava, la intralciava vergognosamente, ma aveva smesso di provocare dolore. Con uno sguardo immobile, incolore, Debbe osservava il geranio sul davanzale. In quella stanza, il geranio era l’unica cosa che vivesse di una vita propria, indipendente.

A parte Iza.

Iza, curva sul tavolo, scriveva svelta, coprendo di una scrittura minuta le pagine del quaderno e battendo di quando in quando con le dita sui tasti del computer.

Debbe prestava ascolto al polso della Stanza.

«Be’, piccola», disse Iza, girandosi. «Cominciamo. Tranquilla.»

Un interruttore scattò, i motori ronzarono, vibrarono le enormi bobine, le lucine rosso sangue lampeggiarono. Nelle finestre rotonde e quadrettate degli schermi correvano saltellando topini luminosi. I pennini cominciarono a tremare, a ondeggiare come sottili zampe di ragno, linee crestate presero a strisciare sui rulli.

Debbe

Iza mordicchiava la biro, gli occhi fissi sulle file di cifre che emergevano sullo schermo del monitor in maniera sorprendentemente regolare, sulle linee, sui diagrammi a scatola. Borbottava sottovoce, scriveva a lungo nel quaderno. Fumava. Scorreva le stampate. Infine l’interruttore scattò.

vedeva il geranio. Sentiva secchezza nelle narici, un caldo gelido che scendeva dalla fronte agli occhi. Un intorpidimento, un intorpidimento in tutto il corpo.

Iza scorreva le stampate. Alcune le accartocciava e le gettava nel cestino strapieno, altre, segnate con veloci tratti di biro, le pinzava e le sistemava in una pila ordinata.

La Stanza viveva.

«Un’altra volta», disse Iza. «Un’altra volta, piccola.»

Debbe

Lo schermo azzurro faceva apparire come per magia zigzag e linee, accumulava colonne di cifre in strati regolari. Il pennino, ondeggiando in maniera fluida e tranquilla, disegnava sul rullo un orizzonte fantastico.

S i a m o n o i. D e v i

si stupì, sentendo quella voce. Prima di allora non aveva mai sentito quella voce, una voce più forte della voce della Stanza, più forte del tremendo calore che le gorgogliava nel cervello. Gli aghi conficcati nella sua testa presero a vibrare.

Musica! Musica! Musica!

La linea rossa sullo schermo schizzò in alto, il pennino si mosse di scatto e disegnò ondeggiando tre o quattro tratti spessi.

v e n i r e c o n n o i a B r e m a.

«Che cosa c’è, maledizione?» sussurrò Iza, lo sguardo fisso sullo schermo. Dimenticando la sigaretta che ardeva nel portacenere, se ne accese un’altra. Premeva gli interruttori l’uno dopo l’altro, provando a controllare gli schermi impazziti. «Non ci capisco niente. Che succede, piccola?» Infine fece ciò che era necessario. Staccò la corrente.

«Nooo», disse Debbe con voce strascicata. «Non voglio, bionda. Non vogliooooo!»

Iza si alzò, le accarezzò la testa e la schiena. Tutte le linee sullo schermo schizzarono in alto e il pennino cominciò a scuotersi violentemente. Iza non lo vedeva. «Povera gattina», disse, accarezzando la pelliccia setosa di Debbe. «Povera micina. Sapessi che pena mi fai. Ma renderai un servigio alla scienza, micetta. Renderai un servigio alla scienza.»

Alle spalle di Iza il cursore del computer trotterellò a destra, scrisse in file di piccole lettere spigolose INCORRECT STATEMENT e si spense. Completamente.

Il pennino si fermò sul rullo.

Il topino luminoso sullo schermo rotondo quadrettato pigolò un’ultima volta e si bloccò.

Iza, sentendo d’un tratto la debolezza oscurarle gli occhi, si lasciò cadere pesantemente sullo sgabello bianco a tre gambe. La musica, pensò, da dove...

Debbe faceva le fusa commossa, adattandosi facilmente e senza sforzo, in maniera sciolta e naturale all’armonia dei toni che fluivano da tutte le parti. Vi ritrovava se stessa, il proprio posto, la propria predestinazione. Sentiva che senza di lei quella musica era incompleta, mutila. Le voci che punteggiavano gli accordi lo confermavano. Sei tu, dicevano, sei tu. Credi in te. Sei proprio tu. Credi.

Debbe credeva.

Noi siamo te, dicevano le voci. Ascolta. Ascoltaci. Ascolta la nostra musica. La tua musica. Senti?

Debbe sentiva.

Ti aspettiamo, dicevano le voci. Ti mostreremo la strada per raggiungerci. E, quando sarai tra noi, andremo insieme a Brema. Dagli altri Musicanti. Ma prima devi dare loro un’occasione. Solo tu puoi farlo. Puoi dare loro un’occasione. Ascolta. Ti diremo che cosa è successo. Ti diremo cosa fare per fermarli. Ascolta.

Debbe ascoltava.

Lo farai?

Sì, disse Debbe. Lo farò.

La musica rispose con una cascata di suoni.

Iza fissava il geranio con occhi spenti.

Guardami, bionda, disse Debbe. La M nera sulla fronte della gatta, il marchio della prescelta, il segno del Ragno Lupo, brillava, risplendeva di una metallica lucentezza blu pavone.

Guardami negli occhi.

NEJMAN

«Due», disse l’infermiera. «Sono due. Sono nella stanza del primario. Recka gli ha fatto un caffè. Ma hanno detto di avere fretta.»

«Che cosa può volere da me la milizia?» Iza schiacciò il mozzicone di sigaretta nel piatto di latta traballante del portacenere in corridoio. «Non l’hanno detto?»

«Non hanno detto niente.» L’infermiera storse il viso paffuto. «Sa com’è, dottoressa. Non dicono mai niente.»

«Come faccio a saperlo?»

«Vada, dottoressa. Hanno detto di avere fretta.»

«Vado.»

In effetti erano due. Uno biondo, attraente, un bel pezzo di ragazzo con un giubbetto jeans, l’altro bruno, con un golf scuro.

Vedendola entrare, si alzarono entrambi. Iza si stupì: era un gesto insolito perfino per gli uomini comuni, e assolutamente incredibile per dei miliziani. Poliziotti, si corresse mentalmente, e al tempo stesso si vergognò. Si vergognò del cliché nel quale era incorsa senza volere.

«La dottoressa Przemęcka», constatò il biondo.

«Sì.»

«Izabella Przemęcka?»

«Sì. Sedetevi, prego. Vi ascolto.»

Il biondo sorrise. «Eh, no. Sono io che ascolto lei.»

«Non capisco, signor...»

«Commissario. È l’equivalente del vecchio tenente.»

«Intendevo il nome, non il grado.»

«Nejman. Andrzej Nejman. E questo è l’assistente Zdyb. Mi scusi, dottoressa. Pensavo che le presentazioni fossero superflue, visto che già mi conosce. Mi ha telefonato. Storpiando il mio cognome. E il grado, come l’ha chiamato spiritosamente lei stessa.»

«Io?» Iza era sinceramente stupita. «Io le ho telefonato? Mi scusi, ho supposto fin dall’inizio che si trattasse di un errore. E ora ne sono certa. Non ho mai chiamato la milizia. Mai. Mi confonde con un’altra persona.»

«Signora Iza», disse Nejman in tono serio. «La prego caldamente di non rendermi il compito più difficile. Sto lavorando sul caso dell’omicidio commesso negli orti urbani Rosa Luxemburg, ora Generale Anders. Ne avrà sentito sicuramente parlare: tre adolescenti sono stati massacrati con una falce, un falcetto, una gaffa o un attrezzo simile. Ne ha sentito parlare? Non è lontano di qui, in periferia.»

«Sì, ne ho sentito parlare. Ma io che cosa c’entro?»

«Non lo sa? Lei si occupa di una delle vittime del delitto. Una vittima indiretta, come diciamo noi. Elżbieta Gruber, nove anni. La bambina che ha assistito a tutto lo svolgimento dell’accaduto, del delitto. È ricoverata in questo ospedale. Ho sentito che se ne occupa lei.»

«Ah, la bambina in coma... No, signori, non è mia paziente. Il dottor Abramik...»

«Il dottor Abramik, col quale ho già parlato, sostiene che lei è molto interessata a questo caso. La Gruber è una sua parente?»

«Ma come le viene in mente... Non è una mia parente, non la conosco. Non sapevo neppure il suo nome...»

«Signora Iza, la smetta. Tolek, per favore.»

Il bruno frugò nella borsa e ne estrasse un piccolo registratore piatto, un National Panasonic.

«Da noi le conversazioni vengono registrate», disse Nejman. «Anche la sua conversazione con me è stata registrata. Purtroppo, non dall’inizio...» Suo malgrado, il commissario arrossì. L’inizio della conversazione non era stato registrato per motivi prosaici: nell’apparecchio in quel momento c’era una cassetta di But seriously di Phil Collins, che aveva registrato da un compact disc.

Il bruno spinse un tasto.

«... lascia stare, Nejman», disse la voce di Iza. «Che te ne importa di chi parla? L’importante è ciò che dice. E dice questo: non puoi fare quello che hai in mente. Capisci? Non puoi. Che cosa vuoi ottenere? Vuoi sapere chi ha ucciso i ragazzi negli orti urbani? Posso dirtelo io, se vuoi.»

«Sì», disse la voce del commissario. «Lo voglio. La prego, mi dica chi è stato.»

«È stato chi è passato attraverso la Cortina strappata. Quand’è risuonato il Veehal, la Cortina si è strappata e lui è passato. Quando la Cortina si strappa, chi si trova nelle vicinanze è perduto.»

«Non capisco.»

«E non devi», disse la voce di Iza in tono brusco. «Non devi affatto capire. Devi semplicemente prendere atto che io so cosa intendi fare. So pure che non è lecito farlo. E condivido semplicemente con te questa informazione. Se non mi darai ascolto, le conseguenze saranno terribili.»

«Un momento. Doveva dirmi chi...»

«Te l’ho già detto», lo interruppe la voce di Iza.

«Dunque lo ripeta, per favore.»

«E perché? Pensi di poter fare qualcosa a colui che sta dietro la Cortina? Ti sbagli di grosso. È al di fuori della tua portata. Ma tu... tu sei alla sua. Stai in guardia.»

«Mi sta minacciando.» Era un’affermazione, non una domanda.

«Sì», disse la voce di Iza, impassibile. «Ti sto minacciando. Ma non sono io a minacciarti. Non sono io. Ci sono molte cose, molti fatti che non posso spiegarti, non riesco a trovare le parole giuste. Ma una cosa posso farla... posso avvertirti. Non ci sono già state troppe vittime? I ragazzi, Elżbieta Gruber. Non fare ciò che hai progettato, Nejman. Non farlo.»

«Mi ascolti...»

«Basta. Ricorda. Non puoi.»

Si sentì sbattere una cornetta.

«Sicuramente non mi crederà...» cominciò Iza.

«Non mi dà più del tu?» la interruppe Nejman. «Peccato. Era piacevole e diretto. Che cosa non crederò? Che non era lei? In effetti mi sarebbe difficile. E ora, la prego caldamente, l’ascolto. Che cosa ho progettato? E perché non posso farlo?»

«Non lo so. Non ero io... Non era la mia voce.»

«Chi è per lei la piccola Gruber?»

«Non lo so... Nessuno... Io...»

«Chi ha ucciso i ragazzi agli orti?» Nejman parlava piano, non gridava, ma i muscoli della mascella gli tremavano in maniera evidente e costante. «Chi è stato? E perché è al di fuori della mia portata? Perché non è normale, giusto? Se lo acciufferò non andrà in galera, ma in un ospedale come questo? O forse proprio in questo? O forse c’è già stato? Eh? Dottoressa?»

«Non lo so!» Iza sollevò i pugni in un gesto involontario. «Non lo so, le dico! Non sono stata io a chiamare! Non ero io!»

Nejman e l’assistente Zdyb rimasero in silenzio.

«So che cosa sta pensando», disse lentamente Iza.

«Ne dubito.»

«Sta pensando... che è come in quella barzelletta... che ci distinguiamo dai pazienti solo perché la sera torniamo a casa.»

«Brava», disse Nejman senza sorridere. «E ora l’ascolto.»

«Io... non so niente. Non sono stata io a telefonare.»

«Dottoressa.» Il suo tono era calmo e accattivante, come se parlasse a una bambina. «D’accordo, lo so che un nastro magnetico costituisce una prova debole. Che lei può negare. Può perfino cavalcare l’onda che va per la maggiore e denunciarci per manipolazione, per contraffazione di prove, per ciò che vuole. Ma se davvero la sera torna a casa a buon diritto, e non solo grazie a un errore di diagnosi, capirà quali saranno le conseguenze quando la faccenda verrà fuori. E la faccenda verrà fuori senz’altro. Deve venire fuori, perché il caso vuole che i ragazzi uccisi avessero genitori importanti, e nessun potere fermerà l’inchiesta, anzi, il contrario. E allora sa che cosa succederà.»

«Non capisco di cosa stia parlando.»

«Allora glielo dirò io. Lei pensa che, se il maniaco degli orti è un suo parente o qualcuno che le è vicino, non risponderà penalmente per averlo coperto. Può darsi. Ma oltre alla responsabilità penale ce n’è un’altra. Se risulterà che lei ha coperto un maniaco omicida, avrà chiuso con questo ospedale e con tutti gli altri ospedali psichiatrici del mondo. Solo il buonsenso può salvarla. Aspetto che lo dimostri.»

«Signor... Le ripeto che non so assolutamente di cosa si tratta», disse Iza abbassando la testa. «Non era la mia voce, mi capisce? Simile, ma non la mia. Non era il mio modo di esprimermi. Io non parlo così. Può chiedere a chi vuole!»

«L’ho fatto», disse Nejman. «Molte persone l’hanno riconosciuta. So anche da quale apparecchio ha chiamato. Rifletta seriamente, signora Iza. La smetta di farsi guidare dalle emozioni. Abbiamo a che fare con un assassinio, con un bestiale omicidio commesso ai danni di persone. Persone, intesi? Deve capire che ciò non può essere giustificato in nessun modo, e certo non con la preoccupazione per il bene degli animali. Questo delitto è la tipica manifestazione della reazione di un paranoico, di un maniaco. Ha vendicato un gatto, ha ucciso i ragazzini che lo tormentavano. Domani assassinerà qualcuno che avrà picchiato un cane. E dopodomani ammazzerà lei, perché avrà schiacciato una forbicina sul marciapiedi.»

«Ma di cosa sta parlando?»

«Sono convinto che sa benissimo di cosa sto parlando. Perché sa chi è stato e perché l’ha fatto. Perché l’ha curato, o lo cura ancora, e sa in che cosa consiste – mi perdoni l’espressione – la fissazione del suo paziente. È qualcuno – mi perdoni – schizzato per il benessere degli animali.»

«Signor Nejman», disse Iza, con le mani che le tremavano in modo incontrollabile e un peso sullo sterno. «È lei lo schizzato. Mi perdoni. Mi arresti pure. Oppure mi lasci in pace.»

Nejman si alzò, imitato dall’assistente Zdyb. «Peccato. Peccato, signora Iza. Tuttavia, se si decidesse, la prego di telefonarmi.»

«Non ho nulla su cui decidermi. E non ho il suo numero.»

«Ah, già.» Nejman scosse la testa e la guardò negli occhi. «Capisco. Peccato. Arrivederci, signora Iza.»

CHĘCLEWSKI

«Signor Chęclewski», disse il commissario di polizia Nejman. «Pensavo di avere a che fare con una persona seria.»

«Ehi!» L’avvocato alzò la mano in un gesto ammonitore. «Stia attento. Non siamo in commissariato. Di cosa parla, maledizione?»

L’assistente Zdyb non nascose la sua rabbia. «Vede, circolano tante barzellette sui miliziani, e così poche sugli avvocati. E a quanto pare ingiustamente.»

«Un’altra parola e sbatto fuori tutti e due», disse lentamente Chęclewski. «Che sciocchezze sono queste? Come vi permettete, signori miliziani?»

«Poliziotti, se non le dispiace.»

«Poliziotti da strapazzo. L’assassino di mio figlio è in libertà, e voi venite qui a raccontare stupidaggini. Be’, avanti, vuotate il sacco. Il mio tempo è denaro, signori.»

«Lei parla troppo», disse Nejman. «Se si lascia andare, chi la ferma più? Parla con noi, ma il peggio è che parla anche con altri. E così va tutto a puttane, signor avvocato.»

«Che cos’è andato a puttane? Siate più chiari, signori.»

«Il cognome Przemęcka le dice qualcosa? Dottoressa Przemęcka, del manicomio.»

«Non ho conoscenze tra i pazzi. Chi sarebbe?»

«Una che sa tutto del nostro piano. Non l’ha saputo da noi. Ne consegue che l’ha saputo da lei. E in tal caso non sarà l’unica.»

«Sciocchezze, ossia bullshit.» Chęclewski si raddrizzò. «Del piano siamo al corrente esclusivamente io e voi due. Non ne ho parlato a nessuno. Siete stati voi a lamentarvi, a lagnarvi di non poter fare niente senza che lo sapessero i vostri superiori. Dunque avete informato i superiori, e i superiori hanno sicuramente informato mezza città, compresa la dottoressa Przemęcka o come si chiama. Quod erat demonstrandum, ossia come volevasi dimostrare. Peccato, signori. Quanto a lei, si è sbagliato, signor Zdyb. Nelle barzellette sui miliziani c’è molta verità.»

«Non ne abbiamo parlato a nessuno», disse l’assistente, arrossendo. «A nessuno, mi sente? Né ai superiori, né alle nostre mogli. A nessuno.»

«Va bene, va bene. I miracoli non esistono. A meno che... Forse quella dottoressa del manicomio, come dite, ha voluto semplicemente abbindolarvi. Bluffare. Che cosa vi ha detto? Quando? In quale occasione?»

«Senta lei stesso. Dammi il registratore, Andrzej.»

Stavano seduti e fumavano una sigaretta dietro l’altra. Nejman osservava un balcone della casa di fronte, dove un tizio calvo stava montando con l’aiuto di alcuni amici una grande parabola molto simile a un’antenna satellitare. Dal balcone accanto, dove c’era un cavallo a dondolo dai colori vivaci, un porcellino d’India pezzato strisciò verso il gruppetto. Il tizio calvo, senza lasciare la parabola, gli diede un calcio. Il porcellino d’India cadde dal balcone. Nejman non si alzò per vedere che cosa ne era stato. Erano all’ottavo piano.

«Sììì», disse l’avvocato dopo avere ascoltato la registrazione sino alla fine. «Ma ha tutte le rotelle a posto, questa dottoressa? Conoscete la barzelletta...»

«La conosciamo», disse l’assistente Zdyb.

«La Cortina. Quale Cortina? E quel... wehal o come... Vaneggiamenti. Questa dottoressa... Przesmycka?»

«Przemęcka.»

«La conoscete? Avete verificato che tipo è?»

«Sì. Giovane, senza una grande pratica clinica, pochi contatti coi pazienti. Si occupa di non so che ricerche. È complicato, maledizione, si tratta di onde cerebrali, neuroni, l’ho dimenticato.»

«Una dottoressa Frankenstein svitata», disse l’avvocato con una smorfia. «Sapete una cosa? Io non mi preoccuperei di tutta questa storia.»

«Per me è tutto il contrario», disse Nejman. «Anzi, le dirò che ho già cominciato a preoccuparmene. Signor Chęclewski, nella polizia non è ancora finita, le purghe continuano. Qualcuno può avere tutto l’interesse a farmi fuori. E una dottoressa un po’ toccata è un mezzo di provocazione come qualsiasi altro, né migliore né peggiore. Ci sono già passato.»

«Lei è un egocentrico, signor Andrzej», disse Chęclewski. «Mi scusi, ma la sua persona in questa faccenda conta poco.»

Il commissario sorrise. «Magari fosse così. Non avrei di che preoccuparmi. Ma anche lei, caro signor Chęclewski, deve aver preso una cantonata. Dopo la telefonata della dottoressa avrei messo la mano sul fuoco che suo figlio fosse stato ucciso da un pazzo qualunque. Che non si è trattato di una vendetta. Indipendentemente da chi ha difeso durante lo stato di guerra e perché, e a quanti segretari ha pestato i piedi. Lei non è Piasecki.2 Mi scusi.»

«La conclusione?» L’avvocato era leggermente arrossito.

«Chiara come il sole. Se si tratta di un pazzo, dal punto di vista della legge è un uomo malato. Malato, capisce, avvocato?»

«Quando sento certe cose mi prudono le mani!» esplose Chęclewski. «Malato, il figlio di puttana! Il mio Maciek, l’ha... Malato!»

«La capisco. Anche a me prudono le mani. Ma non c’è niente da fare e quella dottoressa l’ha detto chiaro e tondo. Supponiamo che bluffi, che non sappia nulla del nostro piano. Ma poteva intuirlo, dunque mi ha avvertito. Mi ha chiaramente avvertito.»

«Lei ha rintracciato un avvertimento nei suoi vaneggiamenti? Quale avvertimento?»

«Non si scaldi. Mi ha avvertito di non provare a prendere il pazzo usando metodi brutali. Posso arrestarlo persuadendolo con le buone, mettergli una camicia di forza e passarlo agli specialisti. Affinché lo curino.»

«Si è spaventato, signor Andrzej, perciò ha interpretato male», disse l’avvocato, intrecciando le dita. «Anch’io ho ascoltato quella registrazione. E il punto fondamentale era tutt’altro. Ascolti. Facciamo un gioco. Io sarò lei, e lei sarà il suo colonnello o ispettore di polizia, come si chiama adesso, se non mi sbaglio. Ascolti, signor ispettore. Ho analizzato la strana conversazione con la dottoressa Ics. Mi ha colpito che abbia usato parecchie volte parole dalle quali si evince che il pazzo sospettato è terribilmente pericoloso. Ciò si è insinuato così profondamente nel mio subconscio che, quando si è giunti a un confronto, mi sono saltati i nervi. Vedendolo attaccare con un oggetto pericoloso, mi sono servito dell’arma di ordinanza, senza superare il confine della legittima difesa. Come? Nessun abuso, ispettore? Una buona interpretazione?»

«Può ficcarsela nel culo, la sua interpretazione», disse tranquillamente Nejman. «Questo, si capisce, è quanto direbbe il mio ispettore. Avvocato, lei sa bene che cosa significa legittima difesa nel caso di un poliziotto armato, per giunta consapevole di avere a che fare con qualcuno dalla limitata capacità d’intendere e di volere. Non siamo in America. Non ho nessuna intenzione di finire in galera.»

L’avvocato si fece pensieroso, tacque per un lungo istante e infine disse: «E va bene. Forse tutto sommato ha ragione, signor Nejman. Dunque che facciamo?»

«Annulliamo l’accordo.»

«Be’, ora sta esagerando un po’, non crede? Capisco, di una sparatoria non se ne parla, e neppure di un altro incidente serio. Ma il tizio può opporre resistenza. Scappare. Può inciampare e sbattere per bene la testa. Ho sentito di casi del genere, ne ho ascoltati fino alla nausea dai miei clienti. A proposito, signori, sapete che alcuni dei miei clienti ora sono a Varsavia?»

«E questo cosa c’entra?»

«C’entra eccome. La mia proposta è la seguente: manteniamo in vigore l’accordo. Offro condizioni vantaggiose. Se mi permetterete di prendere personalmente parte all’azione, se potrò avere la soddisfazione di toccare con mani e piedi l’assassino di mio figlio, vi procurerò sostegno molto in alto nel caso di ulteriori purghe nella polizia o di complicazioni inaspettate nel nostro piano. Se sarà necessario, i miei amici a Varsavia chiuderanno la bocca alla dottoressa Przemęcka degli schizzati, non tema. Be’, a questo va aggiunta come d’accordo una concreta gratificazione finanziaria per voi due.»

«Tre», disse l’assistente Zdyb.

«Come sarebbe, diavolo?» si spazientì Chęclewski. «Tre? Tre è un sacco di gente, quello che si dice una folla. Perché tre?»

«Per rendere attendibile il rapporto. Da noi si fa sempre così. Un terzetto di muratori. Avvocato, a lei compete la teoria, a noi la tecnica. Ce ne intendiamo.»

«Ma almeno il terzo è fidato?»

«Al cento per cento, ossia a hundred per cent

«E sia», disse l’avvocato con una smorfia. «Allora? Signor Nejman, spero si sia convinto.»

«Non del tutto», rispose il commissario. «Tolek? Che ne pensi?»

«Dovrebbe andar bene», disse l’assistente. «C’è solo una cosa che mi dà da pensare. Siamo saltati troppo in fretta alla conclusione che si tratti di un malato psichico. Potrebbe essere uno di quei verdi, Greenpeace, capite? Un amante degli animali. Ha visto che i ragazzi torturavano un gatto e gli ha dato di volta il cervello. Ho letto di un caso simile, forse su Przekrój. A un tizio avevano accecato il cane o il gatto, non ricordo più. Mentre leggevo, ho percepito che nel descrivere il fatto il tizio aveva scaricato la sua rabbia, il suo dolore, il suo desiderio di vendetta. Un altro magari si sarebbe sfogato diversamente. Avrebbe preso un coltello, una scure, l’asse di uno steccato e avrebbe vendicato il suo cane.»

«Ciò conduce alla stessa conclusione», disse Chęclewski. «Chi reagisce così è uno svitato. Quod erat demonstrandum.»

«Ciò non conduce affatto alla stessa conclusione», ribatté Nejman. «Magari la fissazione per gli animali non viene considerata una malattia dagli psichiatri. Dal loro punto di vista quel tizio sarà perfettamente normale e lo ascolteranno, quando racconterà come lo abbiamo acchiappato e che cosa gli abbiamo fatto.»

«Nella mia carriera ne ho visti tanti raccontare che cosa avevano subito dai poliziotti», disse l’avvocato, con un sorriso storto. «Ma non ricordo nessuno cui sia stata prestata formalmente fede. E, anche se racconterà in che modo lo avete preso, ebbene? Pensate che qualcuno si preoccuperà di uno stupido gatto?»

«Forse no», disse Zdyb. «Ma... e se qualcuno che non ha niente a che fare col caso sentirà il gatto? E correrà a vedere che cosa succede?»

«Stai scherzando, Tolek», disse Nejman scrollando le spalle. «Di questo proprio non mi preoccuperei. A chi può importare di un gatto?»

«A proposito di gatti», disse Chęclewski. «Dobbiamo procurarcene uno.»

«Su questo non dovrebbero esserci problemi», disse Nejman. «È pieno di gatti. I mocciosi della mia vicina, per esempio, ne hanno uno. Dovrebbe fare al caso nostro.»

IZA

Iza giaceva tranquilla, come se temesse che il minimo movimento potesse far fuggire quel segnale sempre più lontano e inafferrabile, l’avvisaglia ingannevole e menzognera di un irrealizzabile orgasmo. L’uomo stretto a lei respirava regolarmente, ritmicamente, doveva essersi già assopito. In lontananza risuonava sommesso l’allarme di un’auto.

«Henio», disse lei.

L’uomo, strappato al dormiveglia, sussultò e avvicinò il viso alla sua spalla nuda. «Che c’è, Izunia?»

«Non sto bene, Henio.»

«Di nuovo?» si spaventò l’uomo. «Maledizione, dovresti regolare il tuo ciclo, Iza.»

«Non si tratta di questo.»

L’uomo aspettò un momento, ma Iza non continuava. «Dunque?» chiese infine.

«Henio... Di che cosa sono sintomo i vuoti di memoria?»

«Perché lo chiedi? Ne hai?»

«Ultimamente, spesso. Piuttosto lunghi. E anche allucinazioni. Illusioni uditive. Inganni sensoriali.»

L’uomo guardò discretamente l’orologio.

«Henio.»

«Ho sentito», borbottò lui, leggermente spazientito. «E allora? Sei una specialista. Qual è la tua diagnosi? Anaemia cerebri? Incipiente schizofrenia? Astrocitoma al lobo frontale? Qualche altra porcheria che comprime il mesencefalo? Iza, ogni psichiatra trova in sé vari sintomi simili, è una semplice deformazione professionale. Devo dirti quanto poco sappiamo del cervello, dei processi che vi hanno luogo? Secondo me, sei semplicemente stressata. Non dovresti trascorrere tante ore coi tuoi gatti, accanto a quell’apparecchiatura. Sai bene quanto siano nocivi l’alta frequenza, i campi, le radiazioni degli schermi. Molla tutto per un po’, prenditi le ferie. Riposa.»

Iza si sollevò su un gomito. L’uomo, supino, le accarezzava il seno con un movimento automatico, studiato, che a lei non piaceva.

«Henio.»

«Che c’è?»

«Vorrei che mi esaminassi. Con un EEG o con gli isotopi.»

«Certo, perché no? Ma...»

«Ti prego.»

«Va bene.»

Rimasero in silenzio.

«Henio.»

«Sì?»

«Elżbieta Gruber. È una tua paziente. Che cos’ha veramente?»

«Ti interessa? Ah, è vero, l’ho sentito dire. È un caso piuttosto strano, Iza. L’hanno portata in stato di choc, coi sintomi tipici di un’emorragia. È entrata quasi immediatamente in un coma che non si attenua e non recede. Propendo per l’ipotesi che dopo lo choc sia sopravvenuto uno stato infiammatorio alla base del terzo ventricolo o nell’acquedotto di Silvio.»

«Encephalitis letargica?»

«Già. Perché lo chiedi?»

Iza girò la testa. Fuori della finestra, mescolandosi a un nuovo urlo disperato dell’allarme dell’auto, risuonarono i guaiti di un cane, spezzati, sempre più forti.

«Gli strapperei le gambe, a quel tale», disse Henio, guardando verso la finestra. «Ha problemi sul lavoro o a casa, e si sfoga su un animale, quel bruto.»

«Il Veehal strappa la Cortina», disse lentamente Iza.

«Cosa?»

«Il Veehal. La voce dell’animale torturato. La voce della disperazione, della paura, del dolore che fa impazzire.»

«Iza?»

«Un grido che non è un grido.» Iza parlava sempre più forte. «Il Veehal. Il Veehal strappa la Cortina. Così ha detto... Ela Gruber. Lei l’ha visto.»

«A quanto pare...» farfugliò lui. «Iza! Non ha potuto... La bambina è in coma! Che stai dicendo?»

«Mi parla. Parla e mi ordina di fare certe cose.»

«Iza, dovresti davvero prendere le ferie.» Henio la guardò, fece un sospiro. «Prima però vieni da me, ti esaminerò. È tutta colpa di questo maledetto stress, di questo lavoro tremendo, di questo Paese. Non si possono prendere così a cuore certe cose, Iza.»

Iza si mise a sedere sul letto. «Henio, non capisci cosa sto dicendo? Ela Gruber mi parla. La sento. Ha visto...»

«Lo so che cos’ha visto. È stata sicuramente questa la causa dello choc e dell’emorragia. È stata testimone dell’omicidio agli orti.»

«No.»

«Come sarebbe?»

«Quello è accaduto più tardi. Non poteva più vederlo. Ha visto... una tavola messa sulla testa di un gatto sepolto in terra fino al collo. I piedi che calpestavano la tavola. Gli occhi... Due palline...»

«Cristo santo! Iza? Da dove hai tirato fuori questa roba... Da chi?»

«Me l’hanno... detto...»

«Chi?»

«I Musi... canti...»

«Chi?»

Iza, con la testa bassa sulle ginocchia, era scossa dal pianto.

L’uomo taceva. Pensava a quanto poco siano resistenti le donne, a come si facciano guidare dalle loro emozioni femminili, che impediscono loro di lavorare, impediscono loro di godersi la vita. A che grande disgrazia sia la femminilizzazione di certe professioni assolutamente inadatte alle donne. Iza sta proprio male, pensava. Si preoccupò. Per un po’. Ma poco dopo prese il sopravvento una preoccupazione più seria: che cosa dire a sua moglie una volta tornato a casa? Quel mese aveva già fatto ricorso a tutte le spiegazioni decenti.

Pensò che avrebbe dovuto senz’altro esaminare Iza, farle un EEG, eseguire dei test. Avrebbe potuto farlo addirittura martedì, ma aveva promesso a un collega che martedì sarebbe passato dal suo orto per aiutarlo ad avvelenare le talpe. Maledizione, pensò, oggi ho dimenticato di prendere la stricnina in ospedale. «Prendi le ferie, Iza.»

LA STANZA AZZURRA

«Marylka!» chiamò Iza guardando il tavolo vuoto, coperto da un lenzuolo bianco e da un’incerata, i tubi sparsi qua e là, gli aghi, i sensori, le cinghie di cuoio e le fibbie. «Marylka!»

«Eccomi, dottoressa.»

«Dov’è la mia gatta?»

«La gatta?» chiese l’assistente di laboratorio, stupita.

«La gatta. Quella striata. Quella di cui mi servivo ultimamente. Che cosa le è successo?»

«Ma come? Se lei stessa...»

«’Io’ cosa?»

«Mi ha ordinato di portarla via... Ecco, qui c’è la gabbia. Poi mi ha ordinato di portare del latte. Quando l’ho portato, l’ha dato alla gatta...»

«Io?»

«Sì, dottoressa. E poi ha aperto la finestra. Non ricorda? La gatta è saltata sul davanzale. Allora le ho perfino detto che le sarebbe scappata. E la gatta è scappata. E lei...»

«’Io’ cosa?» Iza sentiva una musica. Si passò una mano sul viso.

«Si è messa a ridere...»

Devo, pensò Iza... devo andare da Ela Gruber.

Perché? A che scopo?

Devo andare da Ela Gruber.

Perché?

Ela Gruber mi chiama.

DEBBE

Debbe correva, ora trotterellando svelta sulle zampette, ora compiendo lunghi balzi. Sapeva dove correre. La musica lontana, il distante richiamo della melodia sommessa le indicavano infallibilmente la strada.

Corse fino al margine dei cespugli, oltre i quali brillava l’asfalto, come la superficie di un fiume avvelenato. Sopra di esso, rombante e sibilante come un drago, sfrecciò ondeggiando un autobus grosso e pesante.

Devo congedarmi da lei, pensò Debbe. Prima di andarmene, devo ancora congedarmi da lei. E avvertirla. Per l’ultima volta. Chissà dov’è Brema?

Saltò.

Fu abbagliata dai fari di un’auto che sopraggiungeva. Per un momento scorse il viso grasso e rosso di un uomo che dava gas e girava bruscamente il volante. L’auto piombò nella sua direzione, lei sentì la macchina vibrare di rabbia, determinazione e sete di uccidere. Balzò via all’ultimo momento, la corrente d’aria le sfiorò il pelo.

Corse lungo la siepe, una piccola ombra striata.

LOCUS TERRIBILIS

I gatti erano ovunque; immobili, a testa alta, guardavano, stavano in ascolto. Giravano il capo seguendo con lo sguardo Debbe che passava, la salutavano miagolando, socchiudendo gli occhi pieni di rispetto. Nessuno si mosse, nessuno si avvicinò. Il segno del Ragno Lupo sulla fronte della gatta divampava nel buio con una luce spettrale.

Debbe sentiva che quel luogo era strano, pericoloso. Coi cuscinetti delle zampe percepiva il pulsare della terra, sentiva sussurrare voci irreali. Per un attimo, dietro la cortina di nebbia tremolante vide... fuoco e croci rovesciate, conficcate nel suolo...

Cominciò a fare le fusa al ritmo della melodia. Le immagini scomparvero.

Da lontano vide una sagoma nera: i resti di una stufa sepolta a metà nella terra, come il relitto annerito di un carro armato su un campo di battaglia. Accanto alla stufa, scure sullo sfondo del cielo, tre piccole sagome. Si avvicinò.

Un cane nero con una zampa storta, piegata.

Un ratto grigio con un lungo musetto baffuto.

E un piccolo criceto rossiccio.

I Musicanti.

LA STANZA GIALLA

«... il brigante tornò dal capo correndo a più non posso», leggeva la nonna in tono monotono, «e fece rapporto. ’Niente da fare, abbiamo perso il nostro covo’, disse. ’In casa c’è un’orribile strega che mi ha soffiato contro e mi ha graffiato il viso con gli artigli. Sulla porta sta in agguato un uomo armato di coltello. Nel cortile ha il suo giaciglio un mostro nero, che mi ha preso a bastonate. E sul tetto era seduto un giudice che ha gridato: ”Portatemi quel furfante!”’»

Il bambino rise con una vocetta argentina. Venerdina, che era stesa sul letto, si raggomitolò, drizzò un orecchio.

«E poi? Leggi, nonna!»

«E questa è la fine della favola. I briganti scapparono e non tornarono più, e il cane, il gatto, l’asino e il gallo si stabilirono nella casetta del bosco e vissero a lungo felici e contenti.»

«E non andarono là... be’, là dove volevano andare?»

«A Brema? No. Non credo. Rimasero a vivere nella casetta.»

«Ah!» Il bambino si fece pensieroso e si mordicchiò un dito. «Peccato. Perché in realtà era là che dovevano andare. Era venuto in mente al cane quando lo avevano cacciato, perché ormai era vecchio. È una cosa molto brutta. Io non permetterò mai che la nostra Fusetta venga cacciata, per quanto possa diventare vecchia.»

Venerdina sollevò la testa e guardò il piccolo con uno sguardo giallo impenetrabile.

«Dormi, Mariuszek. È già tardi.»

«Sì», disse il bambino in tono assonnato. «Anche quando sarà molto vecchia. Da noi, comunque, non ci sono topi. E loro devono andare là, a Brema. Erano tutti... Non portare via Fusetta, nonna. Falla dormire con me.»

«Non si dorme coi gatti...»

«Ma io voglio.»

ELA GRUBER

Iza sollevò la testa, svegliandosi di soprassalto, e passò la mano sul lenzuolo. Fuori della finestra era buio. Era seduta sul letto, e il tocco del lenzuolo la colpì con la sua estraneità, con la certezza brutalmente sincera che...

Non doveva essere lì.

«Mi senti?» disse la bambina che giaceva sul letto.

Iza annuì, confermando l’impossibile. Gli occhi della bambina erano vitrei e vuoti, sul mento le colava un sottile rivolo di bava lucente.

«Senti?» ripeté la bambina, con la pronuncia leggermente blesa, muovendo goffamente le labbra contratte, incollate da una patina biancastra.

«Sì», rispose Iza.

«Bene. Volevo congedarmi da te.»

«Sì», sussurrò Iza. «Ma questo è...»

«Impossibile? È questo che volevi dire? Non importa. Non ci siamo riuscite, non siamo riuscite a fare granché, bionda. Voglio congedarmi da te. Forse ti stupirà, ma... mi ero affezionata al tocco della tua mano. Ascoltami attentamente. Se questa notte risuonerà il Veehal, la Cortina si strapperà. Non so se riusciremo a fermare... quelli. Perciò devi scappare. Che cosa devi fare? Ripeti.»

«Non lo so», gemette Iza.

«Devi scappare!» gridò Ela Gruber, agitando d’un tratto la testa sul cuscino. «Scappare il più lontano possibile dalla Cortina! Non cercare di capire e credi a ciò che vedi! A te sembra di delirare, che sia un sogno, un incubo, e invece è la realtà! Capisci?»

«No... Non capisco. Io... sono impazzita, vero?»

La bambina rimase in silenzio, fissando il soffitto con le pupille piccole come punture di spillo. «Sì. Sono tutti impazziti. Già da un pezzo. Ancora una follia, un minuscolo granello in cima a un’enorme montagna di follie. Quest’ultimo Veehal, che non avrebbe dovuto avere luogo. Chissà, forse sarà oggi? Mi stai ascoltando?»

«Sì», rispose Iza, completamente calma. «Ma io sono una psichiatra. So perfettamente che tu non puoi parlarmi. Sei in coma, priva di coscienza. Non sei tu. La voce che sento è un prodotto del mio cervello malato. È un’allucinazione.»

«Un’allucinazione», ripeté la bambina sorridendo.

È una contrazione dei muscoli facciali, soltanto una contrazione involontaria, pensò Iza. Non c’è niente di spaventoso in questo. Niente di spaventoso, pensò sentendosi venire la pelle d’oca.

«Un’allucinazione, dici», proseguì Ela Gruber. «Cioè qualcosa che in realtà non esiste. Un’immagine falsa. È così?»

«Sì.»

«Che si può sentire. Si può vedere. Ma non c’è. È così?»

«Sì.»

«Quanto siamo diverse, tu e io. Apparentemente il mio cervello è meno sviluppato del tuo, ma io, per esempio, so che ciò che vedo e sento c’è. Esiste. Se non esistesse, come potrei vederlo? E, se esiste e ha artigli, zanne, un pungiglione, bisogna fuggire davanti a lui, perché può mutilarti, schiacciarti, sbranarti. Appunto per questo devi fuggire, bionda. Attraverso la Cortina strappata passeranno allucinazioni. È una buona definizione di qualcosa che non ha una forma propria, ma la trova nel cervello di chi la osserva. Sempre che quel cervello sopporti una simile prova. E sono in pochi a sopportarla. Te lo dico per l’ultima volta: addio, bionda.» La testa di Ela Gruber cadde inerte da un lato, guardando Iza con occhi morti, vitrei.

IL GATTO

«Bene, ci siamo», sussurrò Chęclewski.

Nejman guardò l’orologio. Erano le nove e ventitré. Mentre guardava, l’ultima cifra si mise a ballonzolare come uno scheletro in un cartone animato e si trasformò in un quattro. Sui binari, nel profondo fossato ricoperto di sorbi selvatici dietro uno degli orti urbani, strepitava e rombava un treno.

«Che cosa aspettiamo, maledizione?» chiese l’avvocato, nervoso.

Nejman tirò fuori da un sacchetto di plastica un grosso fagotto avvolto in alcuni asciugamani e legato con una cordicella di juta. Da un’estremità dell’involto sporgevano una testa di gatto bianca e nera, dall’altra la coda e le zampe posteriori della bestiola.

Nejman tirò fuori dalla tasca del giubbetto una tenaglia isolata con plastica arancione.

Poco distante, dietro le pergole, Zdyb, appostato accanto a Wenda, che tirava su col naso chiuso, rabbrividì nel sentire il rumore proveniente dalla parte degli orti.

«Cristo», disse Wenda, soffiandosi il naso. «Deve fargli un male...»

Nelle Fosse i gatti si gettarono a terra scoprendo i denti bianchi, appiattendo le orecchie.

I Musicanti, tutti e quattro, erano pronti.

ZDYB

Il rombo del treno cessò, ne rotolò ancora un’eco lungo le pareti di cemento dei palazzi. E allora l’urlo mostruoso proveniente dagli orti si ripeté, esplose come una granata, si sollevò a un’altezza inaudita, ondeggiante, vibrante, spaventoso.

«Madre di Dio!» gridò Wenda. «Tolek! Questo non è il gatto!»

Zdyb balzò su sbottonandosi il giubbetto, strappò la pistola dalla fondina. Il ruggito – perché ormai era un ruggito, non un grido – s’interruppe, s’incrinò, vibrando come un filo di acciaio reciso da una cesoia. Zdyb correva. Scavalcò la siepe, s’inoltrò nei cespugli di uva spina.

In quel momento la notte fu lacerata da un altro grido, ancora più mostruoso del primo, breve, spezzato.

«Andrzeeeeej!!!» urlò Zdyb. Correndo tra le assicelle dei pomodori urtò contro una botte piena d’acqua, ci rimbalzò sopra come fosse un muro, inciampò, scivolò, cadde di nuovo, cercò istintivamente di sorreggersi e ficcò la canna della P-83 nella terra bagnata. Alle sue spalle sentì imprecare Wenda, che si era impigliato nella rete metallica elastica di un recinto. «Andrzeeeej!!!» Inciampò di nuovo. Vide in che cosa. E allora si mise a gridare.

Nejman non aveva più la testa.

Qualcosa lo colpì al petto. Zdyb, in ginocchio, si strozzò e urlò, urlò tanto da provare dolore, tanto da sentire rimbombare nelle orecchie il proprio urlo. Con un movimento brusco, scomposto, spinse via il braccio nella manica di popelin insanguinata dalla quale sporgeva un osso scivoloso, liscio, bianco perfino al buio.

Sul prato, sullo sfondo di una rada palizzata di girasoli chiaramente visibile, era seduto qualcosa. Qualcosa di grosso. Grosso come un camion. Il cielo blu scuro, tinto di rosso dalle lontane luci al neon, brillava fiocamente alle spalle del colosso seduto sull’erba. Sembrava che quell’enorme qualcosa si fosse aperto un varco attraverso il cielo e la notte, lasciandosi dietro un buco e una trama di fenditure.

Un altro treno, nell’attraversare il passaggio a livello, colpì gli arbusti con una vivida frustata di luce. Zdyb aprì la bocca e rantolò.

Il mostro gibboso accoccolato sul prato, con un’enorme pancia ricoperta di escrescenze, gigantesche orecchie e un muso allungato irto di denti, sollevò il corpo di Chęclewski tra le zampe nodose. I fari del treno fecero vorticare gli orti di mille ombre mobili.

Zdyb rantolava.

Il mostro aprì le fauci e, con uno scricchiolio, troncò la testa a Chęclewski con un unico schiocco delle mandibole e gettò con violenza il corpo lontano.

Zdyb lo sentì sbattere contro una costruzione di latta ondulata. L’urina gli colò in un’ondata calda sulle cosce. Non vedeva più niente, ma sapeva, sentiva che il mostro, muovendo ad andatura regolare le zampe corte e grosse, avanzava verso di lui.

Zdyb rantolava. Avrebbe fatto molto volentieri qualcosa. Qualsiasi cosa.

Ma non poteva.

GOCCE

La musica che teneva incollata la Cortina si lacerava, s’incrinava, si rompeva in brandelli elastici. Lo strappo s’ingrandì, ne strisciavano fuori turbinando vapori fetidi, grandi cirri sfilacciati, una nebbia gravida di umidità pesante come sputo, che si mescolava allo smog acido della città. Sui tetti, sull’asfalto, sui vetri, sulle automobili caddero le prime, rade gocce.

Caddero gocce giallastre, che sibilavano nel toccare il metallo, penetravano nelle fessure e nelle fenditure, dove bruciavano le guaine isolanti dei cavi e rosicchiavano il rame delle condutture.

Caddero gocce marroni, grosse e appiccicose, e là dove cadevano l’erba impallidiva, le foglie si accartocciavano, gli steli e i rami annerivano.

Caddero gocce blu inchiostro, e là dove cadevano il cemento fumava e fondeva, i mattoni cuocevano e l’intonaco colava sui muri come lacrime.

E caddero gocce trasparenti, che non erano affatto gocce.

RENATA

Renata Wodo aveva un’ossessione innocua, una strana abitudine: invariabilmente, prima di coricarsi, controllava che il coperchio del water fosse abbassato e la porta del bagno chiusa. Il water, aperto sul labirinto segreto e ostile di canali e tubature, costituiva una minaccia, non poteva restare aperto, incustodito, perché «qualcosa» avrebbe potuto fuoriuscirne e sorprenderla nel sonno.

Quella notte, come al solito, Renata aveva abbassato il coperchio. Si svegliò, inquieta, coperta da un sudore freddo, e dimenandosi nel dormiveglia come un pesce appeso a una lenza cercò di ricordare se aveva chiuso la porta. La porta del bagno.

L’ho chiusa, pensò riaddormentandosi. L’ho sicuramente chiusa.

Si sbagliava. Del resto, ciò non aveva nessuna importanza.

Il coperchio del water si sollevò lentamente.

BARBARA

Barbara Mazanek aveva un timor panico di tutti gli insetti e i vermi, un autentico terrore, che sprizzava adrenalina e le suscitava una ripugnanza che la scuoteva in tutto il corpo. Glielo suscitavano le forbicine, guizzanti mostri marroni piatti e oblunghi, armati di pinze a tenaglia all’estremità dell’addome. Barbara era profondamente convinta che quella schifezza che sfrecciava e si ficcava in ogni fessura aspettasse soltanto l’occasione d’infilarlesi nell’orecchio e divorarle il cervello dall’interno. Quando trascorreva le vacanze in tenda, ogni notte si metteva con gran cura dei tappi di ovatta nelle orecchie.

Quella notte, svegliandosi inquieta, premette istintivamente l’orecchio sinistro contro il cuscino e si coprì il destro col braccio.

Ciò non aveva nessuna importanza.

Attraverso la portafinestra del balcone, che non era chiusa ermeticamente, cominciarono a penetrare e a riversarsi nella stanza come un’onda sporca e oleosa miliardi d’insetti guizzanti. I loro occhietti lanciavano rossi bagliori, le pinze alle estremità dell’addome erano taglienti come rasoi.

I MUSICANTI

«È finita», disse Kersten.

Debbe taceva, sedendo immobile con gli occhi spalancati e muovendo leggermente l’estremità nera della coda.

«È finita», ripeté il cane. «Itka, non possiamo fare niente. Niente. Sentite? Pasiburduk, smettila, non ha senso.»

Il criceto smise di giocare, s’immobilizzò, sollevò in alto i neri bottoncini degli occhi.

È fatto così, pensò Kersten, non cambierà mai. Bisogna ripetergli tutto due volte. Be’, è solo un criceto.

Debbe taceva.

Kersten si stese, abbassò il muso sulle zampe. «Non ci siamo riusciti ed è inutile continuare a provarci. La Cortina si è strappata definitivamente e questa volta non la rattopperemo. Sono passati. Quelli. Naturalmente, tra poco la Cortina si rimarginerà da sola, ma non ho bisogno di dirvi...»

«Non ne hai bisogno.» Itka digrignò i denti. «Non ne hai bisogno, Kersten.»

«Questa città ha ancora delle possibilità. Finché il Pustoloso non sarà passato da questa parte, la città ha delle possibilità.»

«E le altre città?» disse inaspettatamente Pasiburduk.

Kersten non rispose.

«E noi?» chiese Itka. «Rimaniamo?»

«A che scopo?»

Itka si sedette, abbassando il musetto appuntito. «Dunque... Si procede secondo il piano?»

«Vedi un’altra soluzione?»

Da lontano, dal quartiere, giunse un rumore. Un’ondata di rumore. Kersten rizzò il pelo e Pasiburduk si raggomitolò in una pallottola rossa.

«Hai ragione, Kersten», disse Itka. «È finita. Andiamo a Brema. Là ci aspettano gli altri.» Il ratto si girò verso Debbe, che sedeva ancora immobile come una soffice statuetta striata. «Debbe... Che cos’hai? Non hai sentito? È finita!»

«Lasciala stare, Itka», ringhiò Kersten.

«Sembra quasi che ti dispiaccia per loro», sibilò Itka alla gatta. «Eh, Debbe? Ti dispiace per loro?»

«Che cosa puoi saperne tu, Itka?» miagolò la gatta, piano e in tono ostile. «Dispiacere? Può anche darsi che mi dispiaccia per loro. Mi dispiace per il tocco delle loro mani. Mi dispiace per il fruscio del loro respiro quando dormono. Mi dispiace per il calore delle loro ginocchia. Mi dispiace per la nostra musica, che perdo subito dopo averla conosciuta. Perché è una musica che non serve a nessuno e con cui non salveremo più nessuno. Perché in ogni minuto, in ogni secondo, in migliaia di punti del pianeta risuona il Veehal e risuonerà sempre più spesso. Sino alla fine. Mi dispiace anche per voi. Per te, Itka, e per Kersten, e per Pasiburduk. Mi dispiace per voi, vinti, costretti alla fuga. E mi dispiace anche per me, perché nonostante tutto verrò con voi, come una di voi. Anche se ciò non ha nessun senso.»

«Ti sbagli, Debbe», disse con calma Kersten. «Noi non fuggiamo. Questa volta abbiamo fallito. Ma a Brema... a Brema ci aspettano gli altri. Da tempi immemorabili i Musicanti si riuniscono a Brema. E quando saremo di più anche la nostra musica sarà più forte, e un giorno chiuderemo la Cortina una volta per tutte, ne faremo un muro impenetrabile. Perciò ti sbagli a pensare che la nostra musica sia inutile. E che tu l’abbia persa. Non è vero. E lo sai.»

«In te le sensazioni hanno il sopravvento sulla ragione, Debbe», aggiunse Itka. «Che importa se questa città si spopolerà un po’? In fondo, se lo sono meritato. Ma tu... pensi a salvare degli individui. Singole persone, quelle che ami. È irrazionale. Pensa alla specie. Gli individui non significano niente.»

La gatta si alzò di scatto, si stiracchiò rivolgendo al ratto uno sguardo verde, cattivo, nel quale per un secondo balenò e brillò l’odio sanguinoso tra le specie. Il ratto non tremò neppure. Era un Musicante, e anche Debbe era una Musicante. La guardò allontanarsi tra i cardi e i baldacchini di erba, altera, fiera e invincibile. Sino alla fine.

«Sciocca sentimentale», borbottò, quando fu certo che la gatta non lo sentiva più.

«Lasciala stare», ringhiò Kersten. «Non puoi capirla.»

«Sì che posso.» Il ratto digrignò i denti. «Ma non voglio. E non voglio neppure spiegare perché. Ciò che conta è che stia con noi. È una buona Musicante. Kersten, e se ci mettessimo in cammino, finalmente?»

«In cammino?» sorrise il cane. «Perché dovremmo camminare, se possiamo farci portare?»

DIETER WIPFLER

Dieter Wipfler si passò il dorso della mano sugli occhi, cercando di controllare i brividi, la nausea e il giramento di testa. Si asciugò i palmi sudati sui pantaloni, afferrò il volante, partì quando scattò il verde. Non sapeva dov’era. Quella non era sicuramente la strada per Świecko, sulla quale si sarebbe dovuto trovare.

Le vie erano deserte, spopolate, come in un incubo. Dieter Wipfler socchiuse gli occhi, strinse forte le palpebre, li aprì. Che ci faccio qui, pensò, passando accanto al capolinea del tram. Dove sono? Che ci faccio qui? Che cosa mi succede, verfluchte Scheisse, ich muss krank sein. Sto male. Devo avere mangiato qualcosa di tossico. Devo fermarmi. Non posso guidare in questo stato. Fermarmi. Quello che giaceva sul bordo del marciapiedi non poteva essere un cadavere. Devo fermarmi!

Dieter Wipfler non si fermò. Superò il capolinea del tram e gli orti urbani, proseguì per la strada di ghiaia lungo un orribile luogo desolato, verso un agghiacciante paesaggio lunare. Continuava suo malgrado. Non sapeva che cosa gli succedeva. Non poteva saperlo.

Attraverso un velo iridescente e tremolante, Dieter Wipfler vide la guglia appuntita e slanciata di una chiesa avvolta da lingue infuocate. Vide impalcature di legno e corpi mutilati che ne penzolavano.

Das ist unmöglich!

Vide un piccolo uomo nero che agitava un crocifisso e gridava...

Das ist unmöglich! Ich träume!3

Locus terribilis!

L’enorme camion avanzava lentamente, schiacciando con le ruote la ghiaia, imprimendo nei tratti argillosi le tracce dentate dei copertoni. Sulla fiancata azzurra del grosso rimorchio vide una scritta in grandi caratteri di un bianco cadaverico:

 

KÜHN TEXTILTRANSPORTE GMBH

 

E, sotto, il nome della città:

 

BREMEN

LA STANZA GIALLA

Il bambino dormiva un sonno agitato, si rigirava. Venerdina drizzò le orecchie, si mise in ascolto.

Quel qualcosa che strisciava lentamente sul muro non aveva una forma costante: era una macchia nera, un grumo di oscurità pulsante che si gonfiava e penetrava nelle tenebre con lunghi tentacoli. Il pelo sulla schiena di Venerdina si rizzò come una spazzola.

La creatura mostruosa, già sul davanzale della finestra socchiusa, si gonfiò, cominciò a indurirsi, a sollevarsi su storte appendici. Divenne irta di spine, sollevò in alto la coda munita di aculeo.

La gatta cambiò posizione. Si stiracchiò leggermente allungando le zampe davanti, sfoderò gli artigli. Fissando la creatura con gli occhi spalancati, appiattì le orecchie, contrasse il musetto, scoprì i denti.

La creatura esitò.

Provaci soltanto, disse Venerdina. Provaci soltanto. Sei venuta a uccidere coloro che dormono, prova ad affrontare chi veglia su di loro. Ti piace dare dolore e morte? Anche a me. Su, entra, se ne hai il coraggio!

La creatura non si mosse.

Via, disse la gatta con disprezzo.

Il grumo di oscurità acquattato sul davanzale, nero come il nulla, si restrinse, si afflosciò. E scomparve.

Il bambino gemette nel sonno, si girò sull’altro fianco. Aveva il respiro regolare.

A Venerdina piaceva ascoltarlo respirare.

IZA

Ela Gruber era morta. Aveva gli occhi aperti, ma Iza era sicura che fosse morta. Non sapeva bene che fare.

In quel momento la porta si aprì. Entrò l’infermiera.

«Temo che...» cominciò Iza, e s’interruppe.

Il viso paffuto dell’infermiera, ancora fino a poco tempo prima simpaticamente ingenuo, era cambiato. Adesso era il viso di un’idiota, di un’ebefrenica dal sorriso demente.

Senza prestare attenzione a Iza, l’infermiera si avvicinò al letto di Ela Gruber e con un movimento impulsivo, automatico, aggiustò il cuscino. Prese un bicchiere dal comodino lì accanto. Con lo sguardo fisso sulla finestra, lo schiacciò nel pugno. Dalla mano le colò un rivolo di sangue. L’infermiera non ci fece caso, il suo viso non ebbe neppure un fremito. Rimboccatasi la manica sinistra, si passò una scheggia di vetro sulla parte interna dell’avambraccio, con un gesto brusco, violento, dalla piega del gomito fino all’interno del palmo, una volta, poi un’altra. Il sangue schizzò sul grembiule bianco, sul piano lucente del comodino, sul letto, gocciolò copiosamente sul linoleum. L’infermiera fu scossa da una risata soffocata, alzò una mano, osservò con piacere le onde pulsanti del sangue che sgorgava.

«Aiutoooo!» urlò Iza, superando l’orrore che le attanagliava la gola. «Gente! Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»

«... enteeeee!» echeggiò un grido isterico nel corridoio. «Genteeeee!»

Al grido se ne unirono altri, forti, innaturali. Iza capì che a essi si sovrapponeva l’urlo della sirena di un’ambulanza. All’infermiera si piegarono le gambe, cadde pesantemente sul linoleum, chinò la testa, cominciò a singhiozzare.

Iza, indietreggiando, senza riuscire a staccare lo sguardo dall’infermiera, trovò tastoni la maniglia alle sue spalle e corse nel corridoio.

Davanti al termosifone, la fronte appoggiata alla parete, era inginocchiato un giovane medico che non conosceva, si asciugava con una manica le lacrime che gli rigavano il viso. Rivolse a Iza uno sguardo smarrito, terrorizzato. «È la guerra», farfugliò. «Sono sicuramente bombe con gas psicotropo. Hanno sicuramente usato armi batteriologiche. Sono impazziti tutti... Tutti... È la guerra! Bisogna scendere nei rifugi!»

Iza arretrò, spaventata. Dal vicino reparto giungevano tintinnii e rumori di lotta. Qualcosa di pesante sbatté contro la porta chiusa.

«Dov’è il rifugio, qui?» gridò il medico davanti al termosifone. «Non voglio morire.»

«Miliiiziaaaa!» urlò qualcuno al piano di sopra. «Oddiooooo! Aiutooo!»

La porta si aprì, il corpo che vi era appoggiato contro, schizzato di rosso, scivolò nel corridoio. Un enorme uomo mezzo nudo con la barba lunga, armato di una sbarra di ferro, scavalcò lentamente, con cautela il cadavere. Il medico davanti al termosifone urlò e infilò il viso tra gli elementi di ghisa. L’uomo mezzo nudo gracchiò una risata selvaggia e sollevò la sbarra.

Iza si girò e si mise a correre nel corridoio, inseguita dalle grida e dai tonfi sordi dei colpi.

Corse fuori dall’ospedale, davanti all’ingresso scivolò su alcune foglie avvizzite, faticò a mantenere l’equilibrio. Davanti all’ospedale c’era un’ambulanza del pronto soccorso con la freccia destra che lampeggiava. Lo sportello laterale era aperto, l’autista era riverso sui sedili, il braccio azzurro violaceo alla luce dei neon gli penzolava inerte all’esterno. Dall’ospedale giungevano urla folli, grida, il tintinnio di finestre e contenitori di vetro infranti.

Nella strada sfrecciò un’auto col muso fracassato, il cofano incurvato, piegato. Al di sopra della città, in direzione degli orti urbani, si levavano lentamente un bagliore, una nuvola di fumo e grida che da lontano ricordavano il ronzio di un coleottero.

Iza guardò il cielo, che ormai aveva assunto un color porpora intessuto di sottili fili dorati. Le caddero sul viso delle gocce. Le strofinò via e si mise a correre.

Dalla casa dirimpetto volò via con uno schianto il vetro di una finestra, e subito dopo un bambino. Roteò tre volte in aria e si schiantò sul cemento. Iza correva. Gocce – o forse erano lacrime – le scorrevano sulle guance.

Accanto alla sua Fiat giaceva un uomo in un pigiama a righe, appoggiato per metà al muro accanto al portone. Respirava rantolando, a ogni respiro gli uscivano dalle narici bolle sanguinolente che scoppiavano.

Iza non riusciva a trovare le chiavi nella borsa. Con mani tremanti ne vuotò tutto il contenuto sul marciapiedi. Prese solo le chiavi e il portamonete.

Proprio lì accanto qualcosa stridette, Iza sussultò e lasciò cadere le chiavi. Il coperchio di ghisa della fogna saltò su, ricadde sul marciapiedi e dalla fogna, con uno schiocco sordo, sgorgò sangue misto a sporcizia e si riversò sull’asfalto, spingendosi fino alle sue scarpe, caldo, ripugnante. Iza urlò, indietreggiò allontanandosi dalla macchina, inciampò sul corpo dell’uomo in pigiama, aderì con le spalle al muro. Nel nero abisso rilucente della fogna qualcosa si muoveva, sciabordando e gorgogliando.

Dall’angolo della strada corse fuori strillando un uomo, subito seguito da un altro, passarono accanto a Iza ad andatura folle e si precipitarono oltre. Iza impietrì, sollevò la testa. Il vento, un vento caldo che si era levato all’improvviso, la colpì con un fetore spaventoso.

Dall’angolo della strada...

Iza conosceva quella sensazione. La ricordava dall’infanzia, il sogno che tante volte l’aveva fatta svegliare gridando. Il sogno nel quale, paralizzata, priva di volontà, guardava la porta, chiusa dall’interno col paletto, sapendo che dopo un istante, nonostante il paletto, si sarebbe aperta. Si sarebbe aperta e dietro ci sarebbe stato qualcosa dal quale non c’era né salvezza né fuga. Qualcosa che non lasciava speranza.

Senza rendersene conto urlava con un falsetto sottile, incessante, col grido stridulo di un animale torturato. D’un tratto si trasformò in un animale, lì, in quella strada buia inondata di sangue e di merda, in mezzo all’asfalto, al cemento, al vetro, alle macchine e all’elettricità, in mezzo ai prodotti della civiltà, nessuno dei quali in quel momento aveva il minimo significato. D’un tratto era un castoro strozzato dal filo di una trappola a laccio, una volpe con la zampa schiacciata dalle ganasce d’acciaio di una tagliola, una foca con la testa spaccata a bastonate, un capriolo ucciso da un fucile a canne mozze, un ratto avvelenato che si dibatte in preda alle convulsioni. Era tutti quelli con cui condivideva la paura e il dolore, e la certezza che di lì a poco non sarebbe stata nulla, perché un rimasuglio freddo, intriso di sangue, fetido non è nulla.

Il qualcosa che strideva e grattava oltre l’angolo della strada, sottolineando i propri passi con un ansito pesante, rauco, spuntò fuori e la guardò col bagliore vermiglio-dorato dei suoi occhi enormi.

Il grido nella gola di Iza si spense in un rantolo soffocato. La sua coscienza, la ragione, l’intelligenza e la volontà esplosero e si spaccarono come una lampadina scagliata sul selciato.

Il Pustoloso aveva attraversato la Cortina strappata.