Capitolo 5
«Non mi hai rivolto la parola questa mattina». Sobbalzai sentendo quella voce che stava diventando fin troppo familiare. «E per di più non mi hai rivolto neanche un’occhiata durante l’ora di biologia. Ero vicino a te, so per certo che te se sei accorta». Sì, in effetti l’avevo espressamente ignorato a lezione, ma aveva cominciato lui evitando di salutarmi quindi non aveva alcun diritto di sentirsi in qualche modo ignorato.
«Hai ragione, il fatto è che non ho voglia di degnarti della mia attenzione nemmeno adesso», dissi continuando a leggere il mio libro nell’unico posto al fresco che avevo trovato nel parco dell’università. Ovviamente, si sedette accanto a me. Era così snervante! Mi strinsi nella felpa e continuai a non considerarlo, così Blake tolse il libro di Biologia dalla tracolla militare e iniziò a sfogliarlo e battendo come al solito quella cavolo di penna. «Perché non vai a studiare da un’altra parte?»
«Perché questa è la mia panchina».
Come no.
«La tua panchina? E dimmi, quando te la saresti comprata?», chiesi chiudendo il libro.
«Non l’ho comprata, è mia solo perché quando voglio qualcosa, mi basta dirlo e magia: diventa mia». Aveva dei problemi, e seri anche. Figurarsi se non lo incontravo io.
«E quando è che hai deciso di appropriarti di questa panchina?»
«Adesso», sorrise e vidi spuntare la fossettina. Le avevo viste entrambe solo quando mi aveva fatto un sorriso vero e proprio.
«Allora lo fai apposta? Lo scopo della tua vita attualmente è darmi il tormento?», misi il libro nella borsa. Se voleva quella maledetta panchina poteva anche prendersela, l’importante per me era non averlo più fra i piedi.
«Piccola, l’unica cosa che voglio è entrarti nelle mutandine e sentirti dire tutte le parolacce che tieni chiuse in quella bella testolina». Oh santo cielo.
«Primo, abbiamo già detto che io e te non faremo mai niente e, secondo, devi sempre essere così volgare?», parlare con lui era sfiancante, mi sfiniva più delle tre ore di Biologia che avevo seguito quella mattina. Presi la mia borsa e mi alzai. «Bene, tieniti la tua panchina, io me ne vado». Si alzò anche lui.
«Cosa fai adesso?»
«Non credo siano affari tuoi», sbottai prima di voltarmi e allontanarmi. Un attimo dopo, me lo ritrovai al mio fianco.
«Dovrei essere io quello arrabbiato con te, visto quanto sei stata maleducata stamattina», alzai gli occhi al cielo. Uno dei due doveva morire affinché l’altro sopravvivesse; era chiaro e molto probabilmente sarei stata io a ucciderlo.
«Non me ne frega niente di stamattina». Bugiarda. «Non ti ho nemmeno visto», finsi indifferenza mentre raggiungevo finalmente la porta del dormitorio.
«Non è vero. Meglio che tu lo sappia, non mi piacciono le bugie. Preferisco piuttosto che tu ammetta di non avermi salutato di proposito», mi bloccai sul primo gradino e mi voltai a guardarlo.
«Eri tu quello che stava venendo verso di me e di conseguenza eri tu a dovermi salutare; tra l’altro, sono arrabbiata con te praticamente da quando ci siamo conosciuti. Caspita, ho visto più te in questi giorni che mia madre in tutta la mia vita». Cavolo, mi faceva infuriare così tanto da non vederci più. Mi voltai e salii di corsa le scale ma, mentre stavo per aprire la porta, qualcuno la chiuse. Avevo davanti il suo braccio teso e riuscivo a sentire il calore del suo corpo che sfiorava il mio anche attraverso i vestiti pesanti.
«Mi sa che ora sei incazzata sul serio», commentò Blake.
Sospirai e appoggiai la testa contro la porta. «Che vuoi ancora?», chiesi sfinita.
«Portarti in un posto», mi voltai a guardarlo, il suo mezzo sorriso non raggiungeva gli occhi che sembravano dispiaciuti, anche se poteva essere solamente una mia impressione; con lui non si era mai abbastanza sicuri di nulla, l’avevo già imparato a mie spese. «Avanti, che senso avrebbe chiudersi in camera fino a stasera? Non vorrai mica studiare?». Non sia mai. «Avanti, Dakota, voglio farmi perdonare». Mi porse una mano, ma non la presi e lui sghignazzò.
«Allora? In che modo pensi di farti perdonare?», chiesi, sconfitta.
Per tutta risposta, mi guidò fino alla sua moto. «Sei completamente fuori di testa», dissi decisa, quando mi allungò il casco.
«Indossalo», e riecco la voce seria e profonda della prima sera.
«Non salirò sulla moto con te, ho visto come guidi, ricordi? E poi c’è solo un casco, non è sicuro», mi guardò come se mi fosse appena spuntata una seconda testa.
«Certo che mi ricordo, sei la prima ragazza a cui ho permesso di salire sulla mia macchina da corsa, ma non guido di certo così per strada. Comunque non serve che ti preoccupi per me, non mi accadrà niente. Andiamo». Nessuna ragazza era salita con lui in auto prima di me? O gli stavo antipatica così, a pelle, oppure era davvero interessato a entrarmi nelle mutande, perché dubitavo seriamente che fosse in grado di provare dei sentimenti che lo avvicinavano a noi comuni mortali. A ogni modo, non mi stavo affatto preoccupando per lui. «Hai finito di arrovellarti? Andiamo, andrò piano». Presi il casco e lo infilai prima di salire su quella moto dall’aria pericolosa; lui mi prese le mani e se le portò sui fianchi. «Stringiti a me», disse, dopodiché avviò il motore e partì. “Andrò piano”, che cazzata. Come avevo potuto credergli? Ormai, però, era troppo tardi, perciò non potei far altro che aggrapparmi forte a lui mentre sfrecciavamo lungo la strada. Mi maledissi in un milione di lingue diverse prima di sentire finalmente la bestia rallentare e, subito dopo, fermarsi.
Non era la prima volta che vedevo uno di quei circuiti poiché mio padre che era fissato con il motocross. Ci trovavamo su uno sterrato, con salite e discese, curve decisamente pericolose e un arco che segnava la partenza e l’arrivo. I rombi delle moto erano assordanti.
«Cosa ci facciamo qui?», chiesi. Era un pessimo modo per farsi perdonare.
«Adesso ho l’allenamento, dopo però ti porto dove ti ho promesso». Lo seguii dentro un edificio, percorremmo un lungo corridoio ed entrammo in uno spogliatoio pieno di armadietti.
«In realtà, non mi hai detto dove andiamo dopo», gli feci notare. Blake si voltò e mi sorrise, poi si sfilò la felpa e rimase a petto nudo davanti a me. Oh. Mio. Dio. Aveva dei tatuaggi che dal collo si estendevano sulle spalle, lungo le braccia, sul fianco destro e sul petto, ma il resto del corpo era ancora tutto da scrivere. Aveva un fisico da modello. Era muscoloso al punto giusto: non un bestione, ma semplicemente un Dio greco sceso in terra per rendere la mia vita monotona una tentazione continua. Oh, Zeus, ma che hai fatto?
«Vivi e lascia morire», mormorai leggendo il tatuaggio che aveva sul petto. «Inquietante», aggiunsi. Una volta tanto, Blake irruppe in una vera e propria risata, prima di sbottonarsi i jeans e calarli. No, aspettate, cosa? Mi girai di scatto, rossa in viso. «Ripeto: tu hai seri problemi».
«Piccola, non hai mai visto un ragazzo in mutande?».
Sbuffai. «Certo, ma non in uno spogliatoio. E poi non si trattava di sicuro di un perfetto sconosciuto incontrato solamente tre giorni prima». Dopo qualche fruscio, lo avvertii al mio fianco, così mi girai a guardarlo: indossava una divisa nera e verde da biker che gli stava fin troppo aderente, e un paio di guanti. Poi, prese il casco, mi attirò a sé e mi scoccò un bacio fra i capelli.
«Sei davvero uno spasso», si allontanò e, uscendo, mi indicò gli spalti. «Sali lì e non muoverti, io faccio ciò che devo e poi ti raggiungo, così andiamo». Mi sedetti nel punto indicatomi e lo guardai montare in sella a una moto da cross dello stesso colore della sua divisa; in seguito, si avvicinò a un gruppo di motociclisti che dovevano fare parte della sua scuderia. Un uomo di mezza età gli diede un paio di pacche sulla schiena e fece una battuta alla quale risero tutti prima di iniziare le prove. Di solito non mi interessava molto di seguire questo genere di gare e, quando mio padre mi ci portava, mi perdevo subito dopo il primo giro perché, dopo i doppiaggi, iniziavo a non capirci più nulla, soprattutto perché non ero appassionata. Stavolta, invece, cercai di rimanere concentrata e seguii il numero ventotto, ovvero Blake, per tutto il tragitto. Era veloce, spericolato e, ogni volta che saltava da quelle montagnole di terra, mi si mozzava il respiro. Mi stavo preoccupando per lui… fantastico, proprio quello che mi mancava. Un’ora e mezza dopo, Blake riemerse dallo spogliatoio con i capelli bagnati e le guance arrossate. Cavolo quanto era bello. Aveva con lui il casco che aveva usato sulla moto da cross. «Visto sono così bravo da aver portato anche l’altro casco, contenta? Così nessuno si farà male», alzai gli occhi al cielo.
«Si certo», dissi avviandomi verso la moto con la quale eravamo arrivati. Con lui a quanto pare si saltava da un mezzo a un altro in un battibaleno. «Quindi, ricapitolando, di notte partecipi a corse clandestine in auto e di giorno gareggi con una delle scuderie di motocross più forti del Paese. Giusto per capire, studi anche qualcosa di pericoloso?», mi guardò sorridendo prima di passarmi il casco.
«Chimica», ma certo.
«Ovvio, come ho fatto a non pensarci? Per concludere, dunque, all’università crei mix esplosivi e cerchi di farti saltare in aria», scosse la testa mentre cercava di trattenere una risata.
«Te l’ho detto che sono un tipo pericoloso, no? Non dovresti fidarti di me», disse montando in sella.
«Già, non fai che ripeterlo e io non faccio che ignorarti», lo dissi piano, sottovoce, non volevo che mi sentisse.