Capitolo 13
Ero comoda, molto comoda. Quel letto era fantastico. Mi stiracchiai e rotolai sul fianco allungando un braccio. Poggiai la mano su qualcosa di duro, anzi no di marmoreo. Incastrai il viso in un posto morbido e inspirai un profumo di menta. Feci scorrere la mano verso il basso, lungo un corpo solido e… nudo. Spalancai gli occhi. Corpo? Nudo? Mi misi seduta sbattendo più volte gli occhi nel tentativo di ricordare dove fossi, perché e con chi.
«Mi stavo rilassando, perché hai smesso?» Oh porca miseria. Ero a letto con Blake. La sua voce, solitamente già profonda, da appena sveglio aveva un che di graffiante, roco, che risvegliava ogni centimetro della mia pelle. Indietreggiai di scatto e, nonostante fossi vestita, presi un lembo del lenzuolo nel tentativo di coprirmi di più. «Posso sapere cosa stai facendo?». Non poteva tenere la bocca chiusa? Il suono della sua voce era… eccitante. Incrociai i suoi occhi verdi. Non era possibile che un umano potesse essere così bello appena sveglio. Era un alieno, ne ero sempre più sicura. Abbassai lo sguardo e a deconcentrarmi non fu più il suo viso, ma qualcos’altro, ovvero un rigonfiamento sospetto nei suoi boxer, ben visibili ora che li avevo scoperti tirando il lenzuolo. Dovevo allontanarmi da lui o non avrei mai pensato lucidamente. Quella dannata nebbia mi stava riempiendo la testa.
«Io…», tergiversai, incerta.
«Tu…?», mi incoraggiò lui.
«Ehm». Cosa volevo dire? Mi guardò divertito. «Si può sapere perché diavolo sei a letto con me?»
«Piccola, sei tu quella a letto con me». Che idiota. «Non sei per niente male di prima mattina», arrossii e mi sedetti al centro del letto.
Anche lui si mise seduto e si passò una mano fra i capelli scuri, spettinandoli. Quanto avrei voluto passarci la mia, di mano. Sospirai. A quel punto, Blake si alzò e il mio sguardo si soffermò sulle sue spalle larghe e sulla sua schiena, dove, adornati da una serie di rose, vidi tre teschi tatuati; un nastro di pergamena copriva gli occhi del primo, le orecchie del secondo e la bocca del terzo, e recitava: See No Evil. Hear No Evil. Speak No Evil. Era il motto giapponese delle tre scimmie sagge: Non vedere il male, non sentire il male, non parlare del male.
Proprio come era capitato quando avevo scorto il tatuaggio sulle mani, feci qualcosa di stupido. Mi avvicinai alla sua schiena, allungai la mano e percorsi con le dita ciascuna scritta. Lo sentii irrigidirsi mentre lo toccavo. Tutto quel colore intriso nella sua pelle mi attirava, mi incuriosiva, mi piaceva. Con un movimento rapido si girò, mi spinse sul letto e salì sopra di me.
«Piccola, non hai sentito una sola parola di quello che ti ho detto ieri? Devi tenermi alla larga. Se continui a giocare con me, a un certo punto smetterò di premere il freno e affonderò al massimo sull’acceleratore», avvicinò le sue labbra alle mie. «Capito?», annuii.
Si alzò e prese i jeans neri e logori poggiati sulla sedia. Mentre se li infilava, godetti di una visuale pazzesca del petto marmoreo, degli addominali disegnati, della V accentuata, della leggera peluria che scompariva nei boxer scuri. Cavolo, non osavo immaginare cosa si celasse sotto quei boxer. Il materasso si abbassò quando Blake ci risalì con un ginocchio per darmi un bacio sulla guancia. «Dakota?»
«Sì?»
«Stai sbavando», disse, sghignazzando. Lo guardai male o cercai di spingerlo via, ma lui mi sorrise con tanto di fossetta. Era troppo per me.
«Sei un idiota», gli dissi e lui andò verso la porta.
«Se non vuoi tornare al campus a piedi ti conviene essere gentile. Lì ci sono i tuoi vestiti, lavati e asciugati. La colazione sarà pronta fra cinque minuti». Detto questo, lasciò la stanza.
Mi preparai e andai in cucina, dove trovai Damien intento a mangiare latte e cereali.
«’Giorno», mi salutò alzando il cucchiaino. «Lì c’è il caffè e Blake ti ha lasciato due waffle in quel piatto». Alzai un sopracciglio.
«Dov’è? Deve accompagnarmi al campus», mi versai il caffè e iniziai ad aggiungerci diversi cucchiaini di zucchero.
«Stai cercando di farti venire il diabete?», chiese Hunter, che apparve in cucina, sistemò il colletto della felpa e si mise seduto accanto al cugino.
«Il caffè mi piace zuccherato», mi difesi io.
«Già, questo l’avevo capito», Hunter guardò i waffle e poi me. «Li mangi?».
Scossi la testa e glieli passai, poi mi concentrai su Damien.
«Ti accompagno io. Blake aveva da fare stamattina», abbassò lo sguardo e finì i cereali.
«Sul serio? Non aveva detto che era libero?», chiese l’altro che venne fulminato con lo sguardo dal gemello presente. Ma certo. Non voleva accompagnarmi, era il suo modo di tenermi a distanza. Era ridicolo. Io non sarei mai andata a letto con lui. Mai. Ero attratta da lui, come gran parte dell’universo femminile del resto, ma non ero stupida e soprattutto non volevo essere la ragazza di nessuno. Tra l’altro, era stato proprio Blake a mettermi in guardia da se stesso. Il corso dei miei pensieri si interruppe quando Damien si alzò.
«Finisco di prepararmi e andiamo», annunciò. Annuii e, in attesa del suo ritorno, pulii la cucina mentre Hunter faceva colazione.
«Non prendertela».
Lavai le tazze dei ragazzi.
«Non me la prendo», risposi con aria tranquilla. Sentii la presenza di Hunter dietro di me e, poco dopo, infatti, si poggiò al bancone. Mi passò il piatto di waffle ormai vuoto e iniziai a lavare anche quello.
«Sì che te la prendi e lo capisco. Blake è affascinante, bello, pericoloso, ma non sei la ragazza giusta per lui». Grazie, eh. Presi anche la mia tazza e svuotai il caffè rimasto.
«Tranquillo, tanto non m’interessa», replicai e lui sorrise.
«Tesoro non lo dico nel senso negativo. Tu mi piaci. Ho visto come si comporta quando ci sei ed è chiaro che lo destabilizzi. Sta cercando di fare il gentiluomo con te e già questo è una specie di miracolo», lo guardai.
«Perché è così…».
«Stronzo?», finì lui per me e annuii. «La vita a volte segna alcuni più di altri. C’è chi reagisce scegliendo il sole», guardò verso Damien che proprio in quel momento era uscito da quella che dedussi fosse la sua stanza. «E chi si nasconde nelle tenebre, soprattutto se ha visto il peggio».
«Sei pronta?», chiese Damien. Chiusi l’acqua e asciugai le mani con lo straccio. Hunter si scostò dal bancone e, prima che potessi allontanarmi, mi prese per il gomito e abbassò la voce.
«Se vuoi abbattere quel muro che è Blake, devi essere pronta a soffrire. So per certo che ne vale la pena, ma tocca a te decidere se rischiare o meno». Mi fece l’occhiolino, prima di andare all’attaccapanni, indossare il cappotto e porgermi il mio. Salimmo in auto e rimasi in silenzio fino all’università; una volta a destinazione, salutai i ragazzi e andai in camera, sperando di trovare Mariam, che, però, mi scrisse proprio in quel momento per avvertirmi che era a lezione. Mi cambiai di corsa, infilando un paio di jeans, un maglioncino scuro e gli stivali. Presi lo zainetto, il giubbotto di pelle e raggiunsi l’aula di Zoologia generale. Trovai Devon seduto in fondo e mi lasciai cadere accanto a lui.
«Buongiorno, meraviglia». Adoravo i suoi saluti.
«Buongiorno, Devon, come stai?», chiesi e lui alzò le spalle.
«Sono più interessato a come stai tu», mi diede una leggera gomitata. «I piercing ci sono o no là sotto?», alzai gli occhi al cielo.
«Non ci sono andata a letto, Dev!», lo ripresi io e lui alzò le mani.
«Sei sempre sulla difensiva, dovresti stare più tranquilla», disse ridacchiando.
«Non sarei mai dovuta finire a casa sua, né passare la notte lì. Sai che ha fatto? Mi ha messo sottosopra il cervello e poi stamattina non mi ha dato nemmeno un passaggio», mi presi il volto fra le mani.
«Okay, avrei preferito sapere che ti aveva messo letteralmente sottosopra, su un letto, magari. Ma forza, racconta a zio Devon che è successo».