Capitolo 15
Io distruggo tutto ciò che è bello. Trascorsi la domenica a rimuginare su quella frase, così non riuscii a concludere niente; ormai allo stremo delle forze, quella sera raccolsi i miei libri e andai nella biblioteca dell’università, che era sempre aperta. La sala studio era buia, silenziosa. Percorsi il dedalo di scaffali, arrivai in fondo e lo vidi. Era chino sui libri e la luce della lampada gli illuminava metà viso; in quel momento feci una nuova scoperta: Blake Scott portava gli occhiali. Con la montatura nera, quadrata. Ero indecisa se andare da lui o trovarmi un altro tavolo, dopotutto erano tutti liberi. Sospirai mentre me ne stavo come una stupida al centro del corridoio. Blake si tolse le cuffie.
«Hai intenzione di stare lì ferma ancora per molto?». Sapeva che ero lì? Di certo quello era un qualche potere soprannaturale degli alieni. Mi avvicinai, presi posto davanti a lui e accesi l’altra lampada. Alzai lo sguardo e lui riportò il suo sui libri, facendo tamburellare l’immancabile biro. Era strano con gli occhiali, c ma bellissimo.
«Cosa fai?», alzò di scatto gli occhi su di me.
«Studio?», la sua sembrava più una domanda sarcastica che un’affermazione.
«Ma davvero? E io che pensavo stessi giocando con le macchinine», borbottai io.
«Certo che sei incredibile», disse smettendo di picchiettare la penna sul manuale. «Sei stata tu a chiedermi cosa stessi facendo».
«Intendevo domandarti che materia stessi studiando e l’avevi capito perfettamente. Avresti anche potuto rispondere “Studio Chimica Organica” o che so io, e basta», aprii il libro e presi il quaderno.
«La prossima volta perché non espliciti anche come preferisci che risponda?», sbottò lui nervoso e lo guardai male.
«Sai, ci sono delle rare, rarissime volte in cui credo che somigli a noi comuni mortali, ma niente, devono davvero averti mandato qui da Marte per mostrare al mondo quanto sei figo e bravo in tutto, ma soprattutto per farmi innervosire». Richiusi il libro e lo rimisi nella borsa.
«Incazzare», lo guardai basita.
«Cosa?»
«È meglio se dici…», alzai la mano per zittirlo. Mi sporsi sul tavolo e mi fermai a pochi centimetri dal suo viso.
«Non. Osare. Dirmi. Come. Parlare», scandii ogni parola senza mai distogliere lo sguardo dal suo. Avevo il respiro affannato. Blake mi risucchiava tutta l’energia, era sempre la stessa storia. Una domanda. Avevo fatto solo una domanda.
«Dillo», disse lui imprigionandomi con quegli occhi scintillanti nella luce soffusa. Riuscivo a vedere il fuoco divampare in quella foresta verde.
«No», replicai.
«Dimmi che ti faccio incazzare. Dillo o ti renderò la vita un inferno. Fammi sentire che suono hanno le parolacce quando escono dalla tua bocca», le sue labbra sfiorarono le mie, le sue ciglia lunghe, folte e scure rendevano quegli occhi verdi il mio inferno. «Dillo», ordinò in tono sommesso. Feci scorrere la punta della lingua sulle mie labbra secche e sfiorai le sue. «Dillo, Dakota», mi abbaiò contro battendo una mano sul tavolo. «Cosa faccio io?». Anche lui aveva l’affanno.
«Mi fai incazzare». In teoria avrei dovuto urlarlo con rabbia, ma invece mi uscì in un sussurro. Fu un attimo. Sentii la sua mano sulla nuca, le sue labbra sulle mie. Erano morbide, piene, voraci. S’insinuò nella mia bocca con prepotenza facendosi spazio con la lingua. Non capii più niente. Eravamo entrambi immersi in una nebbia d’eccitazione. Non so come, i miei libri finirono a terra e le sue mani sulle mie braccia. Mi avrebbe lasciato i segni con quella presa salda e forte, che mi obbligò a salire in ginocchio sul tavolo. Mi mise le mani tra i capelli e mi aggrappai alle sue spalle. Mi accarezzò la schiena, mentre le nostre lingue rimanevano intrecciate. Le sue mani trovarono il bordo della mia maglietta e si insinuarono sotto la stoffa… Sospirai contro la sua bocca e mi morse il labbro. Arretrò e si appoggiò allo schienale della sedia, trascinandomi con sé. In un baleno mi ritrovai a cavalcioni su di lui.
«Cazzo», imprecò e si alzò; istintivamente lo circondai con le gambe. Sentii a malapena dolore quando mi spinse con forza contro la libreria lì accanto. Qualche libro mal posizionato cadde con un tonfo. «Scusa», mormorò.
«Non me ne frega niente», risposi io, afferrandogli il viso e avvicinandolo ancora di più a me. Mi strinsi a lui e imprecò. Mi risalì la coscia con le dita fino a raggiungermi la base della schiena, inarcandosi contro di me. Non riuscivo più a respirare. Mi morse le labbra ancora e ancora, tracciò un sentiero di baci lungo il collo. Inclinai la testa e gli tirai i capelli stringendolo contro di me. Mi stava lasciando dei segni, tant’era vorace, veloce.
Ma cosa stavamo facendo? Accorgendosi forse della mia esitazione, Blake tornò sulle mie labbra e rallentò. Ci assaggiammo piano, stretti l’uno all’altro. All’improvviso, il suo cellulare, sul pavimento insieme ai libri, iniziò a suonare.
«Blake», cercai di allontanarlo. «Il telefono».
«Lascialo perdere, piccola». Guardai lo schermo, sul quale si vedeva il viso della brunetta.
«Blake, fermati», gli dissi, tentando di spingerlo via quel tanto che bastava per avere la sua attenzione. Finalmente, si staccò di qualche millimetro e mi guardò.
«Cosa?», feci un cenno con il mento verso il telefono e gli tolsi le gambe di dosso.
«La tua amichetta ti cerca». Il veleno nella mia voce era evidente. Blake mi mise una mano sul fianco, facendomi finire di nuovo contro la libreria, e si chinò su di me.
«Non è la mia amichetta», abbassai lo sguardo.
«No, certo. Scusa». Sgusciai via dal suo abbraccio e mi allontanai da lui.
«Ti permetti di giudicare e non sai nemmeno come stanno le cose», continuò lui, mentre prendevo la borsa.
«Quindi non ci vai a letto? Ti sta appiccicata e ti mette le mani addosso perché è la tua migliore amica, giusto?». Come diavolo mi era saltato in mente di lasciare che mi baciasse e, soprattutto, di ricambiare quel bacio? Gli avevo permesso di superare il limite.
Blake prese il telefono, bloccando lo schermo; poi raccolse le sue cose.
«Zoe è…», lo zittii.
«Non m’importa. Non sono fatti miei. Ciao Blake», lo superai, sperando di non dover continuare quella conversazione, ma lui mi prese per un gomito e mi fece voltare.
«Cosa vuoi che ti dica?»
«Assolutamente niente. Come ho già detto, non sono fatti miei», un lampo gli attraversò gli occhi.
«Sì, è vero, me la sono scopata», chiusi gli occhi. «Più volte», avrei tanto voluto tirargli un pugno. «E non nego che l’interesse che prova per me sia completamente diverso da quello che provo io per lei, ma Zoe lo sa che tra noi non ci sarà mai nulla. Non vado con lei da un pezzo, tra l’altro», sorrisi amaramente.
«Quindi ti stava chiamando per invitarti a bere un caffè?», strattonai il braccio liberandolo. «Non serve che tu risponda, in realtà non me ne frega niente. La tua vita sessuale non è affar mio», dichiarai allontanandomi, con lui alle calcagna.
«Io direi di sì, invece. C’eravamo entrambi poco fa contro la libreria. Era me che stavi baciando», alzai gli occhi al cielo.
«Ci stavamo baciando, niente di più. Per te dev’essere un’abitudine, quindi non vedo perché ne stai facendo una tragedia». Ero sulla difensiva, ma ero confusa. L’attimo prima ci urlavamo contro, quello dopo ci saltavamo addosso ed eravamo assolutamente perfetti e quello dopo ancora se ne usciva col dirmi che si era scopato una tizia più volte.
Ferita. Mi sentivo ferita.
Uscimmo dall’edificio. Mi strinsi nel cappotto aperto, l’aria fredda mi pizzicò il viso.
«Ah, sarei io quello che sta facendo una tragedia? Sei tu che ti sei ingelosita per una chiamata, una cazzo di chiamata». Scesi di corsa i gradini con lui di fianco che si abbottonava la giacca di pelle. «Dammi quei libri e chiuditi il giubbotto», mi ordinò e mi fermai di colpo.
«Smettila di dirmi cosa fare, come comportarmi o come sentirmi. Tu non mi conosci», gli urlai contro. «Non sono gelosa. Perché mai dovrei esserlo?». Era inutile: anche se potevamo essere compatibili sotto certi punti di vista, non ci saremmo mai capiti.
«Qualunque ragazza si sarebbe infastidita se il ragazzo che era impegnata a baciare e a cui è interessata avesse ricevuto la chiamata di un’altra», scossi la testa e ripresi a scendere i gradini che sembravano interminabili.
«Io non sono interessata a te», sbottai facendo l’ultimo gradino. Si piazzò davanti a me.
«Non dire stronzate. Tu mi vuoi. Se non ci fossimo trovati in biblioteca ma in camera da letto, avremmo scopato, anzi, molto probabilmente l’avremmo fatto contro la libreria. Fortuna che spengo sempre le telecamere quando sono in biblioteca perché non si sa mai…».
Mi accorsi di cos’avevo fatto solo quando vidi il viso di Blake girato di lato e sentii un bruciore alla mano. Feci un passo indietro. L’avevo schiaffeggiato. Non avevo mai fatto una cosa del genere. Mi guardò con gli occhi sgranati e chiusi la mano a pugno.
«Non sarò mai una delle tue puttane, Blake», feci un passo verso di lui. «L’accordo è saltato. Qualsiasi cosa stesse accadendo fra di noi, è finita. Avevi ragione, avrei dovuto tenerti alla larga sin dall’inizio. Mi hai ferita nel profondo e d’ora in poi per me non esisti. Regolati di conseguenza. Buona fortuna, Scott». Me ne andai, riuscendo chissà come a trattenere le lacrime. Non avrei pianto per un pallone gonfiato che non sopportavo. Mi voltai solo per un attimo e mi accorsi che Blake era fermo proprio dove l’avevo lasciato. Raggiunsi la mia stanza e trovai Mariam sul letto che mangiava le sue amate gallette.
«Kota, va tutto bene?», la guardai e annuii. «Tesoro, hai l’aria di una che sta per scoppiare a piangere, sembri stravolta e… Wow, hai un succhiotto piuttosto vistoso sul collo. Devo sapere qualcosa?», annuii, poggiai i libri e mi tolsi il cappotto.
«Stai alla larga dagli Scott». Chiusi la porta del bagno sbattendola.
«Kota», aprii l’acqua della doccia e andai a guardarmi allo specchio. Aveva ragione, quell’idiota mi aveva lasciato un enorme segno violaceo sul collo. Imprecai a bassa voce. Avevo chiuso. Blake Scott era un capitolo aperto e chiuso alla velocità della luce.