Capitolo 18

 

 

 

 

 

 

Tenni la bocca chiusa per tutto il tragitto fino a casa sua, lui fece lo stesso. La tensione fra di noi si poteva tagliare con un coltello. Ogni tanto sbirciavo nella sua direzione e lo vedevo stringere con forza il volante e il cambio mentre guidava spericolato per le strade della città. Non avevo paura. Finché ero in auto con lui, ero al sicuro. Ci fermammo davanti al suo palazzo, parcheggiò l’auto e mi guardò.

«Scendi», disse a denti stretti.

Uscì dall’auto e lo seguì; aprì il portone e mi fece segno di entrare. Obbedii ancora una volta senza fiatare, anche se stavo raggiungendo il limite di sopportazione del suo malumore. Salimmo a piedi al sesto piano ed entrammo in casa, rimanendo sempre in silenzio. L’appartamento era illuminato solamente dalla luce fioca che filtrava dalle finestre della cucina. Quando Blake si girò verso di me, i suoi occhi brillarono come smeraldi. Si tolse il giubbotto e la maglietta, al che deglutii a fatica non sapendo cosa aspettarmi. Possibile che amasse girare sempre mezzo nudo? Venne verso di me come un animale pronto ad aggredire la sua preda. I suoi passi erano lenti e ponderati, il suo sguardo mi trafiggeva, mentre teneva i pollici allacciati ai passanti dei jeans. Non mi mossi. Non mi sarei di certo tirata indietro, nonostante la sua espressione mi facesse sentire tentata di darmela a gambe il più velocemente possibile. Mi si fermò di fronte, la punta dei suoi scarponcini toccò le mie scarpe; Blake mi sovrastava in altezza, in tutto. Mi posò le mani sui fianchi e mi costrinse a indietreggiare fino al muro. «Cosa cazzo ti è passato per quella testa? Cosa volevi dimostrare?». Mi imprigionò contro la parete.

«Volevo che capissi che non sono un angelo. Credi di conoscermi e di potermi definire un’anima pura solo perché non uso il tuo linguaggio e non mi levo le mutandine per chiunque. Sappi, però, che anch’io ho i miei momenti di follia», sbottai guardandolo dritto in faccia. Si avvicinò di più. Sentii il calore irradiare dal suo corpo e scaldare il mio.

«Ah sì? Non sei un angelo ma la monellaccia che sono convinto tu sia? È questo che volevi che sapessi?», si chinò su di me.

«No», mormorai. «Sono solo una ragazza normale».

«No, non lo sei. Chi sei, Dakota? Dici che non ti conosco, eppure so come prendi il caffè e della tua famiglia, conosco i tuoi orari, il sapore delle tue labbra, il calore della tua pelle…», avvicinò la bocca al mio orecchio. «So che ti piace quando ti mordo. So che sei attratta da me come io lo sono da te, solo che non ci capiamo. Mi sono rotto le palle di cercare di comportarmi bene con te, soprattutto se continui a mettermi alla prova come stasera». Ero senza parole, più che altro perché aveva cominciato a mordicchiarmi il lobo dell’orecchio, cosa che, sì, mi piaceva. Anzi no, la adoravo. Il suo petto schiacciò il mio; teneva ancora le mani premute contro la parete, quando le volevo su di me.

«Dov’è il tuo reggiseno?», chiese all’improvviso e sbattei diverse volte gli occhi nel tentativo di riscuotermi.

«Non l’ho rimesso», si scostò appena per guardarmi dritto in faccia.

«Hai lasciato il tuo reggiseno al campo?», la sua voce era dura.

«Sì. Qual è il problema?»

«Me lo stai chiedendo davvero?», domandò sbarrando gli occhi. «Ma santo cielo, perché l’hai lasciato là?»

«Non ci ho pensato, ero presa dalla gara», risposi sincera. «E poi era solo uno stupido reggiseno».

«Be’, il tuo stupido reggiseno deve starti addosso quando siamo in giro, hai capito?»

«Siamo?», ero io quella con gli occhi sbarrati adesso. Mi ignorò, preso com’era dalla sua ramanzina.

«Dakota, il reggiseno deve starti addosso», era frustrato, quindi sorrisi compiaciuta.

«Quante storie fai, Blake», lo rimbeccai e lui si accigliò.

«Mi hai già sfidato per questa sera, evita di tentare di nuovo la sorte», gli comparve sulle labbra un sorrisetto strafottente.

«Ho già vinto una volta», dissi.

«E adesso ne pagherai le conseguenze», sussurrò a un millimetro dalle mie labbra. «Ho l’uccello che non vede l’ora di entrarti dentro, piccola». Afferrò l’orlo della mia maglia e me la sfilò con un movimento fluido. Abbassò lo sguardo sui miei seni nudi e con la punta delle dita ne tracciò i profili. Mi aggrappai alle sue braccia e poggiai la testa al muro.

Porca miseria, anzi no… Cazzo!

Mi fissò negli occhi. «Non ho idea di cosa succederà dopo, ma ora ho bisogno di averti». Mi osservò in cerca del mio consenso. Mi sarei lasciata risucchiare da uno che altro non era che un profondo buco nero? Stavamo oltrepassando il limite e, una volta fatto, non saremmo più potuti tornare indietro. Però lo volevo ed ero stanca di negare l’evidenza. Mi alzai in punta di piedi e gli misi le braccia attorno al collo.

«Per rispondere a una tua vecchia domanda… sì, mi sono chiesta come sarebbe se a fottermi fossi tu». Mi strinse a sé, petto contro petto. Appoggiai le labbra sulle sue che si schiusero immediatamente. La sua lingua mi si insinuò in bocca, mentre mi Blake approfondiva il nostro bacio.

«Andiamo in camera mia», feci per spostarmi dalla parete, ma lui mi prese per i fianchi e mi caricò sulla spalla.

«Blake, non è necessario!», gli urlai.

«Oh sì che lo è», rispose lui prima di affondare i denti nel mio fianco.

«Ahi», mi lamentai, tirandogli qualche pacca sul sedere, che gli strappò una risata. Poco dopo, mi ritrovai sul letto. Blake si tolse i jeans, rimanendo in boxer; io mi sfilai le scarpe e indietreggiai sul letto. Si inginocchiò sul materasso e mi raggiunse muovendosi come una tigre pronta ad azzannare un povero cerbiatto. Stavolta ero io il cerbiatto della situazione.

«Non immagini quanto l’ho desiderato», disse posizionandosi sopra di me.

«Non ne hai mai fatto mistero», risposi io sdraiandomi. Sorrise, il suo era un sorriso pericoloso.

«Il sesso con me sarà qualcosa di straordinario, lo sai, vero?», chiese chinandosi su di me. «Non sarai più in grado di scopare con nessuno dopo essere stata con me», continuò mentre mi lasciava una serie di baci lungo il collo. Ero così eccitata da sentire un dolore atroce in mezzo alle gambe, che volevo mettere a tacere.

«Be’, a parole sei bravo, vediamo come te la cavi con i fatti», lo punzecchiai.

Iniziò a scendere con quella benedetta punta della lingua lungo il mio corpo. Disegnò il profilo di uno dei seni prima di prendere il capezzolo fra i denti, lasciandomi senza fiato. Strinsi le lenzuola. «Blake», ansimai.

«Ancora», disse lui. «Dillo ancora. Ripeti il mio nome all’infinito», passò all’altro seno. «Lo dici sempre come se fosse un complimento», ridacchiai.

«Curioso, visto che tu pronunci il mio nome come fosse un’imprecazione», rise anche lui mentre la sua lenta tortura proseguiva lungo la pancia.

«Dakota», disse mentre mi tracciava con la lingua l’ombelico. Le mie mani si infilarono tra i suoi capelli folti.

«Blake», ripetei. Trovò il bottone dei miei jeans e lo aprì; poi me li sfilò insieme alle mutandine nere.

«Cosa vuoi?», ringhiò lui e lo guardai. Come sempre, i suoi occhi parlavano al posto suo. In quell’inferno smeraldino brillavano rabbia, passione ed emozione. Risalì su di me e mi morse un labbro. «Cosa vuoi che ti faccia?», chiese ancora.

«Tutto», mormorai io cercando di catturare le sue labbra. Lui si ritrasse con un sorriso.

«Eh no, mi baci quando te lo dico io», mi schernì lui. «Qui comando io». Presuntuoso. Non avrebbe vinto, oh no.

«Blake, voglio che mi tocchi. Ora», gli ordinai con voce ferma e venni travolta da una scarica di eccitazione.

«No», rise lui, aleggiando sulle mie labbra.

«Va bene». Gli feci un gran sorriso e spostai la mano verso il basso. Il suo, di sorriso, invece scomparve quando si rese conto di cosa stavo per fare. Sgranò gli occhi e si leccò le labbra; sarei potuta venire solamente a quella vista. Disegnai dei cerchi con le dita sul clitoride a ritmo sempre più sostenuto per darmi piacere. Ero a un passo dall’orgasmo quando mi fermò. Mi guardò con quei suoi occhi scuri, famelici. Scostò la mia mano e la sostituì con la sua bocca. Mi bloccò i fianchi e, poco dopo, sentii la sua lingua calda aprirmi e scivolare dentro di me, mentre le sue dita mi facevano una leggera pressione sul ventre. Stavo impazzendo. Mio Dio era assurdo quello che stavo provando. Sentii il fuoco divampare, la tempesta travolgermi e ridurmi a brandelli. Urlai il suo nome non appena arrivai all’apice. Ma Blake ancora non aveva finito con me. Un istante dopo, mentre ancora cercavo di riprendermi, si sfilò i boxer, lasciandomi a bocca aperta.

«Quindi è vero», mormorai guardando il piercing verticale sulla punta del pene. Riportai lo sguardo sul suo viso e lui mi sorrise.

«Piccola, ovvio che il mio cazzo sia vero, pensi che andrei in giro con uno finto?», sbuffai e scossi la testa.

«Mi riferivo al piercing, idiota», infilò il preservativo e si posizionò fra le mie cosce.

«Si chiama Apadravya. Se hai letto il Kamasutra saprai che viene definito piercing erotico perché regala un piacere estremo sia a chi lo porta che a chi ne beneficia», mi morsi il labbro. Ero decisamente curiosa di sapere che effetto avesse su di me. «E io sono decisamente estremo», continuò mentre disegnava il contorno delle mie labbra con la lingua. Ansimai. «Sei bellissima», aggiunse, guardandomi negli occhi. «E sei proprio una gran monellaccia». Mi penetrò piano, centimetro dopo centimetro. Inarcai la schiena e piegai le ginocchia, accogliendolo e permettendogli di affondare del tutto dentro di me. A quel punto, appoggiò la fronte imperlata di sudore contro la mia e si allacciò le mie gambe dietro la schiena. «Porca puttana. Sei stretta, perfetta, pronta per me. Assolutamente adatta a me». Si lanciò sulle mie labbra e gliele offrii. Uscì da me lentamente, poi mi penetrò ancora, ancora e ancora. «Tu. Sei. Mia», ringhiò a denti stretti, affondo dopo affondo.

Raggiungemmo l’apice insieme e Blake soffocò il mio grido con la sua bocca, la sua lingua. Lo strinsi forte a me e lui nascose il viso nel mio collo.

«Porca misera», dissi, cercando di riprendere fiato.

«Merito mio, piccola, non del piercing», ridacchiò lui.