Capitolo 25
Non dormivo da due cazzo di giorni, come nessuno in quella dannata casa, del resto. A Tyler non piaceva proprio fare la nanna. Guardai l’ora, erano le quattro del mattino. Mi alzai e andai in soggiorno, dove trovai mio fratello sul divano, con il piccolo fra le braccia.
«È un nottambulo, eh?», domandai. Mi sdraiai accanto a lui, prendendo il bambino e adagiandolo sul mio torace nudo
«Non gli piaccio», si lamentò mentre la pulce smetteva di piangere. «Vedi? Gli piaci di più tu».
«Sono suo zio, è ovvio che gli piaccio più io», lo presi in giro, Damien abbassò lo sguardo. «Dam», lo chiamai. «Fratellino, guardami», rialzò gli occhi verdi, identici ai miei. «Capisce che sei nervoso, probabilmente non dorme perché ti sente agitato. Devi darti una calmata».
«Facile per te, non è da te che dipenderà per il resto della sua vita», mi rimbeccò. Sbuffai e mi misi seduto; gli poggiai una mano sulla spalla mentre con l’altra reggevo il marmocchio.
«Sentimi bene, dipenderà da entrambi, chiaro? Siamo tutti e due responsabili per lui. Non solo tu. Tu gli insegnerai a non essere indelicato e io a esserlo. Sei suo padre e sarai la persona più importante della sua vita, ma noi tre faremo squadra. Hai capito? Sempre». Si prese la testa fra le mani, distrutto. Damien non era come me, non viveva alla giornata; lui programmava, rifletteva.
«Noi quattro», disse una voce alle nostre spalle. Ci voltammo in tempo per vedere Hunter che andava in cucina e infilava il biberon in un pentolino per scaldare il latte. «Siamo noi quattro e, vi avviso, fra poco Ty comincerà a piangere perché deve mangiare», rivolsi un’occhiata al mio gemello.
«Ce la caveremo, non sei solo, ma devi imparare a stare con tuo figlio», lo confortò Hunter. Tyler iniziò ad agitarsi e nostro cugino si avvicinò con il biberon.
«Andate a dormire, ci penso io», disse.
«No». Damien strinse i pugni. «Potreste lasciarci soli? Voglio… voglio farlo da solo», borbottò. Mi alzai e gli diedi suo figlio.
«Non da solo, Dam, con Tyler», sospirai e tornai in camera, dove fissai il soffitto per un po’. Poi, presi il telefono e sbloccai lo schermo, sullo sfondo del quale c’era il viso di Dakota. Era molto presto e probabilmente era da egoista e stronzo svegliarla, ma avevo bisogno di sentirla.
«Blake», la sua voce impastata di sonno mi risvegliò definitivamente tutti i sensi.
«Ehi, piccola».
«Stai bene? Che ore sono?», chiese agitandosi.
«È presto ancora».
«Che succede, Blake?»
«Niente, avevo voglia di sentire la tua voce», la sentii ridere.
«Non potevi aspettare qualche ora?»
«No. Assolutamente no», feci una pausa. «Dakota?»
«Si?», ridacchiai prima di parlare.
«Visto che siamo svegli e non riusciamo a dormire, che ne dici di fare del sesso telefonico?»
«A dire il vero stavo dormendo come una bambina…», sembrò rifletterci un po’. «È imbarazzante», aggiunse e alzai gli occhi al cielo.
«Ti sei già toccata davanti a me e ora hai il vantaggio che non posso neanche vederti; però voglio sentirti e poi…», infilai una mano nei boxer, stringendo il mio uccello sull’attenti. «Ho già il cazzo in mano, non puoi abbandonarmi così a me stesso. Dimmi che ti stai toccando pensando a me». Me lo disse e ci divertimmo, cavolo se ci divertimmo. Fu il miglior sesso telefonico di sempre.
«Dakota?», la chiamai quando entrambi riprendemmo fiato.
«Mmh».
«Te l’avevo detto che prima o poi ne sarebbe valsa la pena di farsi delle domande, no?», la sentii inspirare.
«Sei stato tu? Mi hai mandato tu quel messaggio misterioso?», un sorriso mi spuntò sulle labbra.
«Sì, quando ancora ero convinto che saresti rinsavita; invece, eccoci qua, a fare sesso telefonico». Già, come diavolo avevamo fatto ad arrivare a quel punto?
«Ma il numero…».
«Ho usato il telefono di Dam», la interruppi.
«Be’, per quanto mi pesi ammetterlo, avevi ragione», ridacchiai.
«Ho sempre ragione. Buonanotte, piccola». Solo che non mi aspettavo che sarei stato io la persona per cui ne sarebbe valsa la pena, ma questo non lo avrei mai ammesso.
«Notte, Scott».
«Piccola, credo sia sorto un problema. Non credo di poter lasciare Damien da solo. È la vigilia di Natale e siamo sempre stati insieme. Che ne dici se ti raggiungo domani mattina? Arriverò ancora prima del tuo risveglio». Infilai il giubbotto di pelle e uscii dagli spogliatoi del circuito. Salutai con un cenno un paio di compagni di squadra mentre mi dirigevo alla macchina. Era stata una gara lunga ed estenuante, ma mi ero conquistato il primo posto. E pensare che ero entrato nel mondo del motocross per puro caso, grazie a mio padre, che aveva deciso di far trascorrere ai suoi figli una serata diversa e ci aveva portati a una corsa. Prima di quel giorno, non avevo mai visto un circuito sterrato ed ero rimasto ammaliato dalle moto, dalla velocità, dalle acrobazie. Avevo capito che quello sport faceva per me in un lampo, volevo imparare a correre come i ragazzi in pista e sporcarmi di fango. All’inizio, pensavo che il mio sarebbe rimasto un sogno, invece avevo messo da parte i soldi, comprato la moto, iniziato ad allenarmi e capito di essere bravo. Quando la mia vita si era sgretolata e mamma era morta, la moto, i circuiti, gli scrub, le whoops, i dossi artificiali… erano diventati parte di me.
«In realtà ti stavo chiamando io per dirti che sarò al dormitorio fra un’oretta», disse Dakota. Mi bloccai di colpo.
«Che succede?», chiesi aprendo la portiera e infilandomi in auto prima di gelarmi le chiappe.
«Stamattina Mariam ha ricevuto una chiamata da mio padre a proposito di suo fratello. Poi ti racconto meglio, ma per fartela breve, è appena partita per la Germania. Sto tornando con Devon e Brooke». Sentii una gran tristezza nella voce di Dakota. Non c’erano buone notizie. «Ti aspetto fuori dal dormitorio», la informai, prima di salutarla e andare direttamente da lei. Un’ora dopo, vidi la jeep di Devon fermarsi accanto alla mia auto. Dakota apparve e si precipitò fra le mie braccia. Mi abbracciò così forte da mozzarmi il fiato. Stavo così bene con lei fra le braccia, ero in paradiso. Premette il viso contro il mio petto e strinsi a me quel corpicino. Devon mi passò il suo borsone.
«Stalle vicino. Noi andiamo. Divertitevi». Incrociai lo sguardo triste di Brooke che mi fece male al petto.
«Siete soli stasera?», domandai loro. Brooke annuì, Devon, invece, si bloccò davanti alla sua portiera.
«Noi, be’, se vi va…», facevo schifo con gli inviti. Persino Dakota scostò la testa per guardarmi. «Ariel, la sorella di Hunter, è da noi e pensa lei alla cena questa sera. Probabilmente staremo un po’ stretti, ma perché non vi unite a noi?», riuscii a dire. Devon e Brooke si guardarono e Dakota mi sorrise con gli occhi pieni d’ amore; cavolo, per quello sguardo avrei dato via anche le palle. Be’, più o meno. «Andiamo, Bluey», incalzai Brooke, che mi fulminò con lo sguardo. Ammiccai.
«Va bene, grazie», rispose infine e io le sorrisi. Ammutolito, Devon la fissò a bocca aperta.
«A stasera», dissi loro e li guardai uscire in retromarcia dal parcheggio. Non appena se ne andarono, io e Dakota entrammo nel dormitorio. «Che cosa è successo? Cos’è questa storia della Germania?». Si lasciò cadere sul letto, gli occhi rivolti al soffitto e colmi di lacrime trattenute. La mia piccolina era forte, più forte di me.
«Il fratello di Mariam, Jake, è nell’esercito. I genitori di Mariam e Jake erano militari e sono morti in missione. L’auto su cui viaggiavano entrambi è esplosa. Quando è accaduto, Jake aveva appena compiuto diciott’anni, perciò ha deciso di arruolarsi per seguire le loro orme. Così, è stato trasferito in Colorado, nella stessa base in cui vivevo io. Io e Mariam siamo diventate amiche all’istante. Mio padre vuole molto bene a Jake, lo tiene sotto la sua protezione. Non so ancora cosa gli sia successo di preciso, ma è rimasto gravemente ferito nel corso di un’operazione ed è stato trasportato nell’ospedale militare in Germania. Mariam è la sua unica parente ed è maggiorenne, così è stata avvertita subito. È partita all’istante per andare a vedere come sta suo fratello». Mi distesi accanto a lei, le infilai un braccio sotto la testa e la attirai a me. Combaciavamo perfettamente.
«Se la caverà. Non è ancora detta l’ultima parola», le mormorai contro i capelli profumati e iniziai ad accarezzarle la schiena.
«Blake?»
«Mmh?»
«Brooke mi ha detto, mi ha raccontato che…», sorrisi nel vederla in difficoltà, ma il mio cuore sprofondò in un buco nero perché sapevo che argomento stava per affrontare. Dakota inspirò a fondo. «Mi ha detto della depressione di tua madre», disse d’un fiato. Alzò la testa per osservarmi e, dal canto mio, mi concentrai sul soffitto.
«È stata male per tutta la vita», lo stomaco si contrasse con una fitta dolorosa. «Era già depressa quando ha conosciuto mio padre però i farmaci all’epoca la aiutavano molto; la gravidanza gemellare, però, l’ha annientata. Nei giorni buoni era incredibile», sorrisi al ricordo dei nostri rari momenti felici. «Faceva dei biscotti deliziosi, con le forme che più ci piacevano. Rideva, Cristo quanto rideva… a volte mi sembra ancora di sentirla». Rividi i suoi capelli del colore del sole, gli occhi verdi come un giardino in primavera, il sorriso grande e luminoso. Niente era bello quanto lei, nessuno avrebbe mai brillato come lei. «Le piaceva leggerci delle storie, anche nei giorni peggiori. Ci faceva salire sul suo letto, e scegliere il libro che preferivamo e poi ce lo leggeva per ore intere. I libri che hai visto in camera mia sono suoi». Sentii la mano di Dakota posarsi sul mio cuore ammaccato e dolorante. «Dovevo dare il cambio a Damien quella sera. Non potevamo lasciarla mai sola, visto che aveva provato a uccidersi più di una volta», deglutii a fatica, chiusi gli occhi e mi sembrò di tornare indietro di cinque anni. «Stavo tornando a casa, ho detto a Dam di uscire pure perché tanto ero proprio dietro l’angolo. Ma poi all’improvviso mi ricordai che era il giorno dell’anniversario di nozze dei miei. Ero solito comprarle un bel mazzo di fiori in quell’occasione e le dicevo che li mandava papà. Mi arrabbiai con me stesso per essermene dimenticato. Il fiorista era proprio a due passi da casa nostra, così parcheggiai davanti casa e andai a comprarle delle margherite», mi tremò impercettibilmente la voce mentre il dolore fuoriusciva dal mio petto e riempiva l’aria intorno a noi.
«Blake», sussurrò Dakota. Strinsi gli occhi, stranamente e fastidiosamente umidi.
«Stavo uscendo dal negozio quando si è sentito un colpo, secco e forte, che mi ha riempito le orecchie. Ricordo di essere corso a casa, ma sapevo già cos’era successo. Sono entrato in casa urlando il nome di mamma. Sono arrivato in soggiorno e l’ho trovata era lì, sul divano, priva di vita, in un lago di sangue. Ricordo di aver osservato le pareti schizzate di rosso e di aver raccolto dal pavimento la pistola che avevo detto a mio padre di far sparire un’infinità di volte. Ricordo di averla stretta a me per un po’, poi qualcuno mi ha trascinato via. La casa è stata invasa dalla polizia, dai paramedici e dai vicini, ma non vedevo altro che il suo sangue su di me, sulle mie mani. Non ho mai permesso a mio fratello di entrare in quella stanza. Ho chiuso a chiave la porta e, solo dopo che era stata ripulita, gli ho permesso di entrare. Damien era a pezzi, mio padre un uomo distrutto». Le piccole e delicate mani di Dakota mi accarezzarono il viso.
«Lo eravate tutti», mormorò prima di baciarmi. Le misi una mano sulla sua nuca e l’avvicinai di più, avevo bisogno di sentirla, avevo bisogno che dissipasse quel dolore. Si staccò da me per un attimo.
«Ti amo per l’uomo che sei», mi disse. Le sorrisi e la baciai.
«Ti amo per la donna coraggiosa che sei, ma se per te tutto questo è troppo, se il mio buio è troppo…», mi zittì con un bacio.
«Blake, non dirlo neanche per scherzo». Ci baciammo, la spogliai e la accarezzai. Mi feci spazio dentro di lei mentre lei si prese il mio cuore, la mia anima. Ogni cosa. Con le dita tracciò il nome di mia madre che avevo tatuato sul cuore. «Rosalie», bisbigliò. «Bellissimo», annuii. Era un nome bellissimo, appartenuto a una donna straordinaria con un destino triste.
Appena salimmo in macchina diretti al mio appartamento, mi preparai a sganciare l’ennesima bomba della giornata. Quand’è che la mia vita si era fatta così complicata?
«Devo dirti una cosa prima di andare da me, ma devi promettermi che non dirai nulla a Mariam», feci un bel respiro e lei alzò un sopracciglio. Poi le raccontai tutto di Tyler.
Quando dieci minuti dopo mi vide entrare con Dakota, Damien rischiò l’infarto e mi trascinò in camera per urlarmi contro. Le nostre urla si sentirono per chilometri, finché Dakota entrò nella stanza, sorprendendo entrambi poiché aveva fra le braccia Tyler che le faceva dei sorrisoni.
«È bellissimo», disse a Dam, poi si fece seria. «Non condivido il tuo comportamento, anzi, lo trovo ridicolo perché non puoi nascondere un bambino. Inoltre, odio il fatto di dover mentire alla mia migliore amica. A ogni modo, solo per un po’, ti darò il beneficio del dubbio». Dam si rilassò e abbracciò lei e il bambino. Più tardi cenammo, in compagnia anche di Devon e Brooke, che alla fine ci avevano raggiunti. Ariel era una cuoca eccezionale e aveva preparato i nostri piatti preferiti, perciò ci avventammo sul cibo e poi crollammo chi sul divano, chi seduto per terra. Fu un momento divertente e soprattutto strano visto che non eravamo abituati ad avere con noi qualcuno che non facesse parte della famiglia. A un certo punto, Ty, che per essere un neonato aveva una forza immane, cedette e ci diede un attimo di tregua. Così ci rilassammo tutti insieme davanti alla tv.
«Belli i polsini, li uso anch’io». Brooke si immobilizzò nell’attimo stesso in cui Hunter le rivolse la parola, ma soprattutto lo sguardo. Si sistemò le maniche per coprirsi i polsi e lo guardò un po’ titubante.
«Grazie», si decise a rispondere dopo un istante interminabile. Hunter le rivolse un sorriso tutto denti bianchi e perfetti e sbuffai scuotendo la testa.
«Che c’è?», mi domandò Dakota accanto a me.
«Hunter ci sta provando con Brooke». Dakota mi diede una gomitata.
«Ahi», mi lamentai massaggiandomi la parte ferita.
«Non ti ho fatto male, idiota», disse lei ridacchiando. «E poi le ha solo chiesto dei polsini, mica di uscire», sospirai.
«Sei proprio una frana in fatto di ragazzi».
«Oh su questo hai perfettamente ragione, guarda con chi sono andata finire». Molto divertente. Ah-ah, ma che risate! Le diedi un pizzicotto sul sedere e, quando lanciò un urletto, sorrisi compiaciuto.
«Più tardi te lo faccio vedere io con chi sei finita, piccolina».