Capitolo 1
«Dakota svegliati, andiamo». Qualcuno mi stava scrollando, riconobbi la voce, mi girai dall’altro lato del mio letto. «Kota andiamo, sveglia, è ufficialmente cominciato il nostro primo anno al college», sussultai e mi misi seduta. Era già mattina? Non ero in ritardo, giusto? Mi guardai intorno, la stanza era immersa nel buio, allungai una mano verso la sveglia.
«Ma ti è dato di volta il cervello? Mariam, è l’una di notte». Mi passai una mano sul viso prima di lasciarmi ricadere sul cuscino. Per tutta risposta, saltò sul letto. «Mariam», mi lamentai.
«Alzati, fra poco passano a prenderci», la scrutai e osservai mentre si alzava dal letto per raggiungere l’armadio. «Decido io cosa ti metti».
«Si può sapere dove pensi di andare? Se ci beccano fuori dal dormitorio verremo espulse ancor prima di partecipare alla nostra prima, vera lezione, quindi qualsiasi stupida idea ti sia venuta in mente, rinunciaci». Mi nascosi sotto le coperte, chiusi gli occhi e cercai di rimettermi a dormire quando il piumone mi venne strappato via; Mariam non aveva intenzione di cedere, così tornai a sedere.
«Senti, il Generale l’abbiamo lasciato in Colorado insieme alle sue regole assurdamente rigide. È il nostro primo anno lontano da casa, siamo in Minnesota, porca miseria, o meglio, a Minneapolis, la città delle donne, con una delle aree metropolitane più grandi degli Stati Uniti, non in un buco di culo qualunque», alzai un sopracciglio per la sua ultima espressione.
«Buco di culo?», chiesi scoppiando a ridere. Mariam mi spinse facendomi cadere all’indietro mentre morivo dalle risate.
«Il punto è che faremo insieme tutto quello che finora non abbiamo potuto, compresa la nostra imminente impresa», le comparve sulle labbra un sorriso diabolico. Andò all’armadio, indossò una gonna di jeans e un maglioncino. Infilò degli stivaletti e mise il rossetto.
«Non staremo mica andando in discoteca a quest’ora?», odiavo quei posti. Troppa gente, troppo caos, troppo alcol. Troppo tutto.
«No, saremo all’aperto, ma, per l’amor del cielo, non vestirti da santarellina», assunsi un’espressione scocciata e presi i primi indumenti che trovai. A chi cavolo importava di come mi vestissi a quell’ora? Appena mi vide, sbuffò. «Sul serio? Dei leggings e una felpa neri? Mettiti almeno il rossetto, aggiungi un po’ di colore». Presi il cappello bianco e lo indossai.
«Ecco il colore. Non so dove stai andando tu, ma io non devo far colpo su nessuno». Calzai le scarpe da tennis proprio quando il telefono di Mariam iniziò a vibrare.
«Non c’è più tempo per cambiarsi, andiamo», mi prese per mano e uscimmo piano dal dormitorio; eravamo lì da solo un giorno e già stavamo sgattaiolando fuori in piena notte. Una volta fuori, l’aria fredda mi punse il viso e mosse i capelli che mi solleticarono il collo. Raggiungemmo una jeep.
«Muovetevi ragazze, stanno per iniziare». Appena Mariam aprì lo sportello vidi un ragazzo riccioluto, biondo, con un bellissimo sorriso e gli occhi chiari. Salii sul sedile posteriore dove in un angolino sedeva una ragazza dai capelli rossi. Mi salutò con la mano e ricambiai. «Io sono Devon e lei è Brooke».
«È la mia migliore amica e di solito non è così maleducata, ma è arrabbiata con me perché l’ho trascinata giù dal letto. Si chiama Dakota», disse Mariam e si girò a guardarmi con i suoi occhi scuri.
«Ciao, scusatemi, è solo che odio non sapere dove sto andando», aggiunsi io e la mia migliore amica mi sorrise passandosi una mano fra i lunghi capelli scuri.
«Lo scoprirai presto, tesoro», disse Devon per poi partire come un razzo. Non so bene quanto tempo dopo, imboccammo una strada sterrata e arrivammo in una zona di campi poco distante da un lago, che in quel momento brulicava di ragazzi della mia età. Non c’era molta luce, l’area era più che altro illuminata dai fari delle macchine e dei furgoni. Qualcuno aveva messo della musica house e c’erano parecchi cofani aperti. Mi avvicinai a un’auto nera. Non avevo idea di che modello fosse perché non ne capivo un accidente, ma era lucida, perfettamente pulita, con gli interni in pelle immacolati e una collana che penzolava dallo specchietto retrovisore. Diedi un’occhiata dentro al cofano, pulitissimo persino quello. Proprio allora mi resi conto che aveva perso Mariam e gli altri nella folla. Maledizione! Imprecai dentro me, voltandomi di scatto nella speranza di individuarli, invece mi ritrovai a fissare una maglietta nera, alzai lo sguardo e… Cavolo. Rimasi stregata da un paio di occhi verdi, rapaci, arrabbiati, forse con me o forse con il resto del mondo, e da un paio di labbra atteggiate in un mezzo sorriso. Se il sorriso di Devon era bellissimo, quello di quel ragazzo era incredibile, magnetico, pericoloso.
«Quindi tu di solito ti svegli così?». La sua voce era bassa, graffiante, seducente. Corrugai la fronte per la sua domanda e lui distolse lo sguardo dal mio e fece un cenno alla mia felpa, sulla quale, mi ricordai, c’era scritto: “mi sono svegliata così”.
«In effetti, sì», ammisi e gli si arricciò di più l’angolo della bocca. Mi presi ancora un minuto per osservarlo meglio notando il piercing che aveva in mezzo agli occhi e i tatuaggi sulla gola che immaginai continuassero sotto la felpa grigia che indossava. Mi porse la mano, anche quella tatuata, e gliela strinsi. Era calda e avvolgeva totalmente la mia.
«Non ti ho mai vista da queste parti. Sono Blake». La sua stretta era forte e decisa; ci guardammo per un intero minuto, nessuno dei due sembrava avere intenzione di mollare la presa o abbassare lo sguardo.
«Dakota!», mi sentii chiamare e mi voltai verso Mariam che sorrise come un’idiota.
«Dakota», mormorò lui. «Dimmi, Dakota, ti va di fare un giro sulla mia macchina?», scossi la testa.
«Non ho idea di cosa facciate qui, ma non mi piace e non voglio farmi male». No, no e poi no.
«Già, non dovresti assolutamente fidarti di me, ma finché sei sulla mia macchina sarai al sicuro», sorrise e apparve una fossetta, cavolo, una meravigliosa fossetta.
«Contendenti, ai vostri posti! Stiamo per cominciare». Tre ragazzi vicino a Blake salirono in auto, tutti accompagnati da qualcuno. «Blake, corri solo come al solito?». Un ragazzo di colore si avvicinò e mi fece un cenno prima di rivolgere l’attenzione al tizio di cui non mi sarei dovuta assolutamente fidare e alle nostre mani ancora unite.
«Non questa volta», continuò a guardarmi con quel suo sguardo indagatore, pericoloso, illegale. Non mi ero mai sentita in quel modo. Non mi ero preoccupata di notare particolari come le fossette o le ciglia scure che facevano risaltare gli occhi chiari e le labbra carnose. Non mi ero mai chiesta, prima di allora, come mi sarei sentita se le mani di qualcuno, se quelle mani, si fossero posate su altre parti del mio corpo. Non avevo tempo per un ragazzo, soprattutto non ne avevo per un tipo come lui, ciononostante quando sentii lo sportello aprirsi, be’, salii sull’auto senza pormi molte domande. Il mio cervello era andato a farsi benedire. Addio cervello, benvenuti ormoni.