Capitolo 22

 

 

 

 

 

 

Ero talmente incazzato che con ogni probabilità avrei spaccato la faccia a qualcuno. Ingranai la marcia e affondai sull’acceleratore. Sentii le ruote stridere sull’asfalto e la macchina sfrecciare in avanti. Sapevo da chi andare per avere le risposte che mi servivano e ci misi poco ad arrivare a destinazione. Frequentavo quell’appartamento da tanto ormai. Suonai il citofono del palazzo.

«Chi è?», mi chiese una voce.

«Apri questa cazzo di porta prima che la sfondo», ringhiai.

«Sempre gentile, eh», ribatté lei, ma la serratura del portoncino scattò. Lo spalancai facendolo sbattere contro il muro, salii le scale e Zoe mi aprì la porta. Zoe la conoscevo da tutta la vita. Ero abituato alle sue stronzate, ma questa volta aveva superato il limite. Entrai in casa. «Che vuoi?», chiese. Certe volte era persino più stronza di me.

«Mi prendi in giro?», la aggredii. «Che cazzo hai fatto? Mi spieghi perché hai mandato a Dakota quella foto?», urlai furioso. Zoe non si dimostrò per nulla intimorita e mi guardò negli occhi. Tra l’altro, a differenza di Dakota, non dovette nemmeno inclinare la testa per guardarmi poiché era alta per essere una ragazza, forse grazie ai geni ereditata da suo padre, un ex giocatore di basket.

«Di che diavolo parli?», sbottò lei, ma distolse lo sguardo.

«Non fare la finta tonta. Non mi sono nemmeno preso la briga di controllare il mittente, ma sono certo che, se l’avessi fatto, mi sarei reso conto che questa bravata era opera tua. Dove l’hai presa quella foto? Di quanti secoli fa era?», sbattei la mano contro la parete, poco distante da lei. Non mi guardò con timore e non aveva paura di me, sapeva che non avrei mai osato colpirla. «Ti sei divertita? Hai pensato fosse uno scherzetto simpatico? Stessa camicia, stesso locale, ti ho servito l’occasione ideale su un piatto d’argento, non è vero?», continuai. La vidi serrare la mascella. «Non ti tocco da oltre un mese, non ti bacio da secoli. Perché mi stai facendo questo?», le domandai. Zoe mi mise le mani sul petto per spingermi verso la porta, però non mi mossi. «Possiamo stare in questa posizione tutta la notte perché proprio a causa tua, non ho più un cazzo da fare». Non avevo fatto niente di male e di certo non l’avevo baciata. Era vero, però, che ero stato al pub quella sera e che Zoe era con me, il che capitava spesso. Avevamo bevuto un drink con altri amici di corsa, non ci eravamo nemmeno seduti al tavolo.

«Sei cambiato da quando c’è lei», mormorò Zoe.

«Ti sembra una buona ragione per rovinare le cose tra noi? Già fa fatica a fidarsi di me e ti ci metti pure tu a rendermi la vita impossibile. Del resto, come darle torto? Crede che ti abbia baciato. Cazzo, Zoe». Mi scostai da lei e mi passai una mano nei capelli. Ero frustrato, furioso, mi faceva male la mano con cui avevo colpito quel coglione e sapevo di avere un livido sul torace.

«Come ci siamo ridotti così?», mi voltai a guardarla e mi accorsi che aveva gli occhi scuri pieni di lacrime.

«Non lo so», ammisi. Noi due ci conoscevamo da tutta la vita. Eravamo migliori amici da sempre, ma poi qualcosa era cambiato. Avevamo mischiato l’amicizia al piacere fisico e, per quanto riguardava lei, all’amore. Ci eravamo incasinati e persi. Crollai sul divano con la testa fra le mani. «Non mi perdonerà mai». Mi scappò un gemito addolorato e Zoe si sedette accanto a me, posandomi una mano sul braccio.

«Sistemerò le cose. Le dirò la verità, ovvero che quella è una vecchia foto, che sono gelosa del modo in cui le parli, la tocchi, in cui ti brillano gli occhi quando la guardi. Ho desiderato così tanto di vederti innamorato e finalmente è successo, solo che non lo sei di me», lessi grande sofferenza nei suoi occhi. «Ci copriamo sempre le spalle, ricordi?». Certo che lo ricordavo. Ricordavo la bimba paffuta che abitava accanto a casa mia, ricordavo l’adolescente che sgattaiolava fuori dalla finestra in piena notte per venire con me alle gare, ricordavo di averle promesso di proteggerla. Alla fine, però, ero diventato uno stronzo senza speranza e avevo rovinato un’altra cosa bella.

«Scusa», le dissi sincero. «Scusa per il male che ti ho fatto».

«Smettila, Blake. Smettila di punirti. Sono consapevole delle scelte che ho fatto e non è colpa di nessuno se ho perso la testa per te, se ci siamo incasinati fino a questo punto. Tesoro, cerca di essere felice». Spostai lo sguardo sulla foto appesa al muro alle sue spalle. Raffigurava me, lei, Damien e Hunter da ragazzini, quando ancora credevamo che avremmo conquistato il mondo. Mi venne un groppo in gola, non per la foto, ma ripensando a chi l’aveva scattata.

«Mi manca», poggiò la testa sulla mia spalla.

«Manca a tutti. Sono certa che sarebbe orgogliosa di chi sei, di cosa stai facendo e di come ti prendi cura di tuo fratello». Ogni giorno. Mi mancava ogni santo giorno. «Domani parlerò con Dakota, okay?», chiusi gli occhi.

«Merda», strinsi i pugni. «Domani iniziano le vacanze. Lei e gli altri vanno in montagna fino alla vigilia di Capodanno, ma non so dove. Avrei dovuto raggiungerli il ventiquattro. Che cazzo!».

«Non conosci il nome del posto?», chiese lei.

«Me l’ha detto, ma in quell’occasione era completamente nuda. Secondo te per quanto tempo l’ho ascoltata? Gliel’avrei richiesto domani mattina», rise.

«Sei senza speranze. Perché non vai dai suoi amici e glielo chiedi? Io provo a chiamarla domani, cercherò di contattarla in qualche modo», sospirai.

«Sì, credo che andrò da Devon domattina presto», mi alzai. «Mi è mancato parlare con te, ma sono comunque incazzato», annuì.

«Mi farò perdonare».

 

Tornai al mio appartamento e trovai Damien sul divano, in compagnia di una bottiglia di bourbon ancora sigillata.

«Dobbiamo festeggiare qualcosa?», domandai, chiudendo la porta.

«La mia coglionaggine, per esempio?», aprii la bottiglia, presi due bicchieri, li riempii e gliene passai uno.

«Che hai fatto?», lo guardai. Il mio fratellino era la mia copia esatta senza piercing e con qualche tatuaggio in meno – ne aveva uno sulla schiena e uno sul cuore, identico al mio. «Mariam è venuta alla festa con un altro», strinse il bicchiere e io lasciai cadere la testa contro il divano.

«Io e Dakota ci siamo messi insieme e lasciati nel giro di dieci minuti», si voltò a guardarmi.

«Che hai combinato?», ridacchiò.

«Ma perché deve essere sempre colpa mia? Io non c’entro, non questa volta almeno. Zoe ha fatto un casino e spero di riuscire a sistemarlo domani mattina. Nel frattempo, salute fratello», avvicinai il bicchiere al suo e, dopo aver brindato, ci scolammo il nostro drink.

«Ce ne vuole un altro». Damien ci versò il bis. Dopo qualche altro bicchierino, la vista mi si annebbiò e il dolore al petto si attenuò un po’. «Blake?»

«Mmh».

«La ami?», aprii di scatto gli occhi che avevo chiuso nel tentativo di rilassarmi.

«Secondo te sono in grado di provare amore?», chiesi al mio gemello.

«Certo che sì. Sei come la mamma, anche tu parli con gli occhi», sentii una stretta al petto.

«La mamma era meravigliosa e assomigliava a te, non a me. Sei tu quello buono come lei. Dam, visto che oggi sono in vena di “mi dispiace”, ne dico uno anche a te. Mi dispiace per quella notte, è colpa mia se nostra madre non c’è più…», mi si spezzò la voce e, con un tempismo davvero perfetto, la porta si aprì ed entrò Hunter.

«Dove siamo? Al club dei depressi?», arricciò le labbra e, dopo averci fissato, sospirò. «Battuta infelice», aggiunse.

«Ti va di unirti a noi?», chiese Dam. Hunter si annuì e si sedette sulla poltrona; esausto, gli cedetti il mio bicchiere.

«Be’, vado a letto, bevete responsabilmente», li presi in giro. Andai in camera e mi buttai sul letto, poi presi il telefono dalla tasca dei jeans.

 

So che sei arrabbiata, lo sono anch’io, ma voglio darti lo stesso la buonanotte. Non voglio che tu vada a dormire o ti svegli arrabbiata. Sappi che mi dispiace per quello che è accaduto. Dovresti essere qui con me, nel mio letto e fra le mie braccia. Non mi sarei mai permesso di ferirti in questo modo.