23.
Appena il tremore si attenuò, Jason si staccò da me, ma ormai ogni respiro era doloroso. «Quando posso prendere dell’altro Advil?» domandai, muovendo la faccia meno possibile.
«A quattro ore di distanza. Allora, l’hai preso più o meno alle quattro… Che ore sono adesso?»
Io, però, avevo già tirato fuori il cellulare e sussultai talmente forte che dovetti premermi una mano sulla mascella per riuscire a parlare. «Stiamo scherzando?» Gli mostrai il telefono angosciata. «Jason, sono le sei. Potrebbe essere qui fra dieci ore.» Avevamo perso tutto il pomeriggio a litigare e a piangere. Sentii montare il panico, ma lo tenni a bada, sapendo che sarebbe servito solo ad aumentare il dolore. «Dobbiamo escogitare un piano.»
«Sì, lo so», replicò Jason, stringendosi il naso fra il pollice e l’indice e chiudendo gli occhi. Poi li riaprì, mi guardò e si alzò risoluto. «Ma prima vado a prenderti un antidolorifico. In questo stato non puoi escogitare un bel niente. Non riesci quasi a parlare.»
Annuii in silenzio. Lui andò in bagno, e sentii scorrere l’acqua. Tornò con una pastiglia e un bicchiere.
«Cos’è?»
«Tylenol: paracetamolo con codeina. Me l’ha dato il dentista. Va bene da alternare all’Advil.» Mi sorrise. «Forse ti farà girare un po’ la testa.»
«Meglio che sentirsi come una palla da bowling crepata.» Presi la pastiglia e la ingoiai. «E adesso cosa facciamo? Sta arrivando e ti vuole morto.»
«Mi sa che ormai non le piaci più tanto neanche tu.»
«Secondo lei, ho infranto la mia promessa.» Mi portai la mano alla testa, in cerca di un punto che non mi facesse male. «Non capisco proprio come pensi di indurmi ad agire… Non ha senso. È delirante.»
«Se devo azzardare un’ipotesi, direi che vuole spingerti a pensare proprio questo.»
Lo guardai perplessa.
«Tutte le cose che ha fatto: scoprire il numero della tua stanza d’albergo, mandarti i fiori, minacciare tua madre, chiamarti da casa tua… sono tattiche per alimentare il panico, come in un film. Vuole spaventarti.»
«Sta funzionando.» Come la medicina: il suo effetto era molto più rapido di quello del semplice paracetamolo, e io mi godetti la sensazione di leggerezza, sentendo diminuire la pressione al centro della fronte.
«Rifletti: in realtà, lei non fa mai niente, giusto?» Stavo per intervenire, ma lui mi interruppe. «Persino Fash, non sappiamo se sia stata opera sua, no? Insomma, ufficialmente, si è suicidato. Hai detto anche tu che era ridotto male. La gente smette di prendere farmaci in continuazione. È triste, ma non è omicidio. E se fosse andata proprio così e Amanda ne avesse solo approfittato? Come certi terroristi che rivendicano crimini con cui non hanno nulla a che vedere.»
Era un’argomentazione così persuasiva che per un meraviglioso istante fui quasi tentata di crederci. Poi ricordai il video con Neely e scossi la testa. «Jason, non sai di cosa è capace.»
«Be’, è proprio questo il punto, giusto? Costringerti a fare ipotesi, confonderti. La visita a tua madre è stata proprio il colmo. Chi ti conosce sa bene che tieni più a tua mamma che a te stessa.» Lo guardai sorpresa: forse era più attento ai miei sentimenti di quanto avessi mai immaginato. «Lei si avvicina sempre di più, e tu hai sempre più paura. Nel frattempo, ci mette anche l’uno contro l’altra, isolandoti, rendendoti paranoica.»
Forse c’era qualcosa di vero in quello che stava dicendo. Dopo il litigio ero talmente turbata che avevo quasi cominciato a vederlo come un nemico. Il pensiero mi diede una lieve vertigine. «Tortura psicologica.»
«Credimi, sa bene come mandare la gente fuori di testa. Avresti dovuto vedermi quando mi ha scaricato.» Era eccitato all’idea di ricomporre i pezzi del puzzle, come aveva fatto con la telefonata all’impiegata di Runnr. «È convinta di poterti distruggere, se solo gliene dai il tempo. E la storia di Fash… le serve proprio per temporeggiare. La usa come una spada di Damocle per impedirti di andare dalla polizia. Così te ne stai per ore e ore a pensare a tutti i modi in cui lei potrebbe fare del male a te e alle persone a cui vuoi bene.»
«Ma la storia di Fash mi danneggerebbe in ogni caso», sottolineai, per nulla convinta di aver trovato le parole giuste. Il mal di testa era diminuito, ma il rapido andirivieni di Jason mi dava il capogiro. «Se ha delle prove che mi incolpano, che lei sia coinvolta o no non ha importanza. Le basta divulgare ciò di cui è in possesso; anzi, deve averlo già fatto, dal momento che la polizia vuole parlarmi.»
«Be’, può darsi che la polizia ti debba interrogare per via del concorso», osservò Jason. «Sia te sia Kim.»
Ero stordita ed esasperata. La paura che Amanda potesse manipolarmi per convincermi a uccidere Jason – così assurda un attimo prima – mi si era insinuata nella mente nel corso della conversazione, come un gas invisibile che riempiva la stanza. Scossi la testa per dissiparlo. «Okay, va bene. Diciamo che Amanda non rappresenta un pericolo in sé. Il fatto è che sta arrivando davvero e le sue minacce farebbero preoccupare qualsiasi persona sana di mente. Cosa proponi di fare? Niente?»
«Che alternative abbiamo? Immagino che non porterai a termine la vendetta contro di me. Sta facendo del suo meglio per convincerti che, se non lo farai, succederà qualcosa di orribile. Bene. Io dico che dobbiamo smascherare il suo bluff. Vediamo se mette in pratica le sue minacce. Dopotutto, anche noi abbiamo materiale compromettente su di lei.»
Chissà come, però, ero certa che la cosa orribile non fosse rivolgersi alla polizia. «Cercherà di ammazzarti», dissi. «O di ammazzare me. O tutti e due.»
«Io non ti perderò mai di vista. Quindi, posto che non stia bluffando, e secondo me è così…»
Lo guardai, incoraggiandolo a continuare.
«Chiunque di noi stia cercando, dovrà passare sul mio cadavere», concluse Jason con espressione truce.
Erano le otto. Distesi fianco a fianco sul letto di Jason, ci tenevamo per mano, mentre il cielo si scuriva dietro le tende. Mi sentivo sprofondare nel materasso. Non ricordavo come fossi finita lì, anche se sapevo che doveva avere a che fare con lo sfinimento totale e la paura.
«Potremmo partire», proposi. «Prendere l’auto e andarcene.»
«Rinunciare alla nostra vita», replicò Jason da un luogo lontano. «A quel punto, lei andrebbe dalla polizia. E tu verresti arrestata.»
«Forse vuole solo del denaro.»
«Non ne abbiamo.»
Ci fu una pausa.
«Sì, è vero, non è in cerca di soldi», convenni. Non gli spiegai come facessi a esserne certa.
«Cerca di non addormentarti», disse Jason.
Mi riscossi subito. «Non credo di avere una commozione cerebrale», affermai con la voce impastata. «In ogni caso, è solo una leggenda quella che in questi casi non bisogna addormentarsi.»
«Ti sbagli.»
«No, basta che qualcuno ti svegli ogni due ore circa.»
«Allora dormi. Ti sveglierò fra un paio d’ore.»
«Svegliami solo se muoio», dissi, scivolando nel sonno.
Un po’ di tempo dopo, io e Jason facemmo l’amore nella stanza sempre più buia. Lui si incurvò protettivamente sul mio corpo, e io galleggiai e fluttuai nell’oscurità, sollevandomi in alto e sprofondando nel letto al tempo stesso, nel tentativo di dimenticare. Quasi ci riuscii. Nel momento in cui lo sguardo di Jason si fece opaco e fisso come succede sempre agli uomini quando stanno per avere un orgasmo, una luce si spense e mi persi anch’io.
Quando mi svegliai, nella stanza c’era uno sconosciuto che ci guardava.
Mi alzai a sedere sul letto, afferrando le lenzuola per coprirmi il seno e socchiudendo gli occhi alla luce. Impiegai qualche istante a capire che la figura sulla porta era Jason. Di fianco a me non c’era lui, come avevo creduto, ma solo un mucchio di cuscini.
«Che ore sono?» domandai, sbattendo le palpebre e gemendo a causa di una nuova ondata di dolore. Adesso avvertivo delle fitte al collo e alle spalle. Mi sembrava di essere precipitata da un grattacielo.
«Sono le sette del mattino», rispose Jason, posando una tazza di caffè sul comodino. «Non è venuta.»
«Ho sognato che era qui, ai nostri piedi, con un coltello, in attesa che ci svegliassimo. Tagliava il letto in due. La mia metà cadeva nell’oceano.» Rabbrividii. «Poi tutto ricominciava daccapo.»
«Be’, invece non c’è. Ho già controllato il tuo telefono: non ci sono chiamate né messaggi.» Mi sorrise. «Te l’avevo detto che stava solo cercando di spaventarci.»
«Avrà avuto qualche intoppo.»
«Forse a questo punto è ricercata dalla polizia. In tal caso, venire qui sarebbe un suicidio per lei.»
«O forse…» Non avrei voluto dirlo ad alta voce, ma la mia bocca sembrò muoversi da sola. «Forse stanotte è stata veramente qui.»
«Dana.» Jason si sedette sul bordo del letto e mi posò una mano sulla coscia.
«Magari l’ho vista davvero e in questo momento sta sorvegliando la casa o sta aspettando che io torni al motel.» La mia voce era sempre più stridula, isterica, ma non riuscivo a fermarmi. «Jason, vuole ammazzarci!»
«Dana, non fare così.»
«È stata qui», mi impuntai, come una bambina. «Lo so e basta. L’ho vista. Era reale!»
Se fossimo stati in un film, lui mi avrebbe tirato un ceffone per riscuotermi. Desideravo che succedesse qualcosa di scioccante, e uno schiaffo probabilmente avrebbe funzionato. Ma Jason non mi schiaffeggiò né mi scrollò tenendomi per le spalle. Rimase seduto in silenzio sul letto accanto a me, guardando a terra fra le sue ginocchia e massaggiandomi con delicatezza la schiena mentre io sussultavo e ansimavo in preda a un attacco di panico. Con le vertigini per il troppo ossigeno incamerato, scoppiai a piangere e mi appoggiai alla sua spalla, abbandonandomi ai singhiozzi.
Quando mi fui calmata, allungai la mano. «Mi sa che adesso bevo il caffè.»
«Meglio un bicchiere d’acqua prima. Aspetta.» Jason si alzò in piedi, e io, pur desiderando quel caffè che era lì a meno di un metro di distanza sul comodino, ebbi l’impressione che la tazza fosse fuori dalla mia portata. La tensione dell’attesa aveva contagiato il mondo circostante e l’aria sembrava densa e viva, una creatura maligna e tentacolare che mi accerchiava. Muoversi anche solo di poche decine di centimetri non sembrava meno difficile che correre una maratona.
Dalla cucina, al di là del muro, mi giunse il rumore dell’acqua corrente. Mi ricordò un particolare del sogno che non riuscii bene a identificare.
Quando lui tornò, fissai a lungo il bicchiere che mi aveva porto. «Jason?»
«Sì?»
«Perché non volevi che Amanda incontrasse Aaron Neely?»
«Cosa?»
«Perché non gliel’hai presentato?»
«Perché avrei dovuto?»
«A me l’avevi presentato.» Calò uno strano silenzio, e lui mi guardò. Vedevo la sua immagine riflessa nel bicchiere, al contrario, ridotta a una lamina sottilissima.
«Già», disse. «E guarda che bel risultato.»
«A quanto pare, qualcosa di buono ne è uscito. Almeno per te.»
«In che senso?»
Non risposi, e Jason mi strappò il bicchiere di mano, rovesciando un po’ d’acqua sulle lenzuola.
«In che senso?» ripeté a voce più alta.
Allungai un dito nell’aria densa e tentacolare per toccare la stoffa bagnata. «Non lo so.»
«Guarda che non è colpa mia se hai perso la stima di Neely.»
Lo guardai fisso.
«Sei tornata a casa con i capelli arruffati, il vestito stropicciato e le scarpe con il tacco alto in mano. Francamente, neanch’io mi sono fatto una bella idea di te. Non puoi rimproverarmi per non aver voluto che succedesse la stessa cosa alla mia fidanzata.»
«Perché Amanda è il tipo di Neely, vero?»
«Non vorrei essere indelicato, ma guarda i giornali scandalistici. Sì, Amanda è il tipo di Neely.»
«E io no.»
«Non per…» Jason si interruppe.
«Su, dillo.» Alzai lo sguardo e lo vidi fissarsi i piedi, imbarazzato.
«Dai, lasciamo perdere.»
«No, non mi arrabbio. Dimmelo e basta.»
Lui rimase in silenzio.
«Non per le sue apparizioni in pubblico», terminai la frase al posto suo. «Solo per scopare.»
Jason si rabbuiò. «È successo davvero?» chiese.
«Se ricordo bene, si è solo fatto una sega sul mio vestito. Tieni presente, però, che prima mi ha drogato, quindi potrei essermi persa qualche dettaglio.»
«Ma figurati…»
«È la verità.»
«Neely non ha bisogno di drogare le donne per scopare. Credimi, sono stato a delle feste con lui. Inoltre, sono anni che gira quel pettegolezzo.»
Rimasi senza fiato. «Allora lo sapevi?»
«Lo sanno tutti», tagliò corto Jason. «Però nessun caso è mai finito in tribunale, perché sono solo pettegolezzi infondati e malevoli.»
Ripensai al patteggiamento di Amanda con Runnr e all’accordo di non divulgazione che lei aveva violato raccontandomi com’erano andate le cose. «Eri a conoscenza di quelle voci eppure mi hai mandato da lui da sola.»
«Avrei dovuto esserci anch’io, ricordi? Inoltre, ripeto: non ci credevo.»
«E non ci credi neanche adesso.»
«È assurdo. Sei rimasta folgorata da lui. Lo capisco, è affascinante. Così hai bevuto troppo e l’indomani mattina te ne sei pentita. Ci siamo passati tutti. Si chiamano errori.»
«Sono tornata a casa quel pomeriggio stesso», replicai lentamente. «E avevo preso un frappè di cavolo nero e barbabietola con dentro del Roipnol.» Jason aveva un’espressione scettica. «Stai per dire che mi ero presa un virus?»
«Può darsi.»
«Come quello che avevi tu?»
Lui aprì la bocca, poi la chiuse. «Esatto», rispose alla fine.
«Quel giorno tu non stavi male, Jason.» Stavo tremando, ma l’aria era sgombra di tentacoli e potevo di nuovo muovermi liberamente. Mi alzai in piedi e cominciai a raccogliere i vestiti da terra. «Hai finto per lasciarmi fra le grinfie di Aaron Neely.»
«Sei stata tu ad andare all’appuntamento senza di me.»
«Sì, infatti. Ed era quello che voleva Aaron, per potermi drogare e masturbarsi davanti a me come ha fatto con tutte quelle altre donne a cui non credi.»
«Dana», capitolò lui, «non lo sapevo. Cioè, insomma, immaginavo che ci avrebbe provato con te. Non mi importava, tanto non stavamo insieme. Fra noi non aveva mai funzionato.»
«Perché non ero il tuo tipo?»
«Perché me lo vuoi tirare fuori a tutti i costi?» urlò Jason. «Perché continui a rigirare il coltello nella piaga? No, non eri il mio tipo! E allora? Non posso mettermi con un’attrice figa, o con una modella, se ne ho voglia? Qual è il problema?» Aveva un’aria estremamente triste. «Ti giuro che non lo sapevo. Pensavo che saresti tornata a casa dopo aver flirtato con Neely per un’oretta e che poi avremmo scritto la nostra sceneggiatura, come avevamo sempre sognato di fare, e che non sarebbe cambiato niente.»
«Avresti dovuto dirmelo.»
«Magari volevo solo metterti alla prova.»
«Una prova di lealtà? Volevi vedere se ero ancora la sua serva fedele? Volevi vedere cosa avrei fatto?» Trovai la borsetta con le chiavi. «Bene, adesso sappiamo cosa ho fatto, anzi, cos’è successo: ho subito la seconda violenza sessuale della mia vita. Grazie tante.»
Quando mi alzai, il mio piede scivolò su qualcosa di morbido che c’era per terra. Con uno sforzo immane riuscii a evitare di cadere per la seconda volta nel giro di poche ore, tendendo le braccia per aggrapparmi al letto.
Abbassai lo sguardo per vedere cosa mi aveva fatto inciampare e sussultai. Era la parrucca di Betty. Quindi Amanda era stata lì davvero quella notte.