13.
Il R&R Diner di Culver City un tempo era uno dei nostri ristoranti preferiti, finché non avevo fatto il classico errore di decidere che sarebbe stato divertente lavorarci. A volte, a tarda ora, Jason veniva a bersi un caffè interminabile, sedendosi nella zona del locale di mia competenza, e ogni volta che andavo a riempirgli la tazza improvvisavamo, anche se naturalmente non potevo trascrivere nulla; alla fine avevamo trasferito altrove il nostro luogo di lavoro. Quella sera, entrando al ristorante, sperai che l’odore di uova fritte e Reuben sandwich evocasse ricordi di notti trascorse a scrivere, invece mi tornarono alla mente i secchielli di ghiaccio trasportati al banco dei camerieri, le posate arrotolate nei tovaglioli e l’odore chimico dell’area adibita al lavaggio dei piatti. Mentre aspettavamo che ci assegnassero un séparé, mi guardai intorno in cerca di ex colleghi, ma nel giro di un anno il personale era completamente cambiato. Provai un po’ di sollievo. Tuttavia il fatto di trovarmi di nuovo di fianco a Jason mi sembrava molto strano.
Notando che mi guardavo intorno nel ristorante, lui disse: «Si vede che hai nostalgia di quando lavoravi qui. Chiedi alla direttrice il modulo per l’assunzione. Ti riprende di sicuro».
«Ha-ha», feci io, fingendo di guardarlo male. «In realtà, stavo giusto pensando che vorrei essere io, una volta tanto, quella che si fa riempire la tazza a ripetizione.»
«Se torni, immagino che non avrai bisogno di un lavoro del genere.» Mi sbirciò con la coda dell’occhio. «In fin dei conti, sei una bestie di Cynthia Omari, no?»
Mi limitai ad alzare gli occhi al cielo, e lui cambiò discorso, raccontandomi di alcuni conoscenti comuni: chi era stato scritturato e dove, chi era tornato a Detroit per curare un genitore malato, chi si era fissato con Scientology ed era scomparso per un po’, per poi tornare con i denti dritti e la parte desiderata. Quando però ci fummo infilati in un séparé, con davanti le nostre ordinazioni, tornò a parlare dell’argomento che evidentemente gli stava a cuore.
«Allora vieni?» domandò, senza smettere di fissare lo sciroppo che stava spruzzando sui pancake. «Cioè, torni a vivere qui?»
Io intinsi un triangolo di formaggio grigliato in una ciotola di zuppa al pomodoro e risposi: «Non lo so». Mentre masticavo, mi meravigliai della mia capacità di fingere di non averci ancora riflettuto. «Credo che sia possibile.»
«Perché sei venuta? Per un’audizione o qualcos’altro?»
In realtà, a mano a mano che la mia mente si liberava del pensiero di Amanda, le ragioni per trasferirmi a Los Angeles ne prendevano il posto. L’assistente di Cynthia mi aveva richiamato mentre ero ancora in viaggio, e con mia enorme sorpresa, ci eravamo accordate per un incontro a pranzo l’indomani. «Per un appuntamento», confessai, poi aggiunsi: «Non voglio parlarne finché non sarà tutto finito».
«Wow, bel colpo!» esclamò. «Quando ho sentito che hai partecipato al Bestie Cast, devo ammettere che ho provato un po’ di invidia. Il mio agente ha cercato per mesi di farmi invitare al programma.» Jason si indicò la faccia. «Mi sa che ho la malattia del maschio bianco eterosessuale.»
«Buuuh.»
«Dai, non ti faccio nemmeno un po’ di tenerezza, fuori moda come sono?»
«Tutte le volte che pensi che io abbia vita facile, ripetiti mentalmente queste parole: “Persino Jennifer Lopez ha dovuto fare la parte della domestica”.»
«Ma poi è riuscita a scoparsi George Clooney in Out of Sight.»
«E Ben Affleck in Amore estremo.»
Lui sospirò. «Ah! Hai vinto. Però tirare in ballo Affleck proprio adesso che stiamo parlando dei privilegi del maschio bianco vuol dire giocare sporco.»
Mi strinsi nelle spalle e mangiai un pezzo di formaggio fritto. Jason un tempo diceva cose del genere solo per stuzzicarmi, per osservarmi mentre mi veniva la stizza. Adesso sembrava ironizzare non su di me, ma su sé stesso. Lì seduta davanti alla sua faccia sorridente, circondata dagli arredi e dagli odori del nostro ristorante preferito, non facevo fatica a credere al mio successo.
«Allora, parlami dell’audizione. O forse ti hanno chiamata per una sceneggiatura? Dai, ti avrà certamente contattato qualcuno dopo il podcast. Chi?»
«Non tu», risposi in tono pungente. «Però mi hai scritto un messaggino. È stato un pensiero gentile, dopo avermi ignorato per un anno intero.» Mi stupii della scioltezza con cui ne stavo parlando. Dunque era così che si sentivano le persone vincenti.
«Ascolta, volevo chiarirmi con te. So di essere stato stronzo prima che tu partissi e mi dispiace.» Spiluccò i suoi pancake. «Mi costa ammetterlo, ma ero ancora arrabbiato per la storia di Neely.»
Quel nome cadde in mezzo a noi come un mattone. Era la prima volta che uno dei due lo pronunciava dopo il famoso appuntamento. L’immagine del volto sanguinante di Neely nel video tornò a galla, ma io la scacciai, cercando di concentrarmi su ciò che stava dicendo Jason. Non ricordavo che mi avesse mai chiesto scusa per qualcosa, a parte per piccolezze come quando si dimenticava di richiamare o usava la mia auto senza metterci di nuovo la benzina. Non volevo che questo incidente di cui non avrei neanche dovuto essere a conoscenza mi distraesse dalla conversazione. Comunque un merito, ad Amanda, dovevo riconoscerlo: non avevo più paura di Neely, pur essendo tornata nella città dove lui viveva. Non era cosa da poco.
Jason sospirò. «Non potevo credere che fossi andata all’appuntamento senza di me.»
«Lo so, non avrei dovuto.» Se c’era qualcosa di cui ero certa era proprio quello.
«Invece sì. Ci ho riflettuto spesso, da allora, e non posso rimproverarti.»
«Ah, no?»
«A essere sincero, probabilmente anch’io mi sarei comportato nello stesso modo al posto tuo», ammise Jason, e io non potei fare a meno di pensare che in tal caso le conseguenze sarebbero state molto diverse. «Poi, però, quando sei tornata a casa in quello stato e lui non si è più fatto vivo, mi sono detto…»
«…Che chissà come avevo rovinato tutto.»
Lui assunse un’aria triste.
«Non c’è problema, parla con franchezza. In fin dei conti, è vero, no? Non ci ha più contattati.»
Jason sembrava sempre più imbarazzato. «Be’, in realtà…» Smise per un attimo di fare a pezzetti la pila di pancake. «In realtà, ha telefonato.»
«Cosa?»
«Già. Avrei dovuto dirtelo, ma… eri già tornata a Austin. E poi aveva chiesto di me.» Si ficcò in bocca un altro boccone. «Da solo.»
Non ci potevo credere. Era un anno che mi sentivo in colpa per aver rovinato la sua occasione di lavorare con Neely, e a quanto pareva l’unica cosa che gli serviva per sfondare era proprio la mia partenza.
Jason vide la mia espressione e per poco non gli andò di traverso il cibo che stava cercando di ingoiare. «No, dai, aspetta un attimo.» Si portò una mano davanti alla bocca e agitò l’altra avanti e indietro. «Non ti arrabbiare. In nostro era più che altro un rapporto fra mentore e discepolo. Neely non mi ha offerto un lavoro fisso. Mi ha affidato il compito di rifinire dei testi per alcuni programmi prodotti da lui. Niente di importante o di interessante per te. Tagliavano metà delle mie battute. Più che altro, frequentavo spesso casa sua.»
«Scommetto che questo non ha aiutato per niente la tua carriera», dissi con una risatina cupa, pensando: “Ah, essere un uomo fra gli uomini!”. «Ti ha portato al suo ritiro buddhista?» Era una cosa su cui ci piaceva scherzare: dicevamo che quando finalmente ci avesse invitato nel suo ranch nel Montana, avremmo capito di avercela fatta.
«Una volta», ammise lui a disagio.
«Avete meditato insieme?» L’immagine del tozzo busto di Neely contorto in contemplazione a mo’ di brezel stimolava il mio humour nero.
«Dai, Dana, non mi stressare. Mettiti nei miei panni.»
Mettermi nei suoi panni? Ripensando all’episodio nel SUV, incrociai le braccia sul petto.
«Dopo aver evitato la luce dei riflettori per tanti anni, mi aveva detto che stava preparando un nuovo programma di cui sarebbe stato produttore e protagonista. Era in cerca della location e tutto il resto. Stava per succedere davvero.» Jason si sporse in avanti nel séparé, con improvvisa veemenza, puntandosi la forchetta sul petto. «E io sarei stato uno dei suoi autori. Hai presente cosa avrebbe significato partecipare attivamente alla creazione di un programma di Neely? Cioè scrivere con lui, fianco a fianco, vederlo pronunciare le mie battute… Sarebbe stato come lavorare per il Larry Sanders Show o per Curb Your Enthusiasm. Avrei fatto la storia.»
«E qual è il problema?» domandai, inarcando un sopracciglio.
Lui si lasciò andare contro lo schienale e posò la forchetta. «Be’, insomma, circa un mese fa, si è tirato indietro. Così, di punto in bianco. Il progetto non gli interessava più. E non solo; da allora nessuno ha avuto più notizie di lui. Ho provato a chiamarlo, ma adesso tutte le telefonate passano dal suo agente o, meglio, dall’assistente del suo agente. Insomma, l’assistente dell’assistente.» Prese di nuovo la forchetta e cominciò a tormentare i flaccidi brandelli di pancake che aveva sminuzzato, recuperandoli uno per uno. «Adesso capisci perché mi avrebbe fatto comodo partecipare al Bestie Cast? Ho fatto cabaret, lavorato al mio repertorio, distribuito copioni a destra e a manca, ma quando qualcuno viene a bussare alla tua porta è diverso. Fare il suo nome non mi è di nessun aiuto. Ho l’impressione che abbia pestato i piedi a qualcuno o roba del genere. Non lo so.»
Io invece lo sapevo eccome, e l’ironia di tutta quella storia mi fece quasi ridere. Un mese prima Neely si era denudato davanti a una massaggiatrice che gli aveva spaccato la faccia, poi se n’era andato con la consapevolezza di essere stato filmato e che il video avrebbe potuto essere divulgato in qualsiasi momento. Quindi, in un certo senso, era vero che avevo fatto perdere a Jason la sua grande occasione con Neely. Ma se Neely manteneva un profilo basso, perché la sua reputazione ne aveva risentito? Cominciavano forse a circolare voci? Il video era comparso da qualche parte? Amanda lo stava ricattando?
«Non fare quella faccia preoccupata», disse Jason. «Tutti hanno alti e bassi in questo settore. Fa parte del gioco. Quanti “forse”, quanti “quasi”, quanti “avrebbe potuto funzionare, ma…”» Sospirò. «Immagino che sia proprio per questo che sei tornata a casa.»
Lo guardai in faccia, cercando di non tradire emozioni. Alla fine, replicai: «Credo di sì».
«Be’, sono felice che la tua carriera stia andando meglio. Davvero.» Jason tornò ai suoi pancake, che si erano trasformati gradualmente in una massa informe e appiccicosa. «A volte, mi dispiace che non abbiamo continuato a lavorare insieme.»
«Anche a me.»
«E ti trovo in gran forma.» Mi lanciò una timida occhiata da dietro il ciuffo che gli ostruiva la vista tutte le volte che guardava in basso. «Sul serio. Il successo ti si addice. Sei uno schianto.»
Colta da un fremito d’ansia, cambiai subito argomento. «Continui a parlare del mio successo, ma in realtà non è ancora accaduto niente. Te lo giuro.»
«Be’, però manca poco», disse lui con malcelata invidia. «Perché… in fin dei conti, sei tornata.»
«È vero, eccomi qui.» Feci un ampio movimento con la forchetta su cui era infilzato un pezzo di formaggio grigliato come per includere il nostro séparé, il ristorante e tutta Los Angeles. Per alcuni istanti ascoltammo il brusio nel locale e il tintinnio delle posate sui piatti.
«Quando sarà questo appuntamento top secret di cui non vuoi parlare?»
Sorrisi. «Domani a mezzogiorno.»
«Hai un posto per dormire?» domandò Jason, versandosi altro sciroppo.
«Ho prenotato una stanza in un motel», risposi. «Ma non ci sono ancora andata.»
Dopo tutto quel parlare del mio successo, ammettere che ero andata direttamente da lui, senza neppure sistemarmi in albergo, non era una concessione da poco.
«Ehi, ti va di fare due passi nel vecchio quartiere?» mi propose. «Cioè, se non sei troppo sfinita per il viaggio.»
Non erano neppure le nove e, pur essendo stanca morta, ero sveglissima. «Perché no?»
Lui fece un ampio sorriso, come se avesse atteso la mia risposta con sincera trepidazione. «Fantastico. Così posso continuare a spiarti.» Indicò la mia borsa. «Scoprire chi ti sta tempestando di messaggi.»
Abbassai in fretta lo sguardo. Avevo messo il cellulare in silenzioso per poter ricevere eventuali telefonate da parte di Cynthia o della sua assistente; ora lo schermo era acceso e continuava a vibrare, come se arrivassero messaggi ogni due secondi. Mi venne la nausea. Amanda non intendeva essere messa da parte. «Aspetta un attimo», dissi sorridendo, come per scusarmi. Selezionai in fretta il numero di Amanda e lo bloccai.
Il cameriere portò il conto, e io feci del mio meglio per cancellarla dai miei pensieri.
«Offro io.» Dopotutto, dovevo ancora spendere i soldi vinti alla gara. «Visto che adesso sono una VIP.»
La vegetazione di Los Angeles mi faceva sempre un certo effetto: la giungla stile Dr. Seuss di cactus, palme e fiori tropicali, i rampicanti abbarbicati ai fitti arbusti e ai cancelli di metallo. Passeggiammo accanto a grosse siepi di agave e gelsomino, agli ibischi con i loro venati petali rosa chiusi per la notte e alle esili iucche che ondeggiavano nella brezza. La fioritura primaverile di Austin durava solo poche settimane prima dell’arrivo del sole estivo che abbrustoliva tutto. La notte di Los Angeles invece era fresca, e grazie alle enormi quantità d’acqua fatte confluire artificialmente nel deserto le piante rimanevano rigogliose tutto l’anno. Ne ero innamorata.
«Avremmo dovuto sentirci più spesso», ripeté Jason per la centesima volta.
Appena eravamo usciti dal ristorante, si era acceso una Natural American Spirit; avrei voluto manifestare la mia disapprovazione, dato che avevo insistito a lungo perché smettesse di fumare, eppure segretamente apprezzai l’odore familiare portato dal vento.
«Come sta tua madre?» mi domandò, sollevando gentilmente un ramo che sporgeva sul marciapiede.
«Guarda caso, l’ho appena vista», risposi, abbassandomi per passare e rivolgendogli un cenno di ringraziamento. «Ho dormito da lei nel tragitto per venire qui. Sta bene. Sempre uguale. E la tua famiglia?» Evitai di pronunciare il nome di Matt e tenni gli occhi fissi sulle crepe nel marciapiede.
«Mio padre si è risposato da poco.» Jason mi lanciò un’occhiata obliqua per vedere la mia reazione. «Sì, lo so, anche per me è stata una sorpresa. E non è neppure la notizia più importante.» Fece un respiro profondo. «Mattie è in prigione.»
Badai a mantenere la faccia inespressiva, limitandomi al minimo dell’afflizione. «Mia madre me l’aveva accennato.»
«In città non si parla d’altro», osservò lui accigliato. «Ha rapinato un discount. Che stronzata! La pistola era una messinscena, non aveva nessuna intenzione di usarla. Il commesso stava infilando le mani nella cassa quando è partito un colpo. Ha beccato un cliente che usciva dal bagno; sfiga ha voluto che fosse un vigile del fuoco. Sai che ti possono dare fino a dodici anni di carcere per il ferimento di un poliziotto o di un pompiere?» Scossi la testa. «D’altra parte, non era neanche il suo primo reato.» Mentre passavamo, un fiorellino viola gli sfiorò la spalla e lui lo afferrò. «A volte, penso che la gente non ne potesse più del suo atteggiamento. Faceva lo stronzo con tutti.»
«Mi dispiace… molto, Jason.»
«No, non dispiacerti. Con me dava il peggio di sé.»
Annuii. Era vero, me ne rendevo conto persino io, nonostante quello che Mattie mi aveva fatto. In fin dei conti, non era niente di personale. Era solo un’opportunità, un corpo caldo che si trovava lì per caso, a sua disposizione. Anche se ci conoscevamo da anni, faticava a scambiare due parole con me, sia prima sia dopo l’episodio. Invece non faceva che ripetere a Jason quanto lo odiasse e perché. Secondo i suoi criteri distorti, suo fratello non era un uomo e quindi non meritava rispetto. Crescere all’ombra di quella nube scura aveva modificato la personalità di Jason, era evidente: cercava sempre di tenere un profilo basso, evitava a tutti i costi i conflitti e sfuggiva all’intimità buttandola sul ridere. «Come l’ha presa tuo padre?» domandai, sperando di portare il discorso su un terreno meno doloroso.
«Vuoi la verità? Secondo me, è solo contento di non averlo più fra i piedi. Si è sposato molto in fretta.» Si fermò e cincischiò il fiore viola, come se fosse indeciso se dire altro. «Credo che frequentasse quella donna da un bel po’ di tempo e che nascondesse la relazione di proposito…» Si interruppe bruscamente e gettò via il fiore.
Lo vidi fluttuare sulla strada. «Per evitare che Mattie se ne accorgesse?»
«Già», tagliò corto lui. «Così non si sarebbero mai dovuti incontrare.»
Rabbrividii. Poteva essere che Jason – pur ignorando quello che Mattie mi aveva fatto – sapesse di cosa era capace? È orribile avere un sospetto del genere sul conto di un fratello. Un sospetto non meno velenoso delle vessazioni di Mattie.
Spontaneamente, allungai un braccio per afferrargli la mano e gliela strinsi. Lui ricambiò la stretta, poi ci avviammo verso casa – casa sua – e camminammo in silenzio per altri dieci minuti, tenendoci per mano. Giunti alla porta, Jason mi lasciò andare per prendere la chiave dalla tasca e io feci un respiro profondo. L’aria del deserto si era sensibilmente rinfrescata e stavo quasi battendo i denti per il freddo e la stanchezza.
«Vieni dentro», disse lui, e a quel punto vidi tutto: le pareti beige con i ritratti kitch di Goodwill su velluto nero, il lurido tappeto, il divano comprato insieme all’Ikea quando eravamo appena arrivati in città; nonostante le mie obiezioni, aveva voluto restituirmi metà dei soldi quando avevo deciso di tornare a Austin. Mi sedetti su un cuscino, ormai liso e sformato al centro, e attesi che mettesse a bollire dell’acqua nella piccola cucina con le piastrelle rosa.
«È rimasto tutto come prima», urlò, come se mi avesse letto nel pensiero.
«A parte la TV nuova, eh?»
«Già. Come sai, sono stato baciato dalla fortuna per pochi minuti.» Jason comparve da dietro l’angolo con due tazze in mano. «Avevo pensato che fosse saggio investire sui mass media. Se vuoi l’accendo. Sarà come ai vecchi tempi.»
«Sì. Cosa ti piacerebbe guardare?»
«Non so, vediamo.» Si sedette sul divano, posò le tazze sul tavolino malandato e prese il telecomando. Poi lo posò di nuovo senza accendere il televisore, si sedette accanto a me, con le cosce che mi sfioravano, e appoggiò la testa sulla mia.
Come ai vecchi tempi.
Rimanemmo così per alcuni minuti, dopodiché mi ritrassi.
«Cosa succede?» mi domandò.
«Niente.» Sbadigliai in modo ostentato. «Mi sa che la stanchezza si sta facendo sentire.»
«Ehi.» Jason si pizzicò i jeans sul ginocchio. «È tardi. Vuoi dormire qui stanotte? Nella tua vecchia stanza c’è ancora un letto.» Fece la voce di un vecchio. «Tua madre e io non abbiamo cambiato una virgola, ci sono ancora tutte le coppe vinte alle gare di retorica.»
Stetti al gioco, risollevata dal cambiamento di tono. «Gare di retorica? Che secchiona sfigata!»
«Infatti ti punivamo spesso mettendoti a testa in giù sul water, figliola.»
«Va bene. D’accordo, rimango.»
Percorremmo il corridoio, e quando guardai all’interno della stanza, Jason si schiarì la gola come per scusarsi. Sapevo che stava scherzando sul fatto di non aver cambiato una virgola, ma non mi ero aspettata una trasformazione così radicale. La stanza era completamente nera: le pareti foderate di pannelli neri e le finestre coperte di teli di plastica; negli angoli erano accatastate attrezzature elettroniche. «Credevo di essere una secchiona, non una dark.»
«Quando te ne sei andata, ho deciso di trasformare la stanza in uno studio di registrazione», spiegò lui un po’ imbarazzato. «Pensavo di provare a fare un podcast tutto mio, visto che comunque non sto lavorando. Ho sentito che alcuni ci sono riusciti.» Mi lanciò un’occhiata obliqua. «Ma non preoccuparti, il materasso è ancora nel ripostiglio.»
«Quindi sono la prima ospite del tuo podcast?»
Jason, che era appena entrato nel ripostiglio, emise un grugnito, poi ricomparve trascinando il materasso. «Se paghi metà dell’affitto, potrai essere la co-conduttrice», ribatté, rovesciandolo sul pavimento. «Adesso devo solo ricordare dove ho messo le lenzuola.»
Pochi minuti dopo ero distesa sul materasso a fissare la lampada che avevo pensato di non rivedere mai più mentre scivolavo lentamente nel sonno.
Durante la notte mi svegliai una volta sola, con un senso di vuoto allo stomaco; stavo sognando di mettere un piede in fallo su una scala e di cadere. Provai la vaga consapevolezza di trovarmi nella dimensione temporale sbagliata, come se fossi scivolata nel passato attraverso un buco spazio-temporale. Una figura alta e scura incombeva sopra di me, e per un attimo pensai fosse Jason. Poi vidi il volto insanguinato di Carl avvicinarsi al mio, con i denti che battevano in una specie di orribile gemito ritmico.
Sobbalzai e spalancai gli occhi. La sagoma scura si trasformò in un mucchio di leggii per spartiti. Mi portai la mano sul cuore, sentendomi un’idiota.
Eppure il rumore dei denti che battevano c’era ancora. Un attimo dopo, notai che lo schermo del telefono si era acceso e stava vibrando ritmicamente sul pavimento, accanto al materasso. Lo raccolsi e vidi una sfilza di messaggi da una serie di numeri sconosciuti, tutti diversi ma inequivocabilmente appartenenti alla stessa persona.
Dobbiamo parlare. È un’emergenza!!!
Non tagliarmi fuori, D.
Pensavo che fossimo amiche.
«Dannazione.» Spensi il telefono. Mi sentivo sveglissima, ma evidentemente non lo ero, perché pochi secondi dopo sprofondai nel sonno e cominciai a sognare di trovarmi in luoghi dove presente e passato si confondevano, familiari ed estranei al tempo stesso: un museo per bambini, una nave da crociera, un negozio di arredamento in cui Henry teneva le sue stupide conferenze su tavolini ecosostenibili e futon di carattere. Poi dormii profondamente fino al mattino.
Troppo profondamente. Avevo il telefono spento, perciò la sveglia non suonò, e quando mi svegliai, i raggi del sole che filtravano dalle tende e si proiettavano sul pavimento erano corti. Il corpo realizzò prima del cervello che cosa significava: dovevano essere almeno le dieci. Con un gemito, mi alzai a fatica.
Jason stava bevendo una tazza di caffè seduto al tavolo della colazione mentre leggeva le notizie sul computer portatile. «Mi stavo giusto chiedendo se fosse il caso di venirti a chiamare», disse. «Sembravi molto stanca, perciò ti ho lasciato dormire.» Evitò il mio sguardo.
«Grazie. Faccio subito una doccia e me ne vado.»
Lui annuì, e io mi dedicai in tutta fretta alla mia routine mattutina, per cercare di non arrivare in ritardo all’appuntamento. Indossai la mia tenuta da colloquio di lavoro che, da quando avevo tragicomicamente perso il vestito a portafoglio, consisteva in jeans scuri con i tacchi alti, un’ampia maglietta e una collana importante per coprire la scollatura. Mentre uscivo ticchettando sul pavimento di linoleum dell’anticamera, Jason mi augurò buona fortuna, pensando di sicuro all’ultimo appuntamento a cui ero andata senza di lui.
Entrando nel parcheggio del raffinato locale in cui avrei visto Cynthia, anch’io mi ritrovai a confrontare la situazione attuale con quella in cui mi ero trovata poco più di un anno prima. Adesso come allora ero sola e mi stavo preparando a incontrare una persona di gran lunga più importante di me, pienamente consapevole del fatto che la mia carriera dipendeva dall’esito del colloquio. Stavolta, però, non c’era il problema di aver rubato un’occasione a Jason. Me l’ero guadagnata da sola, anche se non avevo tanta voglia di pensare a come ci fossi riuscita.
Feci un respiro profondo ed entrai nel locale. Cynthia mi adocchiò dal fondo della sala e mi rivolse un cenno. Quando raggiunsi il tavolo all’angolo, si alzò in piedi e si sporse per abbracciarmi. Con i tacchi, le arrivavo alle narici.
«Dana!» Sembrava sinceramente felice di vedermi, come se fossimo amiche. «Dai, siediti. Ho già ordinato degli stuzzichini, stanno arrivando. Vuoi qualcosa da bere? Fanno degli ottimi frullati qui.»
Mi sentii rivoltare lo stomaco ma riuscii a sorridere e scossi la testa. «No, grazie, non sono una grande amante dei frullati. Sei stata davvero gentile a trovare il tempo di incontrarmi con un preavviso così breve. Avrai una marea di cose da fare.»
«Ma figurati, mi fa molto piacere che tu sia venuta a Los Angeles.» Si sedette. «Però sì, hai ragione, sono piuttosto impegnata, perciò andrò subito al sodo, Dana. Tu cosa sei, innanzitutto, un’autrice o una cabarettista?»
Aprii la bocca e la richiusi. Non era la domanda che mi ero aspettata.
Prima che potessi elaborare una risposta, lei continuò. «Sì, lo so, lo so, sei entrambe le cose. Vuoi far ridere la gente, dico bene? Però in questo mestiere è importante sapere cosa stai vendendo, con che marchio ti stai presentando.»
Qual era il mio marchio? Annuii con veemenza per segnalare di aver capito. Fortunatamente, Cynthia non aveva ancora finito di parlare, salvandomi dal compito di decidere su due piedi.
«Comunque, sto mettendo insieme un progetto di sitcom.» Abbandonai all’istante la ricerca del mio marchio. «Senti, sarò sincera, non abbiamo ancora un copione per la futura serie TV. È troppo presto. Però sto cercando una persona di talento come te.»
Come me. Non sapevo neppure che cosa significasse ma, siccome sembrava che lei avesse concluso il ragionamento, risposi come meglio potei. «Davvero? Come me?»
«Una persona brillante, motivata, non troppo attaccata al passato. Hai presente? Non legata a preconcetti su come dovrebbe essere un programma del genere.» Non aveva ancora accennato al contenuto, tuttavia non avevo nessuna intenzione di interromperla. «Sto lavorando all’episodio pilota con alcuni nomi veramente stellari. Abbiamo pensato che forse ti andrebbe di collaborare ai testi e magari anche di avere una parte…»
«Una parte?» Ero rimasta quasi senza fiato, se no non sarei mai intervenuta prima di sentire chi fossero le altre persone a cui aveva accennato. «Nel tuo…»
«Cominciamo con un ruolo marginale, magari la receptionist, se lo ambienteremo nello studio di un dermatologo, o la stagista, se alla fine opteremo per la redazione di una rivista. Ti facciamo provare la parte, vediamo come te la cavi come autrice e se le cose funzionano…»
«Ma… Wow... Cioè...» Il mio marchio sembrava quasi quello dell’idiota balbettante. Cercai di ricompormi e di fare domande pertinenti. «Dovrei...»
«Non rispondermi adesso», mi interruppe Cynthia. «Non c’è qui il tuo agente. Prima parla con chi si occupa dei soldi.»
A dire il vero, non ce l’avevo ancora, un agente, ma ero decisa a firmare il contratto che mi aveva inviato per e-mail e a rimandarglielo quel giorno stesso.
«Comunque, il punto è questo, Dana…» Cynthia abbassò la voce, e io mi sporsi il più possibile sul tavolo. «Dovrai garantirmi che ti impegnerai come attrice non meno che come autrice.»
Per assecondare il suo tono solenne, aggrottai la fronte e annuii lentamente, come se stessi davvero ponderando la risposta.
«E che, nel caso la serie abbia successo, non approfitterai della notorietà per piantarci in asso e andartene in tournée, come ha fatto l’anno scorso quello stronzo di My Peeps.»
Spalancai la bocca per dire che non mi sarebbe mai venuto in mente di fare una cosa simile, ma lei agitò la mano per interrompermi.
«Non promettere niente adesso. È tutto ipotetico. Sto solo cercando di sondare il tuo livello di interesse.»
«Il mio livello di interesse?»
La cameriera portò alcuni piattini, dilungandosi a parlare di sottaceti fatti in casa e di pâté di fegato di manzo allevato all’aperto, così ebbi un attimo di tregua per riflettere su quello che avrei dovuto dire dopo.
Nell’attesa, Cynthia si ficcò un sottaceto in bocca e lo masticò.
«Il mio livello di interesse è alto.» Lo sforzo di trovare le parole mi diede le vertigini.
«Quando ho visto Betty sul palco, ho percepito la tua determinazione», disse Cynthia. «E ho capito che era esattamente quello che serviva al programma.»
«Determinazione?»
«Betty.» Lei spalmò del pâté su un crostino di pane casereccio. «Voglio Betty.»
Cynthia voleva Betty.
La parrucca di Betty era ancora appallottolata sotto il divano di casa, dove l’avevo ficcata dopo l’aggressione a Carl, e avevo fatto del mio meglio per non pensarci. D’un tratto, rimpiansi di non averla gettata nel cassonetto insieme ai guanti. Non capivo bene perché non me ne fossi sbarazzata. In quel caso avrei potuto affermare che Betty, o almeno quella versione di lei, era scomparsa per sempre.
Ora però dovevo dire qualcosa. Cynthia mi stava osservando in silenzio, una cosa un po’ strana per lei. Forse l’avevo fraintesa o presa troppo alla lettera. «Vuoi solo Betty?»
«Hai altri personaggi che non ho ancora visto?» Lei alzò l’indice per interrompermi prima ancora che aprissi bocca. «Intendo personaggi che funzionano.» Quando scossi la testa lentamente, scoppiò a ridere. «Be’, non ce n’è bisogno. Betty sarebbe perfetta come vicina di casa fuori di testa in questo tipo di telefilm. O anche come receptionist da incubo o come strampalata cameriera della tavola calda locale; oppure – se per caso finirò per interpretare me stessa – come fan ossessiva. In realtà, potrebbe essere qualsiasi cosa.»
«Posso sicuramente inventarne altri, di personaggi così», azzardai con cautela. «Personaggi come Betty.»
Cynthia si accigliò. «Il nome può anche cambiare, purché mantenga la parrucca, l’atteggiamento, la violenza… Magari non la volgarità, questo dipende della rete televisiva...»
«Che ne dici di qualcosa di nuovo?» proposi. «Insomma, se avessi chiuso con il personaggio di Betty, se avessi in mente di mandarla in pensione, potrei provare qualcos’altro?»
«Certo.» Lei finì di sgranocchiare un altro sottaceto e lo ingoiò, allungando la mano verso una fetta di ravanello. «In un’altra serie, però.»
Addentai a mia volta un sottaceto non meglio identificato e, negli interminabili secondi di silenzio che seguirono, lo masticai meccanicamente.
Poi gli occhi di Cynthia si illuminarono. «Irina! Irina, vieni qui!» Si concentrò di nuovo su di me per un istante. «Perdonami, Dana, non ti muovere. Vado solo a salutare la mia migliore amica Iriiina!» A metà frase, si era già alzata in piedi, il vago tono di scuse spazzato via da uno strillo entusiasta per richiamare l’attenzione della donna che si stava avvicinando a rapidi passi. Le due si abbracciarono, poi rimasero in piedi vicino alla mia sedia, a parlare a raffica per quasi mezz’ora di un progetto di cui non riuscii ad afferrare neppure il nome.
Ci misi venti minuti a finire tutto il pâté e i sottaceti che c’erano sul tavolo, a piccoli morsi e masticando il più lentamente possibile; altri cinque li impiegai per tritare con i denti ogni cubetto di ghiaccio rimasto nel mio bicchiere e a scolarmi le ultime gocce d’acqua. Nei cinque minuti successivi attorcigliai il tovagliolo fino a conferirgli la forma di uno stronzo di carta inutilizzabile. Mi resi conto che avevo bisogno di andare in bagno.
Mentre mi agitavo sulla sedia, chiedendomi se fosse il caso o no di farlo, Cynthia disse, continuando a parlare sopra la mia testa: «Oh, caspita, guarda che ora abbiamo fatto».
«Sarà meglio che vada anch’io», disse la donna di nome Irina.
Cynthia abbassò lo sguardo, come se si fosse accorta di nuovo solo in quel momento della mia presenza vicino al suo gomito. «Oddio, Dana, scusami tanto. Che maleducazione! Non ci posso credere… Ma devo correre a un altro appuntamento. Forse sono già in ritardo. Però sono molto contenta, e tu? Sento che ci aspetta una bella collaborazione.» Mi fissò dritta in faccia, e io avvertì il calore avvolgente del suo sguardo. «Sei pronta, Dana. So che non lo senti ancora, ma io dico che sei prontissima.»
Dolorosamente consapevole del tovagliolo a forma di stronzo che c’era sul tavolo accanto alle briciole del pranzo consumato quasi interamente da sola, mi alzai in piedi per vederla meglio in faccia, anche se lei continuava a torreggiare su di me. «Grazie infinite per avermi concesso un po’ del tuo tempo» replicai, senza troppa convinzione.
«Irina, aspetta un attimo, ti accompagno all’uscita», urlò Cynthia. Poi si voltò verso di me, mi posò la mano sulla spalla, mi diede un buffetto e sfoderò un sorriso empatico. «Mi hai avuta tutta per te per un quarto d’ora, è già tanto per un primo pranzo a Los Angeles!» Mi diede due baci volanti, uno per guancia, e se ne andò.
Ancora in piedi accanto al tavolo, a disagio, estrassi il telefono e lo accesi. Si mise subito a vibrare, e i messaggi di Amanda riempirono lo schermo. Chiamai a Jason. «Ehi, vai a lavorare fra poco?» Al momento, faceva il barista in un ristorante di specialità di mare.
«Dovrei iniziare alle cinque.» Lui si interruppe, come se stesse valutando il mio tono di voce. «Però, se vuoi ci vediamo. Stavo pensando di darmi malato.»
Come prima cosa mi costrinsi a prendere possesso della stanza prenotata al Days Inn. Non volevo dare niente per scontato. Stampai il contratto dell’agente nell’ufficio del motel, che consisteva in uno sgabuzzino con un desktop antiquato e una stampante Epson, e dopo averlo firmato lo fotografai e lo inviai con il cellulare. Nel tragitto per andare a casa di Jason, continuai a ripensare all’ultima frase di Cynthia. Di sicuro, non era stato il mio primo pranzo a Los Angeles. Figurarsi. Ma neppure il peggiore.