19.
«Ciao Kim, sono Dana», dissi in fretta, sapendo che con il cellulare usa e getta non poteva vedere l’identità del chiamante. Avevo aspettato che Jason se ne andasse per contattarla, nella speranza che lei potesse fornirmi qualche particolare in più per collegare il suicidio di Fash ad Amanda. «Volevo sapere come va. Mi dispiace di avere interrotto la chiamata così in fretta l’ultima volta. La notizia della morte di Fash mi ha sconvolto profondamente.»
«Non preoccuparti», tagliò corto Kim, e incassai il colpo. In fin dei conti, era stata lei a trovare il cadavere. «Ieri sono venuti di nuovo i poliziotti. Continuano a presentarsi qui a fare domande. C’è qualcosa che non va.»
«Ah davvero?» replicai in tono sarcastico, ma Kim non era il tipo da prendersela. Dopo aver dovuto nascondere a Jason ciò che era successo a Fash, parlare con una persona informata fu un sollievo.
«Sì, più di quanto immagini. Non è detto che sia stato un suicidio.»
«Qualcuno l’ha ammazzato?» Chissà perché, non ero scioccata come avrei dovuto. Amanda si era offesa quando le avevo chiesto se fosse stata lei a premere il grilletto, come se quella fosse un’azione troppo cruenta, eppure le immagini del video di Neely non erano certo poca cosa. «Chi poteva volerlo morto?» Fra me e me aggiunsi: “Io no di certo”.
«Non ne ho idea», rispose Kim, e io mi massaggiai i muscoli del collo contratti, cercando di alleviare il dolore. «Però stanno succedendo delle cose strane nell’ambiente dei comici di Austin. Circolano voci anche su Aaron Neely. Ricordi che era sparito all’improvviso durante la gara? Uno dei giudici che alloggiavano nello stesso albergo l’ha visto andare via zoppicando, appoggiato al suo assistente, con un paio di occhiali neri per coprire i lividi. Sembrava che fosse stato investito da un camion.» Conoscendo il video, sapevo bene com’era conciato. «Se ne parla su tutti i forum. Un tizio che ha lavorato con lui sarebbe pronto a scommettere che ci sia sotto una storia di droga.»
Dovetti trattenere una risata all’idea di Aaron Neely con i suoi frullati e la sua vita fintamente sana. «Pare evidente che nascondesse qualcosa», concordai, cercando di stare sul vago.
«Il fatto è che due persone collegate al concorso sono state messe fuori gioco a poche settimane di distanza.»
Espirai con un fischio, come se ci stessi riflettendo per la prima volta. «Quindi Fash faceva uso di droghe? Sospettano che la gara sia una copertura per qualcosa di losco?» Mi detestavo per i miei tentativi di depistare Kim ma, per come erano state architettate, le violenze commesse da Amanda erano più facilmente riconducibili a me che a lei. Dovevo scoprire tutto quello che potevo evitando che Kim si avvicinasse troppo alla verità.
«In effetti, la situazione è sospetta. Secondo me, è per questo che la polizia continua a ronzarci intorno.»
«Intorno a chi? A te e a me?» Mi si irrigidì di nuovo il collo.
«Continuano a chiamare. Vogliono sapere dove sei.» Soffocai l’impulso di interromperla per chiederle altri particolari. «Siamo la seconda e la terza classificate. O temono per la nostra incolumità oppure…»
«Oppure stanno indagando su possibili moventi», conclusi io. Ricordai quello che aveva detto l’ultima volta che ci eravamo sentite: «C’era sangue dappertutto». Le domandai: «Credono davvero che saremmo capaci di ammazzare un amico nella speranza di vincere una gara di comicità locale?».
«“Amico” mi pare un tantino esagerato», ribatté lei sarcastica, tornando per un attimo la Kim di sempre. Seguì una risatina poco convinta. «In ogni caso, ti avevo detto che, se non mi fossi piazzata bene quest’anno, mi sarei suicidata, no? Da lì ad ammazzare qualcun altro, in fondo, non c’è poi così tanta differenza.»
Calò il silenzio, e io riflettei sulle sue parole. Quelli come Fash costringevano in continuazione le donne a uscire di scena. Io avevo solo cercato di rendere pan per focaccia a un uomo, tanto per cambiare. Il fatto che avessi avuto il mio tornaconto – adesso ero tecnicamente la Persona più spiritosa di Austin – poteva essere considerato un movente? Scossi la testa. Come facevo ad avere un movente per un crimine che non avevo commesso?
Poi mi venne in mente una cosa. «Kim, l’hai trovato a casa sua, vero?» Silenzio. «Come hai fatto a entrare?»
«La porta non era chiusa a chiave», rispose lei. «Alcuni suoi amici erano preoccupati per i post che mandava nei forum. Siccome ero stata l’ultima a vederlo, mi sono offerta di andare a controllare come stava. Prima di provare ad abbassare la maniglia, ho bussato a lungo.» Le si incrinò la voce e fece un respiro profondo. «Giuro che non entrerò mai più in casa di nessuno in quella maniera.»
Cominciavo a sospettare che le avessero teso una trappola. Kim era stata l’ultima a vedere Fash e la prima a trovarlo. Era arrivata direttamente sulla scena del delitto. Non era detto che Amanda fosse al Chacha’s l’ultima sera della gara; visto che controllava il mio telefono, poteva averci sentito parlare di Fash in bagno. E se fosse entrata anche nel cellulare di Fash? Forse sapeva che aveva bussato alla porta di Kim quella notte, lo aveva sentito piangere e implorarla di farlo entrare e aveva deciso di punire tutti e due: lui per quello che aveva fatto a Kim, lei per il suo silenzio.
Era un pensiero orribile. La regola di Brenna Branchik: per colpire una donna devi entrare nella sua testa, farla sentire così in colpa da indurla a introdursi nella casa di qualcun altro, che è la scena di un delitto sanguinoso. E magari implicarla nell’omicidio.
«Chi?» domandò Kim.
«Eh?» Tornai di colpo alla conversazione.
«Hai detto: “Ha lasciato la porta aperta”. A chi ti riferisci?»
«A F-fash», balbettai. Dovevo assolutamente proteggerla. «I poliziotti non ti hanno detto di rimanere in città, vero?»
«Non ancora.»
Tirai un sospiro di sollievo. «Pensi di poterti allontanare da lì per qualche giorno?»
«Forse. Il direttore del bar dove lavoro mi ha dato il weekend libero. È una brava persona.» Cominciò a tremarle la voce. «Sinceramente, sarei felicissima di andarmene. Non per fuggire dalla polizia, ma per prendere le distanze dai miei amici, dagli amici di Fash. Tutti sanno che sono stata l’ultima a vederlo vivo.» Esitò, poi proseguì. «Sui forum circola un’altra voce, e cioè che si sia ammazzato perché l’ho rifiutato e ho detto ad altre donne di girare alla larga da lui.» Fece una risatina amara. «Ovunque io vada, mi sembra che tutti gli uomini nel nostro giro mi guardino storto. E le donne, anche se sanno benissimo come stanno le cose, tengono la bocca chiusa. Non osano parlare male di un morto, immagino.» Ora stava piangendo. «Ma il fatto che gli sia successa questa cosa orribile non cancella quello che ha fatto a me e a molte di noi.»
«Certo che no. Ti credo. E non è colpa tua se è morto.»
Lei tirò su con il naso un po’ di volte e respirò profondamente. «Comunque, la mia presenza non è più gradita qui. Non chiedo di meglio che lasciarmi alle spalle tutta ’sta storiaccia, ma non so dove andare.»
La soluzione mi venne in mente all’improvviso. «Che ne dici di Amarillo? Se riesci ad arrivarci in macchina, mia madre ti ospiterà volentieri. E non romperà le palle, a parte insistere che mangi.» Mia madre sapeva sempre quando non era il caso di fare domande. Era uno degli aspetti del suo carattere che apprezzavo di più. «Cioè, non è certo un luogo di villeggiatura, però è tranquillo.»
«Grazie, Dana. È una buona idea.» Kim sospirò. «Ma dubito che tua madre sia felice di ospitare una sconosciuta a casa sua.»
«Per lei non è un problema. La avviserò, così lascerà una chiave sotto lo zerbino. Non devi decidere subito. Puoi anche partire all’ultimo minuto.» Ci fu un attimo di silenzio. «Pensaci su.»
«Okay. E grazie. L’ho già detto, ma per me è molto importante averti dalla mia parte dopo tutto quello che è successo.»
«Certo. Dobbiamo coprirci le spalle a vicenda.» Appena ebbi pronunciato quelle parole, feci una smorfia. «Mi dispiace solo di non essere lì con te per aiutarti.»
«Dove sei, a proposito? Non ad Amarillo, vero? Tutti pensano che tu sia lì.»
«Sono a Los Angeles.» Un attimo dopo ricordai perché. Mi ero quasi dimenticata che alle persone normali sarebbe sembrata una bella notizia. «Dopo il podcast mi hanno proposto delle audizioni.»
«Wow, è fantastico! Tanta merda.» Il cambiamento di argomento sembrò risollevarla. «Dove ti sei sistemata?»
«Nella mia vecchia casa», risposi. «Con Jason.»
Calò un silenzio gelido, poi Kim disse con voce tesa: «Non preoccuparti, non dirò a nessuno dove sei. Neppure alla polizia».
«Grazie, sei gentile. Non vorrei che qualcuno pensasse…»
Lei mi interruppe. «Non c’è problema. In fin dei conti, ci copriamo le spalle a vicenda, giusto?» Mi parve di cogliere una punta di ironia, ma in fondo Kim aveva sempre un tono un po’ sarcastico. Ci salutammo, e io le mandai l’indirizzo di Amarillo. Poi scrissi una e-mail a mia madre per avvisarla che un giorno di quella settimana sarebbe potuta arrivare un’amica.
Non era molto, ma era tutto ciò che potevo fare. Mi ritrovai a pregare che Amanda non avesse seminato prove in grado di incriminare Kim, anche se una vocina che non riuscii a zittire mi bisbigliò nella testa: “Meglio a lei che a te”.
Rimasta sola, cominciai a guardarmi intorno. Ora che Jason non c’era, per la prima volta fui sopraffatta dalla consapevolezza che Amanda aveva vissuto lì, sia pur per un breve periodo. Anche se il suo spettro era stato esorcizzato e il mio telefono, avvolto nel materiale isolante, giaceva nello sgabuzzino, non potevo ignorare che quella per qualche tempo fosse stata casa sua. Cercai di immaginarla seduta sul divano con Jason, nell’atto di versarsi un bicchiere di vino in cucina o mentre si raggomitolava nel suo letto. Per quanto sgradevole, era pur sempre un punto di partenza. Lentamente, mi alzai e presi a girare per le stanze a passi felpati, in modo da non spaventare il suo fantasma. Pensai agli oggetti di Henry e alle loro storie. Forse, chissà, Amanda aveva lasciato qualcosa che raccontava di lei.
Cercai ovunque, ma non trovai niente che le somigliasse; tutto parlava della bonaria sciatteria di Jason e del mio passato lì. C’erano i tappeti che avevo comprato all’Ikea per coprire i pavimenti di ceramica, ancora spogli quando mi ero trasferita. Anche le tende dozzinali, sbiadite al centro e sudicie sui bordi, erano quelle che avevo acquistato io da Target. Osservai le due poltrone Goodwill spaiate e i quadri alle pareti, ritratti su sfondo di velluto nero e paesaggi mal dipinti. Percorsi il corridoio, passando accanto a un disegno a colori pastello di un gatto dagli occhi enormi che a Jason faceva sempre paura e mi costrinsi a passare in rassegna la sua stanza. Accanto al letto disfatto c’era il comodino che avevo trovato al negozio dell’Esercito della Salvezza per sostituire la scatola di cartone che usava prima del mio arrivo. Ora la superficie di legno era coperta dai cerchi appiccicosi lasciati da tutte le tazze di caffè che ci aveva posato per un anno di fila. Il ripostiglio era stracolmo di grucce vuote. A parte alcune camicie a scacchi simili a bandiere sbilenche, la maggior parte dei vestiti era appallottolata a terra.
Ammesso che ci fosse, il fantasma di Amanda era perfettamente silenzioso.
Aprii la porta dello studio. Nessuno avrebbe mai detto che una volta fosse la mia stanza, pensai con una fitta al cuore. Ero stata rimossa non meno radicalmente di Amanda. Sulla porta c’erano dei graffi più o meno ad altezza d’uomo, come se qualcuno avesse cominciato a scrostare la vernice, magari con l’intenzione di ritinteggiarla. Controllai in tutti gli angoli, spostando aste di microfoni, leggii e un mixer, per non lasciarmi sfuggire nulla. Entrai nello sgabuzzino, cercando di non sussultare alla vista del fagotto nero che avvolgeva il mio telefono. Uno scatolone conteneva altri cavi e un mixer più piccolo. Continuai a girare per la casa, aprendo tutti gli armadi in cerca di tracce di Amanda.
In piedi all’ingresso, vidi la botola del sottotetto, un rettangolo nel soffitto da cui pendeva una cordicella. Dopo aver cercato senza successo una scala, trascinai una poltrona del soggiorno fin lì e salii sul sedile. Le mie dita arrivavano a malapena all’estremità libera del cordino intrecciato e dovetti fare qualche saltello per riuscire ad afferrarlo. Quando la botola si aprì con uno stridio da brivido, fui investita da una pioggia di polvere. Dopo aver perso un po’ di tempo a tossire e a ripulirmi gli occhi irritati e lacrimanti, abbassai la scaletta ripiegata e salii gli scalini, che protestarono con un cigolio metallico a ogni mio passo. Una volta infilate la testa e le spalle nel sudicio sottotetto, mi guardai intorno: tubi contorti, una pila di assi di legno e materiale isolante in fibra di vetro rosa sotto uno spesso strato di polvere e ragnatele. Non c’era nient’altro, nemmeno una scatola.
Scesi e, ripiegata la scaletta non senza una certa difficoltà, chiusi la botola con una violenta manata. Trascinai la poltrona al suo posto in soggiorno e mi ci lasciai cadere sopra, sudicia dalla vita in su e sudata per lo sforzo. Mentre mi ripulivo alla bell’e meglio la camicia dalla polvere, pensai a quanto fosse diversa questa casa dall’appartamento di Austin di Amanda, tutto linee nitide e colori limpidi, impersonale, ascetico e immacolato. Da Jason non c’era traccia del passaggio di una persona che apprezzava quel genere di ambiente. Cominciai a scoraggiarmi.
Un’ombra dietro le tende del soggiorno, seguita da un rumore metallico, mi fece sobbalzare. Era solo il postino, mi resi conto con il cuore in gola. Io e Jason scherzavamo sempre sul fatto di vivere nel Triangolo delle Bermude del servizio postale statunitense, perché eravamo sempre gli ultimi a ricevere la posta, e quando alla fine arrivava una volta su due non era neanche indirizzata a noi. Come ai vecchi tempi, uscii per andare ad aprire la cassetta delle lettere. Le cose a quanto pareva non erano cambiate: a parte una cartolina che rinfacciava a Jason di non essersi presentato a un appuntamento dal dentista, il mucchietto di buste era destinato agli inquilini precedenti. Mentre chiudevo la porta con un piede, le passai oziosamente in rassegna: Julie Moore, Rebeccah Farrell, Keith Ho, signor J. Soriano…
Persone che avevano vissuto lì prima di Jason.
Prima del mio arrivo lui aveva l’abitudine di gettare via la posta degli ex inquilini, ma io avevo insistito per riporla in un cassetto della cucina, intenzionata a rispedirla al mittente non appena ne avessi avuto il tempo; naturalmente, non lo avevo mai fatto, e alla fine avevamo soprannominato quel cassetto «il buco nero». Più o meno ogni due mesi lo svuotavo nel bidone della spazzatura, ma ero abbastanza sicura che Jason non l’avesse mai fatto.
Andai in cucina e mi inginocchiai per aprire l’ultimo cassetto del mobiletto, ma era talmente pieno che non ci riuscii. Dovetti infilare la mano in fondo per sbloccarlo. Quando alla fine ce la feci, un estratto conto bancario atterrò sul pavimento vicino al mio ginocchio. Era indirizzato a Dana Diaz.
«Grazie mille, Jason», borbottai.
Mi sedetti e cominciai a frugare fra gli strati di posta. Nel vedere sbucare da un catalogo «Free People» la punta di una A, ebbi un tuffo al cuore. Sebbene fosse solo un’offerta speciale di Sephora, era indirizzata ad Amanda Dorn. Alla fine, avevo trovato una traccia di lei.
Cominciai a estrarre manciate di bollette, pubblicità di carte di credito, cataloghi, bollettini su elezioni e referendum, buoni sconto di una panineria scaduti da tempo, inviti a matrimoni, auguri di Natale e semplici buste bianche con o senza finestrelle di plastica, gettando il tutto per terra davanti a me. Di ogni plico, per quanto banale, controllavo il destinatario, prima di cestinarlo. Quando ne trovavo uno indirizzato alla signora Amanda Dorn, avvertivo una piccola scarica di adrenalina, seguita da un senso di delusione non appena mi rendevo conto che era roba senza importanza. Eppure aprivo tutto, nel timore di perdermi qualcosa di più significativo di una promozione sull’abbonamento annuale alla rivista «Bon Appétit».
Dopo avere esaminato l’intero contenuto del cassetto, avevo aperto circa quindici buste destinate ad Amanda, tutte inutili. Non c’era neanche un periodico scolastico, per esempio, da cui ricavare un indizio sui suoi trascorsi pre-Runnr, o una lettera di un suo parente. Avevo sperato di trovare qualcosa del genere, magari un invito ad andare a trovare una madre malata o a perdonare un padre violento. Sconfitta, rimasi seduta a gambe incrociate sul pavimento della cucina circondata da una valanga di posta.
Una falena sbatté contro il vetro della finestra vicino alla luce del lavandino, facendomi sobbalzare. Fuori ormai era buio.
Mi misi in ginocchio, ignorando il formicolio ai piedi in cui stava tornando a circolare il sangue, e sbirciai l’orologio del forno a microonde. La mia ricerca era durata due ore. Di lì a poco Jason sarebbe rientrato. Sospirai e riaprii il cassetto con uno strattone talmente forte da farlo uscire completamente dai binari.
Sotto, alla base del mobile, si era accumulata una massa di buste. Quella in cima era per Amanda.
La aprii. Era datata 30 marzo:
Gentile Amanda Dorn,
grazie per essere una fedele cliente di Saf-Stor! Al fine di offrirle un servizio di stoccaggio ottimale, l’affitto scontato del deposito numero 302 sarà aggiornato alla nuova tariffa di 145 £, con decorrenza dal 1° maggio 2017. Con la presente, le diamo un preavviso di trenta giorni…
Abbassai la lettera, incredula. La roba di Amanda non era a casa di Jason e neppure nel suo appartamento di Austin. Ripensai a quell’alloggio dove avevo passato così tanto tempo a cospirare con lei. I mobili nuovi di zecca, pulitissimi, la fila perfettamente dritta di DVD – Lo squalo, Die Hard, Harry, ti presento Sally, Ragazze a Beverly Hills – tutti film di cassetta. Rividi Amanda frugare in armadietti quasi vuoti in cerca di un cavatappi, estrarre una bottiglia dopo l’altra dalla rastrelliera di vini sopra il frigo, controllare le etichette e rimetterle a posto. Non era che lei avesse gusti impeccabili in fatto di arredamento né che le piacessero film banali, e non necessariamente aveva la fissazione di tenere la casa pulita come uno specchio. Aveva preso l’appartamento su Airbnb. Quando si era trasferita da Jason, aveva messo le sue cose in un deposito, dove si trovavano tuttora. Controllai l’intestazione della lettera: un magazzino a Glendale.
Corsi al computer portatile di Jason per cercare gli orari di apertura e scoprii che ormai era chiuso. Alla riapertura, l’indomani mattina alle sei e mezzo, io e Jason saremmo stati sul posto.