6.

«Cosa?» dissi, abbassandomi d’istinto. «Dove?»

«Dall’altra parte della strada. Lo vedi il balcone con le sdraio arancioni?»

«Amanda…» Su quello stretto ripiano di cemento d’un tratto mi sentii terribilmente esposta.

«Se stai per chiedermi se sapessi che viveva qui, ti dico subito di sì. Certo che lo sapevo», affermò lei, ignorando il mio disagio. «Dopo il mio licenziamento, è stato trasferito a Austin per contribuire alla costituzione di una nuova sede. Nell’ufficio della Silicon Valley per lui tirava una brutta aria. O forse è stata una misura per contenere i danni decisa dall’alto. Comunque sia, non sprecherei troppe lacrime per Doug Branchik.» Aveva pronunciato il nome talmente forte che sobbalzai, lanciando un’occhiata al balcone di fronte. «Io sono finita sulla lista nera. Lui invece se la sta passando piuttosto bene.»

Sottinteso: sapeva come se la passava perché lo vedeva dalla finestra di casa. «Sei venuta qui per…?»

«Per lui? No, è stata solo una fortunata coincidenza.» Dovevo avere un’espressione scettica, perché Amanda proruppe in una risatina venata di una leggera irritazione. «Non mi importa che tu ci creda o no. Tutti gli anni arrivano un mucchio di persone da Los Angeles. A sentire le lamentele della gente di qui, sembra una specie di infestazione di cavallette.» Si voltò per rientrare in casa, e io la seguii, sentendomi sollevata. «In ogni caso, non rimarrà per molto. È un appartamento di proprietà della Runnr. Ce l’hanno sistemato in attesa che sua moglie finisca di allestire la loro villa con sei camere da letto affacciata su Lake Travis.»

Girai la testa verso la portafinestra. «Non hai delle tende o qualcosa del genere?»

«Dai, adesso ascoltami. Ho già pianificato tutto.» Mi sorrise. «Il bello è che non dovrai neppure vederlo in faccia.»

Non dissi di sì, ma neppure di no.

Il giorno dopo si sarebbero svolte le semifinali del concorso per la Persona più spiritosa di Austin, ma non riuscii a prepararmi con la dovuta concentrazione, tormentata dal ricordo del sordido video sgranato. Giunta la sera della gara, varcai la porta del Bat City Club con una certa trepidazione, temendo che il senso di colpa incombesse come un’ombra scura sulla mia performance. Durante l’attesa, tenni gli auricolari con il volume azzerato, muovendo la testa al ritmo di una musica immaginaria, mentre i comici intorno a me spettegolavano sull’assenza di Neely. A quanto pareva, lo avrebbe sostituito Cynthia Omari, una delle mie comiche preferite, presentatrice di un podcast estremamente in voga. Quando salii sul palco per cominciare lo spettacolo, lanciai un’occhiata al tavolo della giuria, aspettandomi di vedere… Cosa? Granelli di polvere al posto della sua sagoma? Di udire una musica inquietante?

Invece provai solo un enorme sollievo. La mia performance non fu particolarmente ispirata, ma neppure fredda e insipida. Praticamente, andai con il pilota automatico.

Mi sentivo così libera, così leggera!

Rimasi in questo stato di sospensione, di oblio, per tutto il resto della serata, finché il presentatore pronunciò il mio nome. Ero fra i comici promossi alle finali. Sentii il boato della folla e, mentre guardavo gli altri concorrenti, pensai: “Ce l’ho fatta”. Ebbi l’impressione che la mia vera vita si fosse accesa all’improvviso, come se avessi schiacciato un interruttore.

Incespicando raggiunsi il bar, passai davanti ai colleghi che tendevano le mani per congratularsi con me e andai direttamente nel bagno delle donne. Mi chiusi in un gabinetto ed estrassi il telefono. Sullo schermo c’era ancora l’ultimo messaggio di Amanda della sera precedente.

Adesso ti fidi di me?

«Fidati, sarà un’impresa epica.»

Durante l’ultimo anno delle superiori, Jason aveva cercato di convincermi a rubare il furgone di Mattie.

Anche se mi sforzavo in tutti i modi di non darlo a vedere, il fratello di Jason continuava a farmi una paura tremenda. L’anno prima il suo pastore tedesco di nome Kenny era scappato di casa, finendo sotto una macchina. A quel punto, se non altro, non dovevo più temere che sbucasse dalla porticina basculante dell’appartamento ricavato nel garage e mi saltasse addosso ringhiando, come il suo padrone gli aveva insegnato a fare con tutti, tranne che con lui. In compenso, Mattie era diventato ancora più minaccioso. Non mi staccava mai gli occhi di dosso.

Quanto allo scherzo pianificato da Jason, mi sembrava incredibilmente puerile e banale, rispetto alla punizione che il fratello si sarebbe meritato. Non sapevo bene cosa avesse fatto per suscitare quel desiderio di vendetta, ma Jason doveva essere davvero arrabbiato. Forse non sopportava più le fastidiose insinuazioni sulla sua mascolinità e, dopo che Kenny era morto, non aveva più scuse per non tentare di ribellarsi. In ogni caso, aveva deciso che sarebbe stato molto divertente rubare il furgone a notte fonda, mentre Mattie, sbronzo, dormiva della grossa, come sempre nei giorni di paga, e abbandonare il veicolo nel bel mezzo di un campo a tre contee di distanza, tutto malandato, come se fosse stato rubato da una banda di teppisti locali.

«Deve sembrare opera di un gruppo di punk imbottiti di metadone», mi aveva spiegato, notando la mia espressione scettica. «Riavrà il suo veicolo. Con le ruote tagliate e la vernice rovinata… tutto qui. Aprirò il piantone dello sterzo, così penserà che sia stato messo in moto collegando i fili di accensione. Ho trovato dei tutorial su YouTube.»

«Allora perché non lo accendi così per davvero?» Non avevo specificato che in tal caso non avrebbe avuto bisogno del mio aiuto per andare a prendere le chiavi. Mattie le portava sempre addosso. Da quel che ne sapevo io, le uniche cose a cui avesse mai tenuto in vita sua erano Kenny e il suo GMC. Quando Jason aveva detto che ero l’unica in grado di passare dalla porticina del cane, ero rimasta lusingata, ma anche un po’ perplessa; se quell’anno a Jason si erano ingrandite le spalle, io era dalla terza elementare che non finivo mai di irrobustirmi. Inoltre, l’idea di infilarmi di notte attraverso la porticina di un cane morto per rubare le chiavi dalla lurida tasca dei jeans di un ubriaco che dormiva a circa un metro di distanza mi dava il voltastomaco. Mi ero detta che sarebbe stato ugualmente sgradevole anche se l’ubriaco non fosse stato Mattie.

Jason però era sulla difensiva. «Non è un crimine, solo uno scherzo.» Aveva sbuffato. «Non sono un delinquente

«No, figurati. Il furto d’auto è perfettamente legale.»

Aveva fatto per ribattere con rabbia, poi si era ricomposto, scoppiando a ridere. «Okay, va bene.» Quando si era passato le mani fra i capelli, le ciocche si erano inumidite. Doveva avere i palmi sudati. «Forse anch’io ho un po’ paura di fallire. Ho già rischiato grosso.»

«E la mononucleosi dell’anno scorso?»

«È stato per salvare la media», aveva ammesso Jason.

La mia, di media, era in caduta libera. Avevo il sospetto che l’anno seguente non sarei riuscita a frequentare la University of Texas con Jason e desideravo trascorrere più tempo possibile con lui. Alla fine, avevo acconsentito per lo stesso motivo che mi spingeva a fare tutto quello che mi chiedeva: semplicemente perché lo voleva lui.

Siccome avrei dovuto puntare la sveglia all’una di notte e uscire di casa di nascosto, ero andata a letto presto, bella carica e sicura di scattare in piedi al primo bip. Invece a svegliarmi nelle prime ore del mattino era stato qualcuno che bussava disperatamente sul vetro della finestra di camera mia. Fuori era ancora buio, nonostante l’una fosse passata da un pezzo. Intontita dal sonno, non sapevo se lo avessi intravisto fra i cespugli, pallido e intirizzito, o se avessi solo sentito battere sul vetro. Quello che invece sapevo, a dispetto dell’intontimento, era che non mi sarei mai infilata nella porticina del cane per rubare le chiavi a Mattie, che non avrei mai seguito Jason fino a un campo a tre contee di distanza e che non sarei rimasta a guardare mentre lui scassava il furgone e lo abbandonava per poi farsi riaccompagnare a casa in macchina da me. Mi ero detta che stavo ancora dormendo e che il rumore alla finestra si era insinuato nei miei sogni.

Il giorno dopo avevo incontrato Jason nel refettorio della scuola. In fila per prendere i nachos, non riusciva ad allontanarsi da me, ma neppure a guardarmi in faccia.

«Okay, adesso ti elenco i primi dieci motivi per cui ieri notte non ho assecondato il tuo piano», avevo detto. «Numero dieci: era incredibilmente stupido.»

Mossa sbagliata. Lui aveva fissato risoluto i contenitori di cartoncino sotto la lampada a infrarossi – di nachos e formaggio grasso – per poi farne scivolare uno sul suo vassoio.

«Numero nove: ho sognato di aiutarti; mi sono svegliata in bagno, mentre cercavo di mettere in terza il water.»

Niente. Avevo deglutito.

«Numero otto: sono un’amica di merda.» Gli avevo toccato la manica e, cambiando tono di voce, avevo aggiunto: «Jason, mi dispiace. Scusami».

Come se non mi avesse neppure sentita e non si fosse accorto della mano posata sul suo braccio, lui aveva versato meccanicamente panna acida e guacamole sui nachos.

«Bene, allora passiamo al numero uno: avevo una paura terribile, Jase. Non volevo dirtelo, ma me la facevo sotto.»

Con gli occhi ancora fissi sul vassoio, lui aveva sorriso, poi si era messo a sghignazzare. «Avresti dovuto vedere la faccia che hai fatto quando te ne ho parlato.» Aveva gettato il cucchiaio del guacamole nell’acqua calda. «Come quando a ginnastica ti dicono che è di nuovo la volta del salto agli ostacoli.»

Avevo provato un grande sollievo. «Anche per quanto ti riguarda, comunque, non è necessario un consulto medico per certificare che sei un coniglio. Si vede benissimo.»

Di lì alla fine della giornata, sembrava che non fosse successo nulla. E Jason non mi aveva mai più proposto di fare dispetti a Mattie. Poco dopo, però, si era messo a fumare, e le due cose sembravano in qualche modo collegate. Poi, appena prima del ballo di fine anno, era stato mollato dalla sua ragazza e aveva dato a me il biglietto che le spettava. Mentre posavo con lui in mezzo a tanti palloncini argentati – con un tubino rosso che non c’entrava nulla con la sua tenuta di jeans in stile texano – mi ero sentita completamente perdonata.

Tuttavia, in fondo in fondo, sapevo di aver mentito. Quella notte ero rimasta a letto per un’altra ragione, in realtà. Era vero che Mattie mi terrorizzava, ma sarei stata comunque pronta a sostenere Jason. Il motivo principale per cui non l’avevo aiutato a rubare il furgone del fratello era che lui stesso aveva troppa paura per farlo da solo. Entrambi avevamo finto di credere che, se solo avesse avuto le chiavi, lo avrebbe fatto di sicuro, ma era una bugia. In fin dei conti, era per questo che non l’avevo affiancato nel crimine: aveva troppo bisogno di me.

Adesso ti fidi di me? La domanda era rimasta in sospeso sullo schermo del telefono.

Amanda non aveva esitato a commettere un crimine senza di me, per conto mio.

, risposi, e premetti INVIA.