20.
Jason ritornò dal lavoro pentito per la scenata che aveva fatto prima di uscire. La lettera di Amanda lo tirò su di morale. «Ottimo lavoro! Chissà cosa c’è in quel deposito.» Cercò di prendermi il mento fra le mani, e io girai la testa di scatto. «Sei sempre stata tu quella intelligente.»
«E tu il menefreghista che non rimandava mai la posta al mittente.» Sollevai un buono scaduto per una manicure al centro commerciale. «Meno male che mi sono ricordata del buco nero.»
«Ahhh, scusa. Ti garantisco che ti avrei mandato qualsiasi cosa avesse l’aria di essere importante.» Annuii con espressione scettica, e lui aggiunse: «Immagino che tu voglia andarci domattina presto… In tal caso, ci conviene farci una dormita, a meno che...» Lasciò la frase in sospeso.
«Sì. Dormiamo.»
Il problema della mia sistemazione per la notte era diventato imbarazzante. Da un lato, mi pareva una stupidaggine tornare al motel e non mi piaceva l’idea di dormire da sola in un posto dove il receptionist di turno mi avrebbe passato le telefonate di Amanda. Dall’altro, però, il rapporto con Jason era ancora un po’ ambiguo e non mi sembrava il caso di dormire in camera sua. A parte quel bacio alle quattro del mattino, la nostra intimità fisica non si era mai spinta oltre qualche buffetto sulla spalla. Ci eravamo addormentati fianco a fianco innumerevoli volte, persino appoggiati l’una all’altro, ma mai a letto. Vedevo che lui era pronto per qualcosa di più, ma per ironia stavolta ero io a essere poco convinta, almeno per il momento.
Mi dissi che dipendeva dalla terribile situazione in cui ci trovavamo e dal fatto che lo avevo tenuto parzialmente all’oscuro. Le nostre attività investigative amatoriali lo divertivano, anzi, lo eccitavano persino. Ma lo sforzo emotivo di fingere che fosse solo un passatempo mi prosciugava emotivamente. Mi dissi che una volta sistemata la faccenda con Amanda, tutto si sarebbe riaggiustato. Ciò nonostante, il suo linguaggio corporeo esprimeva allusive aperture che il mio corpo respingeva, e lui se ne era accorto. Il materasso nello studio di registrazione al momento avrebbe risolto il problema, anche se mi stava devastando la schiena.
Per guadagnare tempo, gli feci una domanda che mi frullava in testa da quando avevo trovato la lettera. «Hai qualche idea su come entrare nel deposito di Amanda?»
«Credo proprio di sì», rispose Jason. «Ne parliamo domani. Nel frattempo, non riempirti quella tua graziosa testolina di preoccupazioni.»
Sentii un brivido in tutto il corpo. Il suo atteggiamento frivolo nelle indagini mi ricordò la leggerezza con cui aveva pianificato il furto del furgone di Mattie. Forse era per questo che avevo difficoltà a lasciarmi andare con lui. Qualsiasi cosa mi riportasse alla mente Mattie mi dava la nausea.
La repressi come meglio potei e, mentre percorrevo il corridoio diretta verso lo studio, cercai di rispondergli a tono. «Un attimo fa hai detto che sono io quella intelligente.» Appena arrivai alla porta e mi girai, mi accorsi di avercelo alle calcagna.
«Ed è vero», replicò lui, chinandosi per darmi un bacio, che accettai senza obiettare. Quando si fu scostato, mi scrutò in faccia per un attimo.
Senza volerlo, trattenni il respiro.
«Okay», disse alla fine. «Ci vediamo domattina.»
«Buonanotte, Jason.» Poi mi chiusi la porta alle spalle.
«Così abbiamo deciso di andare a vivere insieme.» Mentre parlavamo con l’impiegato del Saf-Stor, che stando al cartellino si chiamava Delrick, Jason mi teneva per mano. In quel momento l’attirò sulla propria pancia e me la strinse, dicendo: «Vero, tesoro?».
Rivolsi un sorrisino di scuse a Delrick, che stava facendo un evidente sforzo per apparire più interessato ai primi clienti della giornata che alla tazza di caffè ancora mezza piena sul suo tavolo.
L’idea di Jason era affittare un magazzino sullo stesso piano di quello di Amanda, scassinare il lucchetto del suo e sostituirlo con uno nuovo. Aveva letto che c’era stata un’epidemia di colpi del genere nella zona di Los Angeles; innanzitutto, era un’operazione facile, e poi, se anche il personale ci avesse scoperto, avrebbe pensato che il movente fosse solo un piccolo furto e non avrebbe indagato più di tanto. Dal ferramenta, che apriva ancora prima del deposito, avevamo preso un lucchetto, una trancia e dei taglierini per aprire gli scatoloni una volta che fossimo entrati. Il piano, però, era troppo lineare per i gusti di Jason, e lui lo aveva reso più interessante: per spiegare come mai avevamo bisogno di un magazzino, si era inventato una storia di coinquilini assenti e rincari dell’affitto che, naturalmente, era incentrata sul nostro amore.
Gli lasciai finire lo show. Poi, per risvegliare l’attenzione dell’addetto e per imbeccare Jason, aggiunsi: «A essere sinceri, a convincerci è stata l’offerta speciale dell’iscrizione a un dollaro per i nuovi clienti».
Jason mi lanciò un’occhiataccia, ma l’uomo annuì.
«È un grande affare», disse, attaccando a parlare a raffica, come un venditore che lavora su commissione. «Vi spiego le condizioni…»
Queste comprendevano il pagamento di una cauzione, ma io ero troppo impaziente per lamentarmi. Venti minuti dopo gli avevamo lasciato centoventi dollari e l’addetto ci accompagnò al terzo piano con il montacarichi, mostrandoci il nostro deposito. Ci avviammo insieme per un lungo corridoio bianco pieno di porte grigie numerate.
«Sembra di essere in Alice nel paese delle meraviglie», commentò Jason.
«A me fa pensare di più ai Racconti della cripta. Dietro una di queste porte è nascosto un milione di dollari. Dietro una di quelle, un mostro mangiauomini.»
«Non era ambientato in un manicomio?»
Mentre ci avvicinavamo alla linea del traguardo di quella caccia al tesoro, eravamo tutti e due un po’ nervosi. L’uomo ci guidava, sforzandosi di ignorarci, e quando passammo accanto alla porta contrassegnata dal numero 302 Jason mi diede una gomitata.
«Manca poco… eccolo», disse l’addetto, fermandosi davanti al nostro magazzino e abbassando la maniglia. Quando la porta si aprì, la luce all’interno si accese automaticamente. Era una sudicia stanzetta bianca. «Volete dare un’occhiata?»
«Sì, certo», rispose Jason con finto entusiasmo. Entrò in quella specie di scatola e finse di ammirare le pareti piene di segni. «Amore, vieni a vedere. Guarda quanto spazio…»
«Se volete, potete cominciare subito a portare roba.»
«Lo faremo senz’altro», dissi, entrando a mia volta e cingendo la vita di Jason mentre lui mi metteva un braccio sulle spalle.
«Perfetto.» Delrick sembrava contento di essersi liberato di noi. «Ora vi spiego come programmare la combinazione sul tastierino numerico, poi vi lascio in pace.»
«Tastierino?» Jason mi lasciò andare. D’un tratto, era diventato serissimo.
«Ogni deposito è munito di allarme con sensore di movimento controllato dal tastierino numerico sulla maniglia, con un codice che conoscerete solo voi», spiegò con orgoglio l’addetto, e in quell’instante mi resi conto di non aver visto neanche un lucchetto sulle porte. «Per noi la sicurezza è una priorità. Nei depositi con i lucchetti i furti sono all’ordine del giorno. Basta una trancia per scassinarli.»
All’improvviso il pezzo di metallo lungo più di trenta centimetri che avevo in borsa divenne molto, molto pesante.
Jason, cortese, prestò attenzione a Delrick che gli mostrava come impostare la combinazione, lanciandomi solo una volta un’occhiata che esprimeva qualcosa di simile al panico.
«Come facciamo a entrare?» bisbigliai quando il tizio fu risalito sul montacarichi.
«Dammi un attimo per pensare», rispose Jason, stropicciandosi gli occhi.
«Entriamo, qui fuori ci sono le videocamere.»
Lui mi seguì nel deposito, poi alzò la testa di scatto. «Le videocamere! Credi che potremmo mettere mano sulle riprese in cui Amanda digita il codice?»
«Posto che conservino le registrazioni così a lungo, come faremmo a trovare quella giusta?»
Jason si accigliò. «Be’, ci sarà un codice di sblocco. Il direttore deve pur essere in grado di entrare, no?»
«E come ce lo procuriamo?»
«Potresti flirtare un po’ con Delrick, per distrarlo mentre frugo sulla sua scrivania», suggerì lui.
«Magari è gay, così il piacere spetta a te», ribattei. «In ogni caso, dopo aver fatto i piccioncini, non saremmo molto credibili.»
«Sì, okay, sto solo pensando ad alta voce.» Guardò la fila di porte. «Il nostro deposito si trova sullo stesso lato di quello di Amanda. E se sfondassimo le pareti?»
«Vuoi davvero creare un tunnel attraverso diciassette depositi?» Jason cominciava a dare segni di frustrazione, ma io proseguii. «Inoltre, Delrick ha detto che l’allarme è collegato a un sensore di movimento. Ciò significa che viene innescato da qualsiasi movimento all’interno, non solo dall’apertura della porta.»
«Be’, allora, mi sa che è il caso di lasciar perdere!» sbottò Jason. «A meno che tu non abbia un’idea brillante.»
«Forse ce l’ho. Aspetta un attimo.» Aprii la borsa e gli passai la trancia, che mi ostacolava nella ricerca della mia trousse nera. «Andiamo a dare un’occhiata.»
Percorremmo il corridoio silenzioso fino al deposito 302 e sbirciammo il tastierino numerico. Jason allungò la mano per toccarlo.
«No!» urlai, tirandogli uno schiaffo sulle dita. Aprii la trousse e tirai fuori un fard che avevo sbriciolato tanto tempo prima facendolo cadere sul pavimento di un bagno. Era di una marca costosa, e io avevo raccolto con cura la polvere rosa luccicante per rimetterla nel suo astuccio e da allora mi portavo dietro un pennello extramorbido che non ne catturava troppa in una volta sola. Lo presi e lo intinsi delicatamente nel fard, poi lo scossi per rimuovere le particelle in eccesso e lo passai sul tastierino. Mi sporsi in avanti e soffiai piano. «Guarda.» La polverina era per lo più volata via, a parte qualche granello in corrispondenza di tre tasti: il 2, il 6 e l’8. Erano quelli che le dita avevano premuto ripetutamente, lasciando strati di impronte.
«Okay, fantastico», disse Jason. «Ma abbiamo un problema. È un codice a quattro cifre.»
«Ha ripetuto un numero.»
«Quale?»
Socchiusi gli occhi e guardai più da vicino. Una delle impronte era molto più scura delle altre due. «A occhio, direi che è l’otto…»
«Due-sei-otto-otto.»
«Oppure due-otto-sei-otto, o anche otto-due-sei-otto, o…»
«Come facciamo a sapere qual è quella giusta? Non possiamo procedere per eliminazione, perché scatterebbe l’allarme. E chissà quante combinazioni si possono ottenere con quattro numeri…»
«Dodici», lo interruppi. Avevo scarabocchiato qualcosa sul retro di uno scontrino trovato in borsa.
Jason sbirciò sopra la mia spalla. «Che cosa sono, numeri fattoriali? È matematica di prima superiore. Ricordi il corso della Farber?»
«No, scemo. Bigiavo sempre.» Guardai le combinazioni di quattro numeri e riflettei. Mi ricordai di quando io e Amanda avevamo esaminato i dati di Carl su Runnr alla ricerca di un modello e poi avevamo capito che guardava Il trono di spade. Qual era stavolta il modello? Cosa avrebbe scelto Amanda, e perché? «Scommetto che è una parola.»
«Oppure è totalmente casuale, salvata su una app per la protezione delle password.»
Mi venne in mente che la sera che l’avevo conosciuta Amanda aveva scritto il mio numero di telefono su un tovagliolo. «La conosci. Non usa neppure i social media. Non si fiderebbe mai di un programma del genere. Scommetto che invece si tratta di una parola facile da ricordare.»
«Quindi i numeri corrisponderebbero a lettere?» Jason si accigliò e guardò il soffitto. «Se due è B, sei è F e otto è H, abbiamo B, F, H, H. Che parole formano queste lettere?»
«Nessuna», risposi. «Prendi il telefono.»
Lui estrasse il cellulare, visualizzò la tastiera e io indicai le letterine sotto ogni numero.
«La tastiera del telefono? Ci vorrà un secolo», protestò Jason. Con dodici serie da quattro numeri, ognuno dei quali potrebbe corrispondere a tre lettere diverse… quante sono le combinazioni possibili?»
Scrollai le spalle. «Ricordo così poco delle lezioni della Farber da non poter neanche tirare a indovinare. Quindi è meglio darsi una mossa.»
Tornammo al nostro deposito e io trovai un foglietto di carta per Jason, pensando che a volte era utile essere una donna con una grossa borsa disordinata. Divisi a metà la lista delle dodici combinazioni possibili e ne diedi sei a Jason.
«Ci metteremo una vita», si lamentò lui.
Gli passai una penna e tirai fuori un eyeliner per scrivere. «Per fortuna, non ci saranno poi così tante combinazioni di lettere che formano parole di senso compiuto.»
Ce n’erano ancora meno di quanto pensassi, ma Jason aveva ragione, il lavoro procedeva a rilento. Un’ora dopo, avevamo trovato le parole seguenti:
TUBO, AUTO, ATTO, UNTA, MUTA
«Tu che sai tutto, qual è quella giusta?» disse Jason.
«Ah ah.» Guardai di nuovo la lista, poi fissai i tasti del telefono, sbattendo le palpebre. Cominciai a sentire una sensazione di gelo in fondo allo stomaco. Era assurdo, ma all’improvviso trovai la risposta. «Prova sei-due-otto-otto.»
«Perché?»
«È un’intuizione. Digita.»
«Prima dimmi la parola.»
«Senti, o è giusta o no. Ma quella lista non ci aiuterà in ogni caso. Digita e basta, altrimenti rimaniamo qui tutto il giorno.»
«A te l’onore.»
Feci un respiro profondo e mi avvicinai al tastierino. Rimasi con le dita sospese sui tre tasti sporchi, in attesa di sentirli emanare un calore speciale, una conferma. Poi digitai il codice e arretrai.
La luce rossa divenne verde e si udì un lieve ma soddisfacente clic. Quando abbassai la maniglia, la luce del deposito di Amanda si accese.
Io e Jason, dopo essere rimasti a fissare la stanza per un attimo, ci mettemmo a gridare e a fare i salti di gioia. Lui si chinò e mi abbracciò forte, sollevandomi e rimettendomi giù. «Qual è la password?»
«Matt», risposi, improvvisamente seria.
«Pensi a mio fratello?» Lui si incupì un attimo, poi si riprese. «Dana, il mondo è pieno di Matt.»
Aveva ragione, però solo uno di loro era il terzo nome del mio elenco, l’ombra che incombeva sul mio rapporto con Jason e la chiave del patto stretto con Amanda. Cercai di ignorare la coincidenza. «Forse qui dentro scopriremo qualcosa di più sul Matt di Amanda. Vediamo cosa c’è.»
Entrammo, ci infilammo fra due alte pile di scatoloni e chiudemmo la porta alle nostre spalle. La serratura scattò. La luce si spense. D’un tratto fu buio pesto.