7.

«Non se ne parla.» Guardai disgustata il grembiule rosso con dei flaconi di detersivo nella tasca abbandonato sul divano di Amanda. «Mi avevi detto che avrei fatto una consegna. Non avevi parlato di pulizie.»

«È l’unico servizio di Runnr che Doug utilizza regolarmente!» protestò lei. «Immagina di interpretare un ruolo.»

«Non faccio mai la donna delle pulizie.» Uno dei motivi per cui avevo dato un taglio alle audizioni anni prima di lasciare Los Angeles era che mi ero stufata di presentarmi come spalla del mio migliore amico per poi essere selezionata per la parte della donna delle pulizie.

«È solo un costume», insistette Amanda, con aria sinceramente sconcertata. «E non lo terrai a lungo. Appena sarai entrata…»

«Sì, lo so, lo so.» Trassi un profondo respiro e ricordai a me stessa che ero finalista per ottenere il titolo di Persona più spiritosa di Austin. «Su, dammelo e falla finita.»

Lei infilò il grembiule in un sacchetto della spesa, io lo presi, me lo ficcai sotto un braccio e me ne andai, diretta alla mia auto.

Appena fui a casa, lo indossai immediatamente per togliermi il pensiero, costringendomi a guardarmi allo specchio. Il grembiule rosso della Runnr mi invecchiava di dieci anni, e i flaconi di detersivo semivuoti nella tasca davanti mi curvavano le spalle. Pensai a mia madre, che ogni giorno correva al lavoro ticchettando impettita sui suoi tacchi. Persino quando aveva perso il posto di segretaria alla fabbrica dell’elio, si era rifiutata di tornare a fare le pulizie nelle case private, l’unico impiego che avesse trovato al suo arrivo in Texas. «Non pulisco più la merda degli altri», continuava a ripetere. «Né la tua né quella di tuo padre né quella di nessun altro.» Drizzai la schiena, sentendo tirare le spalline del grembiule. Riesumai un vecchio trucco da corso di teatro, inventando un passo speciale per il personaggio. Alla fine, però, ripiegai in modo abbastanza naturale su un’andatura ciondolante, per evitare che il liquido delle bottiglie che sbattevano tra loro sciaguattasse in modo eccessivo. “Idea per episodio pilota”, pensai, ma lasciai subito perdere: troppo deprimente.

Controllai il telefono per dare un’occhiata alla mia app. Per un lavoro settimanale come quello, mi aveva spiegato Amanda, Branchik riceveva di volta in volta una notifica sul cellulare. Prima che la app registrasse il servizio, il cliente doveva dare la sua approvazione. Il fatto che gli operatori non fossero mai gli stessi rientrava nella filosofia aziendale. In tal modo, si preveniva l’instaurazione di un rapporto di fiducia fra utente e lavoratore, che avrebbe reso superfluo l’intermediario.

«La filosofia di Runnr si basa sulla sostituibilità della forza lavoro», aveva detto Amanda; poi, vedendo la mia espressione perplessa, si era premurata di aggiungere: «Prezzo, velocità e qualità sono le uniche variabili che contano per l’algoritmo. Secondo Runnr, la familiarità aumenta l’inflazione dei prezzi e la tolleranza per gli errori. Cominci a conoscere una persona, il nome dei suoi figli e all’improvviso diventa un essere umano. Un cliente di Runnr deve poter chiedere l’aiuto di un suo simile sull’onda di un impulso improvviso, come se fosse, che ne so, uno spuntino, senza preoccuparsi di cose del genere».

In quel momento arrivò la notifica. Sullo schermo comparve la scritta ABBIAMO UN LAVORO PER TE! accompagnata da una cascata di coriandoli. Selezionai DETTAGLI e vidi l’indirizzo di Branchik, insieme alle istruzioni per le pulizie; bagno, cucina, lavanderia: tutte le caselle erano state spuntate. In fondo al display, il compenso generato dal programma di Amanda affinché io ottenessi la commissione: 16,79 dollari.

Incredibile. Se l’avessi dovuto fare per davvero, il mio guadagno sarebbe bastato a malapena a pagare il biglietto dell’autobus. Purtroppo, utilizzare i mezzi pubblici era fondamentale per la buona riuscita del piano, perché quel giorno la mia auto non doveva essere avvistata in centro. Selezionai ACCETTA e uscii rapidamente di casa.

L’autobus arrivò alla fermata vicino a casa mia con dieci minuti di ritardo. Quando salii a bordo, ero già sudata fradicia, ridicolmente vistosa nella mia uniforme e al tempo stesso invisibile, mi resi conto con rabbia. Arrivata davanti alla porta di Branchik, digitai il codice che avevo ricevuto sulla app. Mi ero già stancata di tutta quella faccenda.

Poi, però, vedendo l’appartamento mi sentii di nuovo ispirata. E dire che pensavo di essere disordinata! Il pavimento di Branchik era pieno zeppo di vestiti sporchi e contenitori di cibo da asporto vuoti. Una bottiglia di succo di frutta giaceva sul divano grigio accanto a una macchia verdastra. Sparse sulla moquette e appese alla macchina ellittica in un angolo del salotto c’erano diverse paia di boxer da uomo. E questo era il lavoro che secondo Branchik una persona senza volto avrebbe dovuto fare per 16 dollari e 79? Mentre osservavo la scena, fui colta da un furore incontenibile. Gliel’avrei data io, «la forza lavoro sostituibile». Attraversai lo squallido soggiorno e aprii le tende per lanciare una rapida occhiata al balcone di Amanda – lei era di guardia –, quindi mi tolsi il grembiule e lo gettai in un angolo con una pedata. Infine, mi spogliai completamente nuda, recuperai la parrucca bionda da una tasca del grembiule e la sistemai sulla retina dei capelli. Era il momento dei primi piani. Con la sola parrucca in testa, misi la fotocamera del telefono in modalità selfie e cominciai a scattare foto.

La parrucca apparteneva a Ruby, a cui avevo detto che mi serviva per lo spettacolo. Lei ne aveva un ripostiglio pieno; quella era un cimelio che risaliva ai tempi in cui cercava di assomigliare a Betty Grable – un tentativo miseramente fallito, dato che i riccioli platino tendevano ad afflosciarsi –, perfetto per i miei scopi. L’obiettivo non era apparire naturale (che cosa poteva esserci di naturale in quel biondo radioattivo per una con la pelle olivastra?), ma solo nascondere il viso per evitare eventuali inquadrature imprudenti.

Più trash era e meglio era. Quando l’ebbi indossata, la mia nudità divenne un costume molto più vistoso di un completo di lingerie da feticisti o di un paio di tacchi da spogliarellista. Come la maggior parte delle comiche che non portavano la 38, avevo un arsenale di battute sul mio corpo, ma via via che scattavo selfie cominciai ad apprezzarne la fotogenicità. La ragazza che vidi nelle foto era sexy – una troia pazzesca! –, le curve generose formavano ondulati paesaggi pornografici e i ciuffi biondi sintetici risaltavano sui capezzoli scuri. Era esilarante.

Così esilarante che per poco non dimenticai quello che stavo facendo. Dovevano essere foto incriminanti. L’arredamento dell’appartamento aziendale era impersonale, e persino il disordine era perlopiù anonimo, come quello che si lascerebbe in una stanza d’albergo. Nella speranza di inquadrare sullo sfondo un paio di boxer riconoscibili, mi rotolai in mezzo alla biancheria sporca, un altro gesto che con i vestiti addosso mi sarebbe sembrato indicibilmente disgustoso, ma che la nuda Betty sembrò apprezzare moltissimo. Però non bastava. Doveva capirsi in modo inequivocabile che mi trovavo nell’appartamento di Branchik. Mi alzai, mi tolsi le briciole di un pasto da scapolo dalla schiena e andai in camera da letto.

Perfetto.

Sul comodino accanto al letto c’era una foto di matrimonio in cornice. Era stata scattata al tramonto, su una spiaggia scintillante con un filtro Instagram opaco; la sposa indossava un aderente vestito di pizzo a balze, stile hippie, con il velo fissato da una coroncina di fiori; aveva i denti più bianchi che avessi mai visto in vita mia. Anche se rideva scompostamente, come se fosse stata fotografata a sua insaputa, aveva un non so che di rigido, una luce ansiosa e maniacale negli occhi. Sapendo quello che sapevo del marito, in altre circostanze avrei provato un po’ di compassione per lei ma, con la vistosa parrucca di Betty in testa, mi scappò da ridere. In ogni caso, era un dettaglio perfetto da inserire sullo sfondo. Mi buttai sul letto e cominciai a scattare selfie da angolazioni virtuosistiche, inquadrando i miei enormi seni molto da vicino e facendo una torsione per immortalarmi il culo fra le lenzuola. Mi piegai su me stessa per fotografarmi in mezzo alle gambe, sperimentando scorci sempre più espliciti, attenta a mantenere ben visibile il ritratto della signora Branchik che rideva a crepapelle.

Ero talmente presa dal compito che quando arrivò il primo messaggio esitai a distogliere lo sguardo dalla mia immagine per leggerlo.

L’auto di D.B. è nel garage, esci.

Sta entrando nell’atrio, esci SUBITO.

È sull’ascensore, ESCI IMMEDIATAMENTE!!!

Corsi a prendere i vestiti in salotto, afferrai i jeans e feci per indossarli. Ero riuscita a infilare una gamba quando udii uno scampanellio proveniente dal corridoio: l’ascensore. Inciampai nel tentativo di infilare l’altra gamba e finii per stendermi di schiena sul pavimento. Mentre mi mettevo con foga la maglietta senza reggiseno e il grembiule, annodando il laccio dietro la schiena, sentii uno scricchiolio di passi diretti alla porta e subito dopo il tintinnio metallico di un portachiavi, seguito dallo scatto di una chiave elettronica. Ficcai il reggiseno nella tasca dei detersivi. Un attimo prima che la porta si aprisse, ricordai di avere la parrucca in testa e me la tolsi. Nella tasca non c’era più spazio, perciò la cacciai nella maglietta.

Senza aspettare di vedere bene in faccia Branchik, cominciai a urlare indignata in spagnolo, ispirandomi alle scenate che la mamma mi faceva tanto tempo prima per le condizioni della mia stanza: «¡Sucio, sucio! ¡Es muy sucio!» Presi a camminare avanti e indietro, agitando convulsamente le braccia verso la roba sparpagliata a terra, la valanga di contenitori di cibo da asporto sul tavolo e la sporcizia generale. Lui cominciò a protestare, ma io alzai la voce: «¡No habla ingles! ¡Sucio!». Quando Branchik fece alcuni passi nella stanza, lasciando libera la porta d’ingresso, lo superai di corsa e uscii impettita dall’appartamento, senza guardarmi alle spalle, con i flaconi che sbatacchiavano contro le cosce. La porta dell’ascensore era ancora aperta, grazie a Dio! Mi ci infilai e schiacciai il bottone, sperando con tutte le mie forze che Branchik non fosse talmente turbato dal pessimo servizio di Runnr da prendersi la briga di rincorrermi, facendo le scale. Per l’occasione avevo esaurito tutto il mio repertorio di spagnolo.

Amanda scoppiò a ridere come una pazza.

«Non è affatto divertente!» ribattei io con il fiatone, a malapena in grado di parlare. Mi trovavo nel suo appartamento, con le mani tremanti e i capelli impiastricciati di sudore. Appena ero uscita dal palazzo di Branchik, mi ero strappata il grembiule di dosso, i muscoli delle gambe contratti per lo sforzo di attraversare la strada e salire da lei senza attirare l’attenzione. Una volta arrivata di sopra, al sicuro, mi ero appoggiata alla porta d’ingresso, il più lontano possibile dalle finestre, cercando di calmare il battito cardiaco. «Non c’è niente…» Mi interruppi, ritrovandomi a ridere e a singhiozzare al tempo stesso. Un attimo dopo mi cedettero le gambe e, senza smettere di ridere, scivolai contro la parete. «Non c’è proprio niente da ridere!» Seduta a terra, feci un respiro profondo, sentendo le lacrime scivolare dagli angoli degli occhi. «Per poco non mi ha beccato!»

«Hai ragione, non c’è niente da ridere», convenne Amanda, ricomponendosi un attimo per poi tornare a sbellicarsi. «Non sto scherzando, ti ho sentita da qui urlare: “¡No habla ingles!”.» Un altro sbotto di risa.

«Ehi.» Ripresi fiato e mi asciugai gli occhi. «È stata un’improvvisazione da urlo, probabilmente, la migliore della mia vita. A quanto pare, il segreto del successo è farsela addosso dalla paura.» Mi trascinai a quattro zampe e, senza neppure fare lo sforzo di alzarmi per sedermi sul divano, mi accoccolai sul tappeto, ai piedi di Amanda.

«Hai rischiato più del dovuto», ammise lei. «A proposito, cosa stavi combinando?»

«Mi sa che mi sono fatta prendere un po’ la mano. Ecco qui.» Le passai il telefono per mostrarle le foto.

Mentre le faceva scorrere, cominciò a squittire. «Oh, mio Dio, sono fantastiche! Sei bravissima.» Abbassò il cellulare e mi guardò. «Hai un talento naturale per il sexting, amica mia.»

«Ho imparato sul campo.»

«Dovresti prendere in considerazione l’ipotesi di lavorare per Pornhub.» Amanda tornò a fissare lo schermo. «Come sei riuscita a inquadrare sempre così bene la foto sullo sfondo? La profondità di campo sembra quella di un film di Ozu.» Socchiuse gli occhi. «Anche nei… primi piani... ci sono molti dettagli.»

«Guarda meglio. Secondo me, riesci a vedermi le tonsille.»

Ora che l’adrenalina cominciava a scemare, fui travolta da un’ondata di spossatezza. «Sarà meglio che funzioni, perché in quell’appartamento il mio DNA è ovunque.»

«Funzionerà», replicò Amanda. «Dopo questa esperienza, gli passerà la voglia di chiamare un detective privato o la polizia. E di sicuro…» aggiunse, sorridendo, «non chiamerà un’altra donna delle pulizie.»

«E se avesse telefonato a Runnr per lamentarsi?» domandai. «Non gli ho fornito esattamente un servizio a cinque stelle. Ed è l’azienda per cui lavora.»

«Ecco perché non lo farà. È il sistema che dovrebbe provvedere a eliminare le mele marce. Se la app dice che sei una colf a cinque stelle, lo sei, punto e basta. Branchik è quello che si è opposto più strenuamente ai controlli sui trascorsi dei lavoratori.» Amanda corrugò la fronte. «Magari cercherà di controllare da solo, ma è troppo stupido per combinare qualcosa. Credimi, entro la fine di questa giornata, il pessimo servizio di pulizie sarà l’ultima delle sue preoccupazioni. Si metterà in ginocchio a lavare per terra, eliminando le prove compromettenti per noi.»

Sbuffai. «Sarebbe la prima volta in vita sua…»

«Lo hai cambiato profondamente. Brenna dovrebbe mandarti un cesto di frutta fresca.»

«Chi?»

Amanda, però, aveva già sollevato il computer portatile dal tavolino, collegando il mio cellulare con un cavetto per mettersi al lavoro. Io mi appoggiai alla sua gamba e vidi che stava caricando alcune delle foto migliori sulla bacheca dei commenti di un blog intitolato Da bella ragazza californiana a mamma di Austin. Il banner mostrava un test di gravidanza vicino a un vaso pieno di fiori di campo del Texas. «Brenna Branchik», rispose, senza smettere di digitare. «E dire che hai visto la foto di matrimonio.»

«Mamma di Austin? Quindi lei è…»

«Sì, è incinta», disse lei. «E si annoia a morte. Scegliere mobili per la casa affacciata su Lake Travis di sicuro non basta a tenerla occupata. Passa le sue giornate alla SPA, a fare scorpacciate supercostose e a prendere lezioni di yoga.» Era ancora concentrata sulle foto. «Il Bikram la rende particolarmente ciarliera. È stato dopo una lezione che mi ha raccontato del suo blog.»

«Hai parlato con lei?» Ero un po’ allarmata. «Hai finto di essere sua amica?»

«Le lezioni di yoga sono aperte a tutti», ribatté Amanda senza scomporsi. «Non è che le abbia mentito. Certa gente ha così tanta voglia di parlare di sé da dirti subito tutto quello che ti serve sapere. Non hai neanche bisogno di chiedere. A maggior ragione una persona sola come Brenna Branchik.» Sorrise. «Il suo blog per ora ha undici follower.»

«E tu sei una di loro.» Ero profondamente a disagio. Lessi quello che stava scrivendo sotto le foto: «Il nostro giochetto: lui mi fa vedere il suo, io gli faccio vedere la mia». Il suo username era Homewrecker, «Rovinafamiglie». Commentai: «Un po’ troppo esplicito, non ti pare?».

«Tranquilla, uso un falso indirizzo IP», spiegò lei allegramente. «In ogni caso, sono certa che Brenna sia già al corrente del vizietto di Doug. Usa un mucchio di integratori naturali e gemme curative. Automedicazione.»

«Se conosce le abitudini del marito, perché… facciamo scoppiare la bomba?» Indicai lo schermo con la mano. Anzi, perché Amanda non mi aveva detto che il piano prevedeva anche questo?

«Brenna è molto preoccupata per il futuro della nascitura.» Con uno svolazzo della mano finì di digitare sul computer. «Dobbiamo sfruttare questo punto debole.»

«Eh? Non le facciamo del male, vero?»

«No, Dana.» Sospirò spazientita. Per la prima volta, distolse gli occhi dallo schermo per guardarmi in faccia. «Non avrebbe senso. Gli uomini sono come cani: quando si comportano male, arrotoli il giornale e gli dai un colpetto sul naso. È l’unico segnale che comprendono e a cui reagiscono. Le donne, invece, si abituano sin da piccole a sopportare ogni genere di violenza. Per tutta la vita cercano di imparare a non reagire. Tu dovresti saperlo molto bene.» Sussultai. «Insomma, non basta un colpetto sul naso per turbare una come Brenna. Devi trovare qualcosa a cui tiene davvero.»

«Ma lei… non ha fatto niente!»

«Esatto.» Amanda sollevò le mani in un gesto di esasperazione. «Lei non fa proprio un bel niente. Basta guardarla in faccia per capire che sa benissimo che il marito molesta le donne, eppure non le importa. Gli permette di continuare a rovinare la vita degli altri. Non ha chiesto il divorzio, non l’ha denunciato. Si limita ad andare alla SPA a farsi fare un trattamento di ringiovanimento vulvare.» Alzò gli occhi al cielo. «Okay, va bene, adesso calmati. Ci serviremo di lei per colpire suo marito, ma non le torceremo un solo capello della messa in piega, te lo prometto. E di sicuro non faremo del male al feto.»

«Come ci serviremo di lei?»

«Be’, innanzitutto, bisogna assicurarsi che rimanga parecchio turbata», spiegò Amanda, scostandosi dal viso un ricciolo ribelle. «A quest’ora starà finendo la lezione di spinning e vorrà parlarne sul suo blog. Appena vedrà questa roba, andrà su tutte le furie e comincerà a mandargli messaggini di ultimatum. Lui controllerà l’indirizzo IP, che lo rimbalzerà più volte, fino a reindirizzarlo dritto alla St. Catherine’s.»

Mi limitai a guardarla.

«Sì, la St. Catherine’s School, altrimenti nota come la Exeter di Westlake, cioè la scuola per ragazze fra i tre e i quattordici anni più esclusiva di Austin.» Amanda pareva divertita. «Brenna Branchik ha già messo la sua tesoruccia non ancora nata in lista d’attesa. Il falso IP appartiene al dormitorio scolastico, dove alloggiano le ragazzine. Tutte minorenni, naturalmente.»

Cominciavo ad afferrare e a sorridere mio malgrado.

«Insomma, una scolaretta cattolica ha mandato materiale pedopornografico a sua moglie dalle sacre mura della scuola dove iscriveranno la figlia. E se Brenna lo venisse a sapere…» Sogghignò. «Diciamo solo che lui farà di tutto affinché se ne dimentichi. Le prometterà la luna e le stelle. In un certo senso, quella donna ci dovrà un favore.»

«Se si scambiasse foto oscene con delle ragazzine, lo saprebbe…»

«Non è affatto detto. Quel genere di uomini getta un’ampia rete su Tinder e Snapchat. E se una delle sue prede dovesse rivelarsi una dolce quattordicenne che è felice di ricambiare?»

«Non sembro una quattordicenne», dissi indignata. La mia preoccupazione per Brenna Branchik era svanita del tutto.

Amanda scrollò le spalle. «Oggigiorno le bambine crescono in fretta.»

Avevo ancora un tarlo in testa. «Se l’unica cosa che conta è l’indirizzo IP, perché non ti sei limitata a postare le foto del suo cazzo che avevi già?»

«Visto che me ne sono servita per presentare una denuncia ufficiale, credo proprio che le avrebbe riconosciute.» Indicò lo schermo. «In ogni caso, così è molto meglio, non credi? La foto del matrimonio è la prova incontrovertibile del fatto che sei stata a casa sua. Di recente. Chissà che scusa si inventerà per giustificare un incidente del genere.»

Lo stesso valeva per me, se per caso fossi stata scoperta. Eppure l’ebbrezza di poco prima non era completamente svanita: entrare in casa di Branchik, commettere un crimine, scattare foto indecenti senza volto, persino il terrore di essere stata quasi colta sul fatto.

Amanda continuò. «Inoltre, lui sa che potresti entrare in casa sua in qualsiasi momento. Certo, non sono così ingenua da pensare che smetterà di mandare autoscatti, ma voglio che l’idea lo spaventi. Voglio che abbia paura dei suoi stessi desideri.»