8.

La settimana prima della serata delle finali del concorso per la Persona più spiritosa di Austin fu relativamente tranquilla. Ero ancora troppo su di giri, dopo l’incursione a casa di Branchik, per seguire con attenzione il resto delle semifinali, ma ero stata felice di apprendere che anche Kim aveva passato il turno. Come Fash, ovviamente.

Sapevo che avrei dovuto essere stressata, se non altro perché mi sarei presentata proponendo gli stessi cinque minuti di show per la terza volta consecutiva. Lo facevano in molti, ma c’era qualcosa di scoraggiante nella prospettiva di propinare il medesimo materiale ai giudici di gara, soprattutto se una di loro era Cynthia Omari. Il Bestie Cast aveva cinquecentomila follower e trasmetteva interviste a comici che altrimenti sarebbero stati condannati a interpretare ruoli di quint’ordine in commedie hollywoodiane di serie B; il podcast aveva persino lanciato la carriera di alcuni di loro. Avrei voluto mostrare alla Omari qualcosa di più entusiasmante del solito monologo, ma ero arrivata a un’impasse creativa, e non aveva senso cercare di affinare battute che non avevo ritenuto idonee nemmeno per superare le fasi preliminari.

Eppure ero stranamente placida e sapevo che questo probabilmente aveva a che fare con il colpo a casa di Branchik. Dopo la scarica di adrenalina e il successivo sfinimento, mi ero sentita rinvigorita, come se fossi andata in palestra e avessi consumato un pasto molto abbondante ma sano.

All’inizio, non senza una certa apprensione, mi ero aspettata delle ripercussioni, anche se Amanda aveva cancellato all’istante il mio account su Runnr, eliminando i metadati in modo che non rimanessero tracce. Mi aveva anche convinto del fatto che Branchik non poteva assolutamente vederci dal suo appartamento, cosa che avevo verificato di persona. Eppure, quando ci sedevamo sul balcone a bere vino, non ero affatto a mio agio.

Di lì a pochi giorni, però, Branchik aveva lasciato l’appartamento e, caricati alcuni scatoloni su un furgone a noleggio, se n’era andato.

«A quanto pare, qualcuno si sta trasferendo in collina, così la sua cara moglie potrà tenerlo d’occhio», disse Amanda con soddisfazione. «Mi sa che per un po’ lascerà perdere il vizietto della fotografia.»

La sua partenza mi rincuorò, e non solo perché così era molto più rilassante uscire sul balcone. Come quando Neely era tornato a Los Angeles, provavo l’appagante sensazione di aver cacciato un intruso dal nostro territorio e di potermi allargare. Di nuovo, mi ritrovai a chiedermi se Amanda avesse cercato di proposito un alloggio vicino a quello di Branchik, anche se ormai non mi pareva più una scelta tanto assurda. In fin dei conti, perché lui doveva sentirsi libero di andare dove gli pareva e lei, invece, era costretta a evitarlo? Era venuta a Austin rivendicando i suoi diritti, e il fatto che lui si trovasse già lì non cambiava nulla. Quello sì che era vivere, non sopravvivere.

Avevo provato un brivido di eccitazione quando mi ero intrufolata nell’appartamento di Branchik e, con la parrucca di Betty in testa, avevo sparso i miei umori come una cagna in calore nel suo spazio. Ricordavo ciò che aveva detto Ruby sul fatto che le parrucche cambiavano la personalità e che per questo lei evitava di indossare quelle «cattive». Pensavo che potesse succedere solo a una come Ruby, ma la parrucca di Betty non mi aveva forse trasformato? O, quantomeno, mi aveva permesso di esprimere una parte di me stessa di cui fino ad allora non ero a conoscenza.

Una sera di quella settimana tornai a casa leggermente sbronza dopo una visita ad Amanda e, prima di andare a letto, mi misi la parrucca di Betty e mi guardai allo specchio per vedere come mi stava. Con i vestiti addosso, Betty era una ragazza insignificante dai capelli biondo platino, bassina e abbronzata, non proprio il massimo della classe ma se non altro rilassata. Sembrava una persona semplice, simpatica e non troppo intelligente. Per nulla minacciosa. Una che non doveva fare tanti sforzi per sorridere né preoccuparsi che la gente la trovasse ombrosa, se per caso era taciturna, o aggressiva, se alzava la voce. Se in fila da Starbucks si fosse messa a guardare il telefonino, il barista avrebbe solo pensato che stesse dando un’occhiata a delle foto su Instagram, non certo che fosse maleducata. Nei giorni liberi poteva urlare quanto le pareva, persino ubriacarsi e gettare una lattina di birra in strada. La gente l’avrebbe vista semplicemente come una ragazza bianca che aveva bevuto troppo. Ma quant’era carina? Il tipo di ragazza tenera e vivace che gli uomini trattavano come un cucciolo da caricarsi sulle spalle per gioco e da incitare, quando era sbronza, dicendole: «All’attacco, tigre!».

Mi premurai di mettere la parrucca in borsa in modo da portarla al negozio. Avevo promesso a Ruby che gliel’avrei restituita, ma chissà perché continuava a passarmi di mente. L’idea di separarmene mi intristiva leggermente, come se dovessi restituire un po’ del territorio conquistato. Cominciai a domandarmi se tra me e Amanda fosse finita lì. La sua lista era lunga, aveva detto. Anche la mia.

«All’attacco, tigre», dissi, rivolta a Betty.

La sera delle finali rimasi al bar del Bat City a guardare Kim su uno schermo.

«Fai terra bruciata», le avevo detto abbracciandola in fretta mentre usciva.

Se la stava cavando alla grande: la sua parlata lenta e strascicata era più vivace del solito. Il pubblico seguiva attentissimo ogni minimo dettaglio del monologo decisamente triste e impazziva tutte le volte che lei faceva la sua imitazione inespressiva di un orgasmo maschile.

Sentendo odore di fumo stantio, mi girai e vidi Fash – che sarebbe salito sul palco subito dopo – in piedi accanto a me. Anche lui stava guardando lo schermo.

«Osservala bene. Stasera è lei che dovrai battere.»

«Che dovrò sbattere, vorrai dire», replicò lui con un ghigno.

Simulai un conato di vomito. «Potresti tenerteli per te, i tuoi pensieri del cazzo?»

«Ah, scusa, non ti avevo notato.» Sorrise sotto i baffi, girandosi verso di me. «Sei così bassa…»

«E tu così coglione! Ma purtroppo ti sento lo stesso.»

«Che peperino!»

Alzai gli occhi al cielo.

«Gelosa? Non preoccuparti, posso sbattervi tutte e due insieme.» Risucchiò l’aria fra i denti. «Prometto che vi piacerà.»

Ora il pubblico stava applaudendo, e Kim si apprestava a scendere dal palco. Era arrivato il turno di Fash. Sotto le luci del bar notai la tonalità verdognola del suo incarnato e gli scoccai un ampio sorriso. «L’importante è divertirsi, giusto?» Mentre si avviava lungo il corridoio che portava al palco, Kim sbucò dalla porta a vento sul lato opposto. Le battei un cinque; poi, però, mentre seguivamo il numero di Fash dallo schermo, ci incupimmo un po’. Quella sera era in forma, non si poteva negare, e io sarei entrata in scena subito dopo.

Sentendomi leggermente pallida anch’io, andai in bagno per rifarmi il trucco. Appena entrata, mi accorsi di un ricciolo biondo che fuoriusciva dalla borsa, come un eloquente ciuffo di capelli che spuntava da un bidone della spazzatura in un episodio di Law & Order – Unità vittime speciali. Ero riuscita a portarmi la parrucca avanti e indietro da casa al lavoro senza mai restituirla a Ruby, e adesso era lì che allungava i suoi tentacoli oltre il bordo della borsa come un polpo che cerchi di fuggire da un acquario.

Tirai fuori la trousse e cercai la linguetta della cerniera della borsa per chiuderla. Non ci riuscii. Mi balenò la folle idea che la parrucca fosse viva e avesse bisogno di respirare. La presi e la scrollai. Le ciocche bionde luccicavano davanti allo specchio. Le lisciai contro il petto, poi cercai le forcine che tenevo nella tasca interna della borsa. Mi sistemai in testa la cuffia elastica e agitai i capelli sintetici sulle spalle, come avevo fatto davanti allo specchio di casa. Sotto i neon sembravano ancora più artificiali, ma non era certo un problema: sul palco è tutto finto, persino le cose vere.

Uscii dal bagno con la parrucca di Betty in testa. Quando passai, Kim non si girò neppure a guardare; evidentemente ero irriconoscibile. L’andatura saltellante di Betty mi sospinse lungo il corridoio – dove salutai con un cenno del capo tutte le foto dei passati vincitori del concorso appese alla parete – verso il salone con i tavoli. In occasione delle finali, erano stati tolti i cordoncini che delimitavano la metà posteriore del locale. La porta a vento si aprì e, quando il presentatore pronunciò il mio nome, mi incamminai in mezzo alla folla. Salii sul palco e mi trovai di fronte al pubblico più numeroso che avessi mai visto in vita mia.

Portai la mano alla parrucca. Che cavolo stavo combinando? Non potevo fare la battuta iniziale su Amarillo con un opossum biondo abbarbicato alla testa, ma non avevo preparato nient’altro. Mi schiarii la voce e aprii la bocca. «Mi chiamo Betty», dissi in tono da soprano. «Che emozione trovarmi qui!» Respirai rumorosamente nel microfono, gli occhi a palla, spiritati. «Devo parlarvi di questo grand’uomo a cui ho appena tirato un pugno in faccia.»

Seguì una pausa confusa e poi una secca risata proveniente dal pubblico.

«So cosa state pensando. Tutte le volte che Betty tira un pugno a un uomo, è convinta che sia “quello giusto”. Ma cosa volete che vi dica?» Mi interruppi e risucchiai lentamente l’aria fra i denti, emettendo un suono liquido nel microfono. «Fra noi c’era un’intesa magnifica.»

D’un tratto, calò il silenzio: il pubblico aveva capito che sul palco stava succedendo qualcosa di strano e imbarazzante. Di solito, quella reazione mi avrebbe spinto ad alzare la voce, a gesticolare in modo esagerato per riempire lo spazio, tagliando magari le altre battute dello spettacolo. Ma questo non era uno show. Avevo una storia da raccontare e non avrei tagliato un bel niente. Appena Betty avesse aperto bocca, non l’avrebbe più richiusa finché non avesse finito di dire tutto quello che aveva in mente di dire. Lo sapevano anche gli spettatori. Sentii scricchiolare le sedie, percepii la tensione della gente che voleva alzarsi e andarsene, ma questo non fece che aumentare il mio desiderio di tirare in lungo le cose. Con gli occhi sgranati, lasciai che il silenzio si trasformasse in un’enorme piscina vuota. L’ossigeno cominciava a scarseggiare, ma io rimasi lì. Lentamente, senza distogliere lo sguardo dal pubblico, girai la testa a destra e, sempre muta, mantenni la posizione per dieci lunghissimi secondi.

Un uomo in prima fila scoppiò a ridere fragorosamente. Io, rigida, avevo gli occhi sbarrati per lo sforzo di guardare a sinistra mentre tenevo la testa voltata verso destra. Un altro uomo ridacchiò, seguito da alcune donne. L’incantesimo si era spezzato. Rilassai gli occhi senza sbattere le palpebre; mossi leggermente le ciglia per segnalare che avevo la situazione in pugno. Un’ondata di sollievo percorse il pubblico. Qualcuno batté persino le mani.

«Volete sapere la mia storia?» chiesi, tenendo la faccia più ferma che potevo.

La risposta giunse sotto forma di applausi e acclamazioni.

Quello che seguì non fu esattamente uno spettacolo di cabaret, almeno nel senso in cui l’avevo sempre inteso. Fu piuttosto un esempio di arte performativa. Io non ne ero l’origine, ma solo il tramite. Mi sembrava di indossare una maschera e non avevo idea di quel che stavo per dire. Le parole che uscirono dalla maschera, accompagnate da grottesche contorsioni, non richiedevano né sforzo né premeditazione. Betty era un personaggio strano e inquietante; io ne ero tanto affascinata quanto il pubblico. Bionda, graziosa e brutta allo stesso tempo, era puro e terrificante inconscio, amorale, animalesca, un essere sottosviluppato, subumano, allo stato di natura. Costruiva orecchini con orecchie vere, beveva l’acqua del gabinetto. Era convinta che la manicure fosse una cura per uomini e la pedicure un aborto. Era di volta in volta petulante o sfacciata, volgare o graziosa, un miscuglio fra Baby Jane e Rhoda Penmark, la protagonista del Giglio nero.

Quando comparve la luce blu per avvisarmi che mancava un minuto alla fine dello spettacolo, tornai a parlare del pugno tirato a quell’uomo. Fu come sottomettere un grosso cane cattivo. Finché aveva un pubblico, Betty non voleva assolutamente smettere di parlare. Dovetti ricorrere a tutta la disciplina che avevo acquisito come donna di spettacolo per irreggimentare l’ultimo minuto in un crescendo finale. Alla fine, pronunciò una battuta che riconobbi all’istante come il suo tormentone, accompagnata da una gestualità che nei corsi di improvvisazione viene chiamata «lavoro sullo spazio»; armata di un invisibile coltellaccio da cucina, mimai l’atto di afferrare qualcosa al livello dell’inguine. «Così, alla fine, ho deciso di prendere in mano la situazione!»

Ci fu un’esplosione di applausi e acclamazioni; mi tolsi la parrucca dalla testa, avvicinai la bocca al microfono e dissi: «Grazie!». Poi scesi dal palco, felice di essere di nuovo io.

Avevo sempre detestato la cattiveria fine a sé stessa: i personaggi stronzi, gli insulti; mi disturbava persino l’eccessiva brutalità verso chi disturbava gli spettacoli. Se avessi letto il materiale su Betty nero su bianco, l’avrei detestato. Ma non importava. Quando spacchi, spacchi. E Betty spaccava.

«Il terzo classificato è… Kim Rinski!»

Kim, alla mia sinistra, cacciò un urlo e si mise a saltellare su e giù. Le strizzai la mano e le detti una pacca sulla schiena mentre usciva dalla fila di comici e, in bilico sulle sue zeppe, saliva le scale per andare a prendere la medaglia e un assegno da cinquecento dollari.

Trattenni il respiro. Dovevo essere fra i primi tre. E ora sapevo di non essere terza.

Dietro il presentatore, una donna con i tacchi alti e un abitino corto con le paillette, probabilmente un’impiegata del Bat City tirata a lucido che sperava a sua volta di sfondare come comica, teneva sollevate la tunica rossa e la corona del vincitore. Dal punto in cui mi trovavo, alla base del palco, spalla a spalla con gli altri dodici comici che si erano esibiti quella sera, la vidi calpestare il bordo della tunica con un tacco. Per assurdo, mi sentii responsabile di quello che sarebbe potuto succedere quando fosse stato annunciato il vincitore, come se fosse stata colpa mia se per caso, nel sollevare la tunica da sotto il piede, avesse regalato al pubblico una visione diretta delle sue parti intime.

«Rimani sul palco, Kim», disse il presentatore, facendole segno di sistemarsi a un lato. «Dopo il terzo classificato viene il secondo, e io credo che sarai d’accordo con noi che quest’anno si è meritata il titolo… Dana Diaz

Ancora intontita, mi lanciai sui gradini del palco, raggiunsi il microfono e lasciai che il presentatore mi mettesse al collo la medaglia, che si incuneò immediatamente fra i miei seni. Mentre la estraevo, quasi mi dimenticai di prendere l’assegno e fui invitata a tornare dal presentatore.

«Dana, non dimenticare il premio in soldi! Che piacere vedere come si sono piazzate bene le signore quest’anno, vero? E adesso arriva il momento più atteso…»

Terribilmente delusa, non avevo bisogno di ascoltare il seguito. Fissai l’assegno che avevo in mano. Millecinquecento dollari. Quando il presentatore pronunciò il nome del vincitore inevitabile e la folla si mise a strepitare, mi tenni occupata cercando con gli occhi la donna che teneva in mano la tunica, indicando le sue scarpe. Finalmente, afferrò il messaggio, guardò in basso e spostò il piede dal bordo del tessuto rosso. Appena avesse alzato le braccia per gettare la tunica della Persona più spiritosa di Austin sulle spalle di Fash, non sarebbe diventata lo zimbello di tutti. Almeno quello ero riuscita a impedirlo.

Non appena fui scesa dal palco, però, mi resi conto di essere arrivata seconda. Alcune persone mi misero in mano i loro biglietti da visita, dicendo: «Ha un agente?». «Ha un manager?» Sfoderai sorrisi ebeti e ringraziai tutti, poi vidi aprirsi un varco nella folla; stava arrivando un’alta donna nera con le treccine raccolte in una spessa coda di cavallo: il celebre volto aveva un che di surreale, un po’ come quello di Aaron Neely. Con un ampio sorriso sulle labbra, si chinò su di me per stringermi la mano.

«Ciao, Dana, sono Cynthia Omari», si presentò, anche se non era necessario. «Sei stata grande.»

Lei continuò a parlare e io a ringraziare balbettando.

«Sai una cosa, Dana? Al Bestie Cast siamo sempre in cerca di nuovi ospiti. Devo metterti in contatto con il mio produttore Larry per farti scritturare; comunque, mi piacerebbe moltissimo averti, prima o poi.»

«Adoro il Bestie Cast», fu tutto quel che riuscii a dire.

«Che gentile!» esclamò lei, guardando i lunghi tavoli della sala che si svuotavano rapidamente. «Mi sono divertita moltissimo, non so se mandare ad Aaron un biglietto di auguri di pronta guarigione o di ringraziamento.» Si piegò in avanti e mi bisbigliò all’orecchio: «A proposito, se fosse stato per me, avresti vinto. Comunque, sono davvero felice di averti conosciuta».

«Anch’io», replicai stupidamente. «Insomma, è stato un piacere.»

Poi, meraviglia delle meraviglie, anziché passarmi un biglietto da visita, mi mise in mano il suo telefono, con la pagina dei nuovi contatti aperta sullo schermo, e mi chiese di inserire il mio numero e il mio indirizzo e-mail. Quando glielo ebbi restituito, disse: «Bene. Presto sarai sul podcast. Adesso vai a festeggiare!». Girò sui tacchi e venne inghiottita dalla calca che circondava Fash.

Kim si avvicinò con un sorriso radioso, le guance rigate di lacrime e mascara, sempre più simile a Courtney Love. «Festa della vittoria al Chacha’s. Vengono tutti, sei dei nostri?» domandò. Dopo l’esortazione di Cynthia, non me la sentii di dire di no.

Da Chacha’s, una stamberga a pochi isolati dal Bat City, era sempre Natale. Per tutto l’anno il locale era addobbato con nastri argentati, campanelle di carta e datate ghirlande di luci intermittenti. Seduta in quel bagliore disorientante a bere un drink dopo l’altro offerto da fan e adulatori che avevano seguito l’allegra brigata, mi sbronzai abbastanza in fretta. Fash teneva banco, in un angolo vicino all’albero di Natale; con la corona dorata in testa e la tunica rossa con il bordo di finta pelliccia, sembrava una di quelle statuine di Babbo Natale retrò pubblicizzate sulla rivista «Parade» nel periodo delle vacanze invernali. Circondato da amici e da finalisti che ci tenevano a sembrare persone che sapevano perdere, brandiva lo scettro, una bacchetta Joy Toy piena di strass su cui era stata attaccata con del nastro adesivo una palla di vetro con un paesaggio di Austin e tanti pipistrelli neri al posto della neve. Ci fu un flash: un giornalista del «Chronicle» ci aveva seguiti al bar, forse nella speranza che i fumi dell’alcol lo ispirassero a scrivere qualcosa di diverso dalla solita critica annuale del concorso.

Ruby e Becca mi avevano fatto una sorpresa presentandosi al bar in rappresentanza di tutto il personale della cartoleria. Nessun collega era mai venuto a vedere un mio spettacolo.

Ruby, esultante nel suo abito verde dal vitino di vespa, ogni tanto, mescolando una tazza di cioccolata calda decisamente fuori stagione con un bastoncino di zucchero alla menta piperita, si girava per dire a qualcuno: «La parrucca era mia. Lo sapevo che quella bionda portava fortuna». In realtà, me l’aveva prestata a malincuore, impartendomi una serie di istruzioni per la manutenzione che fino ad allora avevo ignorato; immaginai però che si sentisse più che ricompensata dalla gloria riflessa di cui stava godendo.

Con la mente offuscata dall’alcol, mi profusi in ringraziamenti. «Non posso credere che tu sia venuta a vedermi!» esclamai, sinceramente commossa.

«Ci mancherebbe! Non mi sarei mai persa il debutto della mia parrucca. Tienila pure per tutto il tempo che vuoi. Quando però ti farà vincere un Oscar, ricordati di me.»

«Secondo me, il premio per la migliore parrucca andrà a Travolta, ma grazie comunque», replicai, subito premiata da un amabile cenno del capo. «Be’, adesso sai cosa scrivo sul mio blocchetto.»

«Sì, certo. Lo leggo sempre quando vai in bagno.» Il mio sorriso si irrigidì leggermente, ricordando tutti gli appunti scritti sul suo conto. Lei tuttavia continuò a parlare. «Non ti dare pensiero di salutare Becca, tanto non ti sentirebbe. Per tutta la serata è stata tempestata di chiamate da Henry, che voleva sapere con chi era uscita. Visto?» Inarcò le sopracciglia in modo significativo, indicando le braccia della collega. Notai che stavolta indossava una maglietta a maniche corte.

«Non vedo lividi…» iniziai a dire.

«Autoabbronzante», mi interruppe, nascondendo la bocca dietro la mano. Afferrò per il braccio Becca, che si lasciò trascinare verso la porta, curva sul telefono, dimentica di tutto.

Dopo aver salutato con la mano, mi ritrovai fra i numerosissimi fan adoranti di Fash e gli amici di Kim, tutti colleghi del bar dove lavorava. Ora che Ruby e Becca se n’erano andate, d’un tratto sentii la mancanza di persone venute solo per vedere me. Finii il mio drink più in fretta di quanto avrei voluto, ne presi un altro e, visto che non avevo nessuno con cui parlare, lo ingollai rapidamente. Mi aspettavo quasi che arrivasse Amanda, com’era successo ai preliminari del concorso, ma da quando ci eravamo fatte quello scambio di favori aveva insistito affinché ci tenessimo alla larga l’una dall’altra, almeno in pubblico. Sapevo che aveva ragione, ma mi pareva assurdo che la persona a cui dovevo di più in assoluto, e alla quale avevo ricambiato abbondantemente il favore, non potesse essere vista in mia compagnia. Cominciavo a dipendere da Amanda, anche se quando lei non era con me avevo l’impressione sconcertante che fosse un’amica immaginaria.

Il giornalista, forse essendosi accorto che ero sola, colse la palla al balzo. «Dana, al tuo debutto nella competizione ti sei piazzata seconda. Secondo te, qual è stata la mossa vincente?»

«Partecipare al concorso è un grande onore in sé e per sé», dissi, rendendomi conto con somma irritazione di biascicare. «A Austin ci sono molti comici bravissimi e tutti sono andati alla grande stasera.»

«Ho visto il tuo spettacolo delle semifinali», disse il giornalista. «Il monologo di stasera era diverso e molto provocatorio. È rischioso presentare materiale nuovo alle finali?»

Mentre preparavo un’altra risposta standard, lui cominciò a scattare foto. Il flash mi fece girare la testa e, quando cominciai a gesticolare con il drink in mano, ebbi l’impressione che non mi stesse ascoltando.

«E cosa pensi del fatto che il primo premio sia andato di nuovo a un maschio bianco?» domandò fra uno scatto e l’altro. «È giunto il momento di una svolta a Austin?»

Barricato dietro la macchina fotografica, il bastardo continuò imperterrito. Avevo appena risposto in tono diplomatico ma asciutto: «La svolta c’è già stata eccome», quando Fash comparve al mio fianco. I flash l’avevano spinto a scendere dal trono per vedere chi gli stava rubando la scena.

«Perché non lo chiedi direttamente a lui?» dissi. «Cosa ne pensi, Fash? Non è ora che il primo premio vada a qualcuno che non sia un maschio bianco?»

«L’importante è divertirsi sul palco», ribatté lui, cingendomi con forza le spalle.

«Facciamo una foto dei primi tre classificati?» propose il giornalista. «Fermi dove siete.» Si diresse verso il tavolo di Kim.

Rimanendo incollato a me, Fash si protese per urlare: «Kim! Kim!». Era talmente vicino che sentii l’odore del suo olio per baffi. Notai disgustata che aveva gli occhi lucidi. Cercai di divincolarmi e lui mormorò tristemente: «Ti sto sulle balle, vero, Dana? In realtà, non sono simpatico a nessuno».

Consapevole della scena che stavamo facendo nel bel mezzo del bar, replicai: «Ti adorano tutti, Fash. Infatti hai vinto».

«Eh, sì, mi adorano tutti!» Il suo viso si illuminò per un attimo, poi lui si incupì di nuovo, scuotendo la testa. «Ma adesso che ho vinto, mi odieranno.» Notai con orrore che aveva gli occhi sempre più rossi e me li sentii bruciare a mia volta a causa della vicinanza fisica. «Voglio esserti simpatico, Dana. Perché mi detesti?»

In quell’istante il fotografo tornò con Kim. Appena vide la macchina fotografica, Fash alzò la testa di scatto come una marionetta attaccata ai fili, e il suo umore malinconico si dileguò talmente in fretta che dubitai persino di averlo notato un attimo prima. «Kim! Terza classificata!» urlò. «L’anno scorso sono arrivato terzo, quindi il prossimo sarai tu la vincitrice.»

«L’hai già detto», rimarcò Kim. «Più volte.»

«L’anno scorso sono arrivato terzo, e adesso guarda!»

«Congratulazioni, Fash.» Kim sospirò, sistemandosi alla mia destra e cingendomi le spalle con un braccio. «Allora, la fai ’sta foto?» chiese in tono implorante al giornalista.

«Il vincitore in mezzo!» urlò Fash. «Il re del cabaret al centro!»

«Meglio farne più d’una», affermò il giornalista con diplomazia.

Dopo alcuni scatti toccò la spalla di Kim, sospingendola delicatamente verso Fash. Lei contrasse il viso in una smorfia ma non oppose resistenza, e Fash – ora in mezzo a noi due – la strinse a sé. Kim teneva le braccia lungo i fianchi.

«Va bene così», disse il reporter, arretrando di qualche passo con la macchina fotografica davanti alla faccia. «Fermi dove siete.»

«Che bello essere il re!» esclamò Fash, attirandoci rudemente a sé. Mi fece scivolare alcune volte la mano sulla schiena, infilandola in fretta sotto l’elastico del reggiseno e fermandosi sotto l’ascella, a un lato della tetta. Mi irrigidii.

«Fermi dove siete!» ripeté il giornalista. «Sorridete!»

Mi stampai un sorriso sul volto mentre Fash non allentava la sua morsa mortale. Contai cinque o sei flash, sentendo la punta delle sue dita muoversi su e giù.

«Può bastare», disse Kim in tono brusco prima di allontanarsi. «Devo andare a pisciare.»

Mi liberai dal braccio di Fash, ma lui non sembrò accorgersene. «Ehi, Kim, aspetta!» le urlò dietro. Per un attimo assunse l’espressione desolata di poco prima. Io mi apprestai a seguirla in bagno; lui, invece, rimase incollato al reporter. Lo sentii commentare: «A essere sinceri, il terzo posto fa schifo», e capii che la tristezza era svanita di nuovo come d’incanto.

In bagno, Kim si stava sciacquando la faccia, curva sul lavandino. Appena alzò lo sguardo e mi vide attraverso lo specchio, mi disse: «Che uomo disgustoso».

«Immagino che abbia fatto anche con te il giochetto della tetta, eh?»

«Patetico», replicò lei, prendendo una manciata di ruvidi asciugamani di carta per strofinarsi il viso. «Cioè, non che sia una sorpresa», aggiunse, continuando a sfregare. «Lo fa da quando è arrivato a Austin.»

«Quando è stato?»

«Mah, non so, forse un paio d’anni dopo di me.» Gettò la carta bagnata nel cestino. «Abbiamo frequentato il livello uno insieme, ci credi?»

Per i cabarettisti, il “livello uno” significa una cosa sola. «Improvvisazione? Non sembra roba per te.»

«Per un po’ mi ha appassionato molto.» Stava frugando nella borsetta. «In ogni caso, sai come vanno le cose. Sono tutti gentilissimi al corso di improvvisazione – dicono sempre di sì e stronzate del genere – e quando è arrivato Fash, lo adoravano… Hai presente? E siccome si comportavano come se lo conoscessero, ho pensato che lo conoscessero davvero. Cioè, in un certo senso, hanno garantito per lui. Perciò anch’io ero gentile. Ah!» Trovò l’eyeliner che stava cercando e tolse il tappo con aria trionfante.

«In che senso, gentile?»

Kim era piegata in avanti, impegnata a tirare una riga e a ricalcarla più volte. «A quanto pare, l’ha fatto a più di una donna della nostra cerchia. Non solo a me.»

«Ha fatto cosa?» L’aria stantia del bagno cominciava a farmi girare la testa. Mi appoggiai alla porta di un gabinetto e sentii tremare il pavimento sotto i miei piedi.

«Sai com’è, dopo uno spettacolo si va tutti insieme a casa sua e a un certo punto rimani solo tu. E lui continua a ripetere: “Guarda che se vuoi puoi dormire qui stanotte”. Tu ti rendi conto che è una cazzata e vorresti tornare a casa, ma sei troppo ubriaca. E il servizio dei taxi qui fa veramente schifo.» Finì di truccare un occhio e passò all’altro. «Lui continua a ripetere che puoi stenderti sul suo letto, che tanto lui dorme sul divano, perché è un fottuto gentleman, e alla fine sei troppo stanca per opporre resistenza. Peccato che al risveglio te lo ritrovi sotto le coperte…» Rimise bruscamente il cappuccio all’eyeliner e fece un movimento osceno con i fianchi.

«Oh, mio Dio, davvero?» Per un attimo, sentii odore di tequila, il peso brutale, terrificante, sopra di me, e rividi la sagoma nera contro l’effetto neve della TV. Poi scacciai l’immagine dalla mente. «Cos’hai fatto?»

«Insomma, sia ben chiaro, non sarebbe stato difficile respingerlo. Come dicevo, era patetico.» Kim rimise l’eyeliner in borsetta. «Si era messo a piangere come un bambino.» Sbatté le ciglia allo specchio e si tolse delle sbavature dalle guance con le dita. «Alla fine, una tipa si è incazzata, si è sparsa la voce e lui è stato cacciato da un paio di teatri. Ecco perché non fa più improvvisazione.»

«Nemmeno tu», sottolineai.

«Immagino che in fin dei conti non mi appassionasse poi così tanto», ribatté lei, segnalando con il tono della voce che il discorso era chiuso. Indicò i gabinetti. «Non dovevi andare?»

«Sì. Mi aspetti?»

«Certo, va’ pure, troia.»

Non mi scappava, ma d’un tratto mi venne l’impulso irresistibile di contattare Amanda e non mi andava di scriverle un messaggio davanti a Kim. Quella sera ero stata assillata da una strana sensazione, una specie di inquietudine, come un prurito temporaneamente placato dal personaggio di Betty. Ora però era tornato con estrema intensità. A poco a poco, nel corso della serata, avevo capito cosa – anzi, chi – ne era la causa.

Chiusi la porta del gabinetto alle mie spalle e, quando estrassi il telefono, Kim disse: «Dana?».

«Sì?» Smisi di digitare.

«Sei una buona amica di Jason Murphy, giusto?»

La domanda mi colse talmente alla sprovvista che risposi subito di sì, prima ancora di avere il tempo di riflettere se fosse ancora vero.

«Cioè, a Los Angeles condividevate l’appartamento…»

«Sì.»

Il tono di voce sembrava spiritoso ma, siccome non avevo modo di vederla in faccia, non potevo sapere quale fosse il suo stato d’animo. «Nessun rancore, eh?» Prima che potessi intervenire, aggiunse: «Per un po’, quando sei tornata, ho pensato che ce l’avessi con me. Cioè, non so cosa ti abbia raccontato…».

«Non mi ha parlato di te», dissi con sincerità, chiedendomi d’un tratto perché non avessi mai capito che Jason e Kim erano stati insieme. A Austin Jason aveva fatto un salto di qualità nella scelta delle fidanzate, e quando uscivamo insieme spesso ero intimidita dalla loro improbabile biondezza e bellezza. Eppure, non duravano mai a lungo. Dovevano sempre vedersela con me, la migliore amica che lo conosceva da più tempo di loro. Alla fine, le varie Katie, Jenna, Bella o Rose di turno uscivano di scena e io rimanevo sotto le luci dei riflettori con Jason. Cinque anni prima mi ero accorta a malapena della presenza di Kim a Austin; all’epoca, come lei stessa aveva detto, faceva per lo più improvvisazione. Ora, però, non mi parve affatto strano che rientrasse nella sfilza di bionde magre con il nasino perfetto che sfilavano sullo sfondo.

«Ah, meglio così», replicò Kim. Mi resi conto di essere rimasta in silenzio per un po’. «Cioè, è passato un bel po’ di tempo.»

«Non ce l’ho mai avuta con te. Proprio per niente.» Tirai la corda per coronare la finzione e aprii la porta del gabinetto. Lei era appoggiata alla parete opposta. «Sono felice che adesso siamo amiche.»

«Sì, anch’io. Stasera avrebbe dovuto vincere una di noi due. L’unica consolazione è che forse Fash se ne andrà a Los Angeles e sarà investito da un taxi.»

«O mangiato da uno squalo. Sembra che si spingano vicino a riva.» Quando fummo uscite dal bagno, mi resi conto che le domande su Jason mi avevano impedito di finire di scrivere il messaggio ad Amanda. «Mi sa che me ne vado», dissi, lanciando una rapida occhiata al telefono.

Kim se ne accorse. «Fidanzato segreto?»

Per la seconda volta fui colta alla sprovvista. «No!»

«Negli ultimi tempi sei molto misteriosa.» Mi strizzò l’occhio. «Mi è venuto il dubbio che stessi mandando un messaggio a qualcuno nel gabinetto.»

«Stavo controllando l’ora», replicai in modo poco convincente. «Non mi ero accorta di quanto fosse tardi. Domattina inizio a lavorare presto.»

«Capito.» Kim sembrava divertita.

Gettai il telefono in borsa e l’abbracciai. «Di nuovo, congratulazioni!»

«Anche a te. Mi piace il nuovo personaggio», disse lei, un po’ a disagio. «Ehi, guida con prudenza.»

Annuii. Avevo deciso che era troppo rischioso scrivere ad Amanda il nome successivo della mia lista. Meglio andare a trovarla. Mentre tornavo a casa in macchina, immaginai noi due sedute sul suo balcone con un bicchiere di vino in mano, a discutere di come liberare il mondo del cabaret di Austin dalla piaga di Fash.