14.
Quando entrai in casa, Jason mi stava aspettando con un sorrisone in faccia. «È l’ora dell’aperitivo.»
«Dove andiamo?»
«Sorpresa.»
Abbassai lo sguardo e notai i miei vestiti da colloquio. «Vado bene così?»
«Sì, certo.»
«Aspetta, ho un vestitino.» Corsi nella stanza in cui avevo dormito la notte precedente, frugai nella sacca da ginnastica ed estrassi un abito nero con le spalline sottili che non sapevo neppure perché avessi portato con me.
Quando mi vide, Jason sorrise. «Perfetto.» Era talmente gasato che gli permisi di aprimi la portiera e di accompagnarmi in centro senza chiedere altro sulla nostra destinazione. Fortunatamente, non mi aveva fatto domande riguardo all’incontro con Cynthia. Sapeva che non avevo voglia di parlarne ed era ben felice di creare un diversivo per non costringermi ad affrontare l’argomento. Così eravamo io e Jason nei momenti migliori: ci capivamo al volo e ci distraevamo a vicenda dai disastri. Ci infilammo in un parcheggio sorvegliato e lui consegnò le chiavi dell’auto a un addetto dalla bellezza sovrannaturale, come se ne trovano un po’ dappertutto a Los Angeles, mentre un altro mi aiutava a scendere.
Guardai Jason, inarcando un sopracciglio. «Che classe!»
«Zitta, tanto lo so che ti piace.» Mi fece strada verso una porta a vetri che conduceva nell’atrio di un albergo. «Alza gli occhi.»
Guardai in alto e rimasi senza fiato. La lobby era illuminata da centinaia di lampade vintage che pendevano da un soffitto a specchio.
«Prendiamo la scala mobile per salire al piano superiore», disse Jason. «Sul mezzanino c’è un ascensore speciale che porta sul tetto.»
«Non ne dubito.» In ogni caso, stava funzionando; cominciavo a divertirmi e a scordarmi dell’umiliazione subita al pranzo con Cynthia. Mentre la scala mobile saliva in diagonale in mezzo a uno stormo di uccelli imbalsamati, iniziai a vedere quell’incontro per quello che era stato: un enorme successo. Cynthia mi aveva offerto un posto come coautrice. Aveva detto di volermi nel suo programma. Sarebbe stato quasi impossibile spiegare a Jason cosa c’era che non andava nella sua proposta. Se mi aveva sentito sul podcast, conosceva Betty, ma non poteva immaginare perché intendessi abbandonare quel personaggio. Non l’avrebbe capito nessuno, con l’unica eccezione, naturalmente, della persona che mi aveva lasciato decine di messaggi che non avevo intenzione di ascoltare. E ora che non avevo bisogno di tenere il telefono acceso per rimanere in contatto con Cynthia o Jason, non ero costretta a pensare a lei.
Aspettammo per alcuni minuti vicino a un ascensore speciale sorvegliato da un usciere che lasciava passare solo pochi clienti alla volta. Strabuzzai gli occhi alle spalle dell’uomo mentre guardavo Jason, godendomi ogni istante di quell’attesa.
«Fidati», mi disse.
«Sempre.»
Quando l’usciere ci fece un cenno, entrammo; io prestai attenzione a non infilare i tacchi sottili nella fessura tra la cabina e la tromba dell’ascensore. Le quattro ragazze alte e magre con varie gradazioni di abbronzatura che salirono dopo indossavano abiti che per lunghezza e capacità coprente si distinguevano a malapena da costumi da bagno.
«Vorrei sedermi su uno di quei divani pieni d’acqua», disse Jason.
«Spero che siano riscaldati.» Su un tetto, a Los Angeles, poteva fare freddo persino d’estate.
«Che pappamolla.» Mi diede di gomito, accennando alle stangone dai vestiti succinti.
«Non ti ci vedo in canottiera.»
«La riservo per un’occasione speciale.»
Mentre l’ascensore saliva, cominciammo a sentire un ritmo martellante, dapprima appena udibile, poi sempre più forte. Quando ci fermammo, la porta si aprì su un mix di musica dance elettronica, con il basso che faceva tremare le mascelle, stranamente fuori luogo considerato che era ancora giorno. Le sinuose ragazze davanti a noi si incamminarono su un tappeto rosso cremisi, e io vidi una fila di siepi intagliate a forma di animali che si stagliavano contro il cielo permeato dalla luce rosata che preannunciava il tramonto; in realtà, quel colore era dovuto allo smog, e le siepi erano finte, eppure sembrava di essere in un film.
Uscii dall’ascensore. «Pazzesco», urlai nell’orecchio di Jason per farmi sentire sopra la musica.
«Sto cercando di attirarti di nuovo in questa città», urlò lui di rimando. «Da solo a Los Angeles sono un disastro.»
Andammo nella zona con i posti a sedere che brulicava di persone giovani e belle appollaiate sui bordi di cubi bianchi e intente a chiacchierare ad alta voce. Alcuni dei festaioli erano in costume da bagno, e Jason indicò una piscina a un capo della terrazza. Notando che un salottino era circondato da un nastro giallo, gli rivolsi un’occhiata interrogativa.
«Stasera niente divani ad acqua. Spesso vengono bucati, immagino da tutti quei…» Non udii l’ultima parte della frase, e lui la ripeté appoggiando una mano sulla mia spalla per non perdere l’equilibrio mentre si indicava il piede sollevato.
La musica era sempre più forte. Di nuovo non capii e sentii solo le sue dita posate sulla mia pelle nuda. «Da cosa?»
«Tacchi alti.»
Risi nervosamente, e Jason mi strinse la spalla per guidarmi verso il bar affollato. Mi resi presto conto che ordinare un paio di cocktail da venti dollari avrebbe richiesto un bel po’ di tempo. «Magari è il caso che vada a cercare un posto a sedere», gli urlai nell’orecchio, sollevandomi in punta di piedi. Lui annuì.
Mi avviai verso un salottino accanto a un enorme caminetto di mattoni bianchi, ma non feci in tempo ad arrivare che due tizi comparvero dal nulla con un drink in mano e si accomodarono. Iniziai a gironzolare, cercando di assumere un’aria rilassata mentre avanzavo lungo corridoi delimitati da piante finte e gruppi di tavoli da ping-pong; per poco non fui colpita da una pallina sparata a tutta velocità. Il sole cominciò a tramontare; i raggi bassi, riflessi dagli edifici circostanti, mi accecavano. Dopo aver esplorato quasi tutta la terrazza senza scovare nemmeno un posto a sedere, girai un angolo e, trovando un po’ di quiete, mi appoggiai a un muro tiepido per riprendere fiato. Ero lì da appena pochi secondi quando, senza preavviso, dalla cassa vicino al mio orecchio uscì un ritmo martellante accompagnato da una raffica di urla stridule: era arrivato un nuovo DJ. Per nulla intimidito dalla forte musica di sottofondo, aveva cominciato la sua esibizione. Il caos acustico mi sospinse di nuovo verso il bar, dove Jason stava ancora aspettando a mani vuote. Appena vide la mia espressione, si intristì.
«Che sfiga, eh?»
Scrollai le spalle senza sbilanciarmi, per non ferire i suoi sentimenti, troppo stanca per alzare di nuovo la voce.
«Be’, andiamo.»
Annuii sollevata. Tornammo inciampando all’ascensore, che stava vomitando nuove ondate di giovani avvenenti. Mentre scendevamo, anche se eravamo soli, non ce la sentimmo di infrangere il silenzio, dopo tutto quel baccano. Ebbi il tempo di chiedermi quali abitudini avesse sviluppato Jason mentre io testavo nuovo materiale nei locali di Austin. Frequentava terrazze con Aaron Neely, socializzando con ragazze che si presentavano in bikini agli appuntamenti a mezzogiorno e poi si tuffavano in piscina?
Appena prima che le porte si aprissero, provai a sondare il terreno. «Sei venuto spesso qui?»
«No, è la prima volta.» Aveva un’aria demoralizzata. «Volevo fare colpo su di te.»
Sbuffai e scoppiamo tutti e due a ridere.
«Perché adesso sei una VIP.»
Mi fermai per lanciargli un’occhiataccia e poi risi ancora.
«È abbastanza orribile, vero?» Mentre uscivamo, Jason indicò il soffitto con la foresta di lampade vintage.
«Secondo me, la parola che avresti voluto usare è “scontato”», precisai. «Però che vista!»
«Ho sentito che fanno un ottimo aperitivo da R&R.»
Attraversammo il parco piacevolmente ombreggiato della Central Library diretti alla nostra auto, trattenendoci per un po’ sotto le fronde degli alberi. Jason mi cinse le spalle con un braccio, con aria distratta, come se niente fosse.
«Allora… ti fermi per un’altra notte?»
Stavolta Jason aveva ordinato un’omelette di hash browns. Mentre mangiavo il mio hamburger, pensai: “Sarà sempre di quelli che a cena ordinano la prima colazione”. Forse ormai lo conoscevo fin troppo bene. «Rimarrò almeno qualche giorno.»
«Sei in cerca di appartamenti?» Lui cosparse di ketchup i suoi hash browns.
«Non credo di essere pronta. In ogni caso, non è che io abbia tutti ’sti soldi da spendere. Dovrei avere in mano qualcosa di concreto prima di…»
«Era proprio di questo che volevo parlarti.» Un grumo di ketchup atterrò sul suo piatto, ma lui non sembrò farci caso. «Ieri sera stavo scherzando sul fatto di dividere l’affitto, ma da quando te ne sei andata non ho avuto molta fortuna con i coinquilini e non mi posso permettere di vivere da solo ancora per molto. Perciò se hai bisogno di un posto dove stare…» Lasciò la frase in sospeso, posò il barattolo di ketchup sul tavolo e si mise a rimestare il macello che aveva nel piatto.
Non potevo crederci: mi stava chiedendo di andare a vivere con lui. Senza accennare minimamente a quello che era accaduto fra noi – a come ci eravamo toccati e tenuti per mano quella sera, al luogo dell’appuntamento – mi proponeva di tornare nella sua vita come se non me ne fossi mai andata. Senza avere idea di cosa fossimo l’uno per l’altra.
«Cosa intendi dire, di preciso?» Lo sapevo già, ma avevo bisogno di sentirlo da lui. Volevo che ammettesse di avere bisogno di me.
Jason però fece subito marcia indietro. «Ma se non ti va, non c’è problema.»
Continuai a mangiare il mio hamburger. Con la bocca piena potevo limitarmi ad annuire o a scuotere la testa.
Quando tornammo a casa sua, lui fece partire uno speciale comico di cui avevamo sentito parlare entrambi. Mi rilassai un pochino nel ritrovare il nostro vecchio e familiare rapporto, ridacchiando a intermittenza, analizzando le battute e sottolineando che cosa funzionava e cosa invece lasciava a desiderare.
Mezz’ora dopo, Jason era di nuovo appoggiato a me.
«Non farlo», dissi, spostandogli bruscamente il braccio dallo schienale.
«Cosa? Questo?» Mi arruffò i capelli.
«Davvero, smettila.» Di colpo mi scostai da lui. «Jason, cosa significa? Che stai facendo? Ho bisogno di sapere cosa succede.»
Lui fece un respiro profondo e si tolse i capelli dalla fronte, come faceva sempre quando era frustrato. «Dana, quando ti ho detto di essere stato sfortunato con i coinquilini… be’, in realtà, l’ultima era una fidanzata. Ormai ex.» Scosse la testa, tenendo le mani sulle ginocchia. «Alla fine, è saltato fuori che mi stava solo usando per i miei contatti nel giro. Ha distrutto la mia fiducia nel mondo.»
Lì seduta, attesi impietrita che finisse di parlare.
Mi lanciò un’occhiata sinceramente supplichevole. «Lo so che sto mandando segnali equivoci. Ma il fatto è che non sono pronto a impegnarmi di nuovo. Capisci?»
Mi alzai. «È meglio che me ne vada.»
Lui sembrò sorpreso.
Mentre parlavo, mi ero messa a cercare le mie scarpe con il tacco. «Se pensi che me ne starò di nuovo qui ad ascoltarti parlare dei tuoi problemi con le ragazze… No, non ce la posso fare.» Risi. «Dannazione, quante volte mi è toccato sentire le tue lamentele riguardo a qualche bionda scheletrica che ti maltrattava? Povero Jason. Povero, povero Jason.» Mi stava salendo il sangue al cervello. Dove cavolo avevo ficcato le scarpe? «Sai, temevo che tu mi volessi qui con te solo per convenienza, dal momento che adesso ho più successo di te.»
Lui cambiò espressione. Ora sembrava risentito, ma gli impedii di intervenire.
«E invece no. Sei semplicemente stato mollato da poco. Un’altra volta. E hai bisogno di qualcuno che ti ascolti, ti carezzi la testa e raccolga quel che lasci in giro. Be’, non mi interessa se quella stronza ti ha usato, tradito o cos’altro…» Ripensando a quello che aveva detto mia madre a proposito di Jason, raddrizzai le spalle. «Non raccolgo più la merda degli altri.»
«Dana…» Lui tese la mano verso di me, e io mi ritrassi.
«Distrutto la tua fiducia nel mondo…» Sogghignai. «Che cazzata! Se dopo tutto questo tempo non ti fidi ancora di me, non accadrà mai.»
«Aspetta un attimo. Chi è che non si fida di chi?»
Quando Jason si alzò in piedi, girai intorno al divano, in modo da frapporre una barriera tra noi.
«Non mi hai detto neppure perché sei venuta qui. Evidentemente, c’è in ballo qualcosa di grosso. Te lo sei tenuto dentro come se fosse un segreto di stato, e qualcuno ti tempesta di chiamate… Se a cercarti fosse il tuo agente o Cynthia Omari, risponderesti. Ti sta a cuore nascondere l’identità di quella persona, vero?» Distolsi lo sguardo. «Allora, cosa ci fai qui? Ti presenti di punto in bianco, senza neppure rispondere al mio messaggio, mi tieni per mano, fai la carina, dormi nella mia stanza degli ospiti.» Jason era sempre più indignato. «Per quel che ne so io, può essere solo il tuo fidanzato che cerca di rintracciarti.»
«Non ho un fidanzato», tagliai corto, individuando finalmente le mie scarpe sotto il tavolo della cucina e chinandomi per raccoglierle.
«Allora è un ex?» Lui si piazzò davanti alla porta, forse inconsapevolmente. «O un altro di cui non mi vuoi parlare?»
«Magari non sono affari tuoi.» Visto che mi stava bloccando il passaggio, feci dietrofront e percorsi a passi pesanti il corridoio per tornare nella mia vecchia stanza. La sacca da ginnastica era aperta sul materasso; raccolsi i jeans dal pavimento, dove li avevo abbandonati quella sera per cambiarmi, e li buttai dentro.
«Proprio così», replicò Jason, seguendomi. «Era quello che volevo dire. Nonostante ci conosciamo da così tanto tempo, non ti sei mai aperta con me.» Fece alcuni passi nella mia direzione, e io mi rialzai, caricandomi in spalla il borsone. «Come faccio a mettermi insieme a una persona che si rifiuta di parlarmi di quello che la sta tormentando?»
«Tormentando…» Gli girai intorno e percorsi il corridoio, tallonata da lui.
«Per esempio, l’appuntamento di oggi non è andato bene. Saprò mai perché?»
«Potresti provare a chiedermelo, tanto per cominciare.»
«Per poi vederti andare via, come stai facendo adesso?»
«Certo che me ne vado», dissi, dirigendomi alla porta e raccogliendo anche la borsetta lungo il tragitto. Con la mano sulla maniglia, mi fermai e mi girai. «Visto che stiamo parlando fuori dai denti», aggiunsi, «non far finta di aver mai voluto sapere qualcosa dei miei sentimenti. Da quando ci conosciamo hai fatto di tutto per evitarlo. Se solo ti fossi preso la briga di interessartene, avresti dovuto ammettere…»
Mi si bloccò il respiro in gola nel ripensare a tutti quei pomeriggi trascorsi con Jason, al mio sforzo di nascondere ciò che provavo e di mostrarmi indifferente, all’adolescente sciocca e imbranata che passava le sere a casa di un ragazzo nella speranza che un giorno diventasse qualcosa di più di un amico. E anziché ottenere il finale da film per ragazzini che mi aspettavo, con tanto di bacio, fiori e musichetta romantica, ero stata violata così nel profondo che non sarei mai stata in grado di parlarne con nessuno, neppure se avessi voluto farlo. Quello sì che ti distruggeva completamente la fiducia nel mondo.
Lui, però, era ancora lì in piedi, a fare il finto tonto. Voleva a tutti i costi che lo dicessi.
«Sapevi benissimo cosa provavo per te. Eppure, per tutti quegli anni, mi hai usata. Ti servivo per lusingare il tuo ego ogni volta che venivi mollato. E sfruttavi il mio talento quando non riuscivi a combinare niente da solo.» Aveva un’aria da cane bastonato, ma andai avanti. «Non ho nessuna intenzione di stare di nuovo al gioco. È un insulto per entrambi. Io ho chiuso.»
Mi sbattei la porta alle spalle.
Il telefono infilato nel borsone sul sedile accanto a me ronzò ininterrottamente per tutto il tragitto fino al Days Inn. Avrei voluto che fosse Jason a chiamarmi, per chiedere scusa e pregarmi di tornare indietro, ma in realtà sapevo chi era, senza neppure guardare. Appena arrivai nella mia stanza, gettai la sacca sul letto e il cellulare rimbalzò vibrando sul copriletto a disegni cachemire; sul display c’erano le parole «numero sconosciuto».
Persi la pazienza. Lo presi, schiacciai RISPONDI e urlai con tutto il fiato che avevo in gola: «Lasciami in pace!». Poi lo spensi e lo gettai dall’altra parte della stanza. Colpì il battiscopa e scomparve sotto il letto.
Andai in bagno a prepararmi per la notte. Ero sfinita. Meno male che c’erano i motel, con i loro minuscoli prodotti usa e getta avvolti nel cellophane. Scartai una saponetta delle dimensioni di un salatino e me la strofinai sul viso formando un pallido strato di bollicine sulla pelle. Mi sciacquai con l’acqua fredda, poi allungai l’altra mano alla cieca in cerca di un asciugamano. Quando lo trovai e me lo portai al viso, sentii uno squillo proveniente dalla stanza. Lo lasciai cadere nel lavandino bagnato.
Era il telefono dell’albergo.
Appena arrivai nella stanza, si zittì. Dopo una pausa stranamente lunga, riprese a squillare, con una lucina rossa che lampeggiava in basso. Mi avvicinai piano al comodino, sperando senza crederci troppo che avrebbe smesso prima che lo raggiungessi. Mi sedetti sul bordo del letto e avvicinai la cornetta all’orecchio, tendendo al massimo il filo corto e attorcigliato.
«Pronto?»
«Dana», disse Amanda. «Ascoltami.»
Sbattei giù il ricevitore. Cercai la spina per staccarla, ma era dietro il letto, irraggiungibile. Sotto la tastiera c’erano dei pulsanti neri e consunti con le icone semicancellate; li schiacciai tutti a casaccio nella speranza che uno servisse a metterlo in modalità silenziosa.
E invece fui richiamata dalla reception. «Per piacere, blocchi tutte le chiamate alla mia stanza», supplicai, quasi in lacrime, ma la linea era disturbata e l’addetto mi disse qualcosa che non riuscii ad afferrare. Alla fine, riagganciai, dubitando che avesse capito.
Senza spogliarmi, spensi la luce e mi stesi sul letto, piangendo per la frustrazione e aspettandomi di sentire squillare di nuovo il telefono. Poi mi addormentai.