CAPITOLO 30

Si riaddormentò. La baracca nel frattempo si era riempita di soldati e profughi. Non c'era più posto. Gli infermieri avevano stretto i letti l'uno all'altro, e quello di Tsili era stato spostato verso l'uscita.

Lei dormiva. Uno sconosciuto, di lontano, le ordinava di non sognare e in effetti lei gli ubbidì, smise. Vagò sulla superficie del sonno per alcuni giorni; al suo risveglio aveva la memoria ancora più svuotata.

L'ospedale era pieno zeppo di uomini, donne e bambini. I divisori laceri non nascondevano più niente. Non urlare, non serve a niente, brontolavano gli infermieri. Erano stanchi di quella confusione e della sofferenza. Le infermiere erano più tranquille e la notte civettavano con gli infermieri e i convalescenti. Tsili era distesa, ma sveglia.

Della sua vita sparpagliata sembrava non restare più nulla. Nemmeno il suo corpo era più suo. Quella confusione di voci e macchie affluiva verso la sua vacuità senza portarle alcuna emozione. «Allora sei tornata dalla licenza» a Tsili venne in mente di chiedere all'infermiera. «Ho litigato con il mio fidanzato.» «Perché?» «Sospetta di me, mi ha picchiata. Ho giurato che non lo vedrò mai più.» Le sue grandi mani contadine parlavano più del suo viso. «E tu lo amavi?» chiese a Tsili senza guardarla. «Chi?» «Il tuo fidanzato.» «Sì» si precipitò a rispondere Tsili. «Forse per gli ebrei è diverso.» Una nota d'infelicità era affiorata in quell'ultimo giorno sul suo viso campagnolo. Tsili sentì ora affinità con quella donna, che il fidanzato aveva riempito di pugni. La notte ci furono molte urla. Un infermiere aveva aggredito un profugo chiamandolo bastardo ebreo. Una paura improvvisa attraversò il corpo di Tsili. Solo l'indomani, quando si alzò in piedi, Tsili comprese che avevano estirpato dal suo corpo anche il senso dell'equilibrio.

Rimase appoggiata al muro e per un attimo le parve che il mondo non potesse più reggerla, di essere senza un appoggio. «Avete per caso visto il mio zaino?» chiese a un infermiere. «Qui si fa la disinfezione.

Bruciamo tutto.» Alcune donne non più giovani stavano davanti ai servizi, si spalmavano il viso di crema. Parlavano sottovoce e ridevano con aria provocante. Gli anni di sofferenza le avevano ingobbite, ma non avevano distrutto la loro voglia di vivere. Una era seduta su una panca, si stava massaggiando le gambe gonfie con gesti ampi e prolungati. Poi gli infermieri portarono molti malati. Era un'emergenza, e i convalescenti furono spostati fuori, nello spiazzo. Anche il letto di

Tsili fu trasferito all'esterno. A nulla valsero gli sforzi dell'infermiera straniera. L'indomani gli impiegati del Joint distribuirono nello spiazzo vestiti e scarpe e una specie di corsetto a fiori. Ci fu un assalto alle casse, gli addetti più che a distribuire erano impegnati a respingere le donne. A Tsili toccarono un abito rosso, un reggiseno e delle scarpe con il tacco. Un profumo penetrante emanava ancora da quei capi stropicciati. Poi arrivò l'infermiera straniera e confortò Tsili. Devi camminare dritta, essere forte. Non raccontare niente a nessuno, non svelare alcun sentimento. A ogni donna può capitare quel che è capitato a te. Bisogna dimenticare. Non è una tragedia. Sei giovane e bella. Non pensare al passato. Pensa al futuro.

Le parlò con sincerità, come una sorella maggiore. Tsili sentiva che, chissà perché, quelle parole di un'estranea, pronunciate da una cristiana, la rendevano più forte. Avrebbe voluto ringraziarla, ma non sapeva come. Le lasciò il reggiseno che aveva appena ricevuto dall'impiegato del Joint. L'infermiera lo prese e lo infilò nell'ampia tasca del suo grembiale. La mattina presto cacciarono via tutti dallo spiazzo.