CAPITOLO 6.

Sin dal primo mattino, Tsili seppe che cosa doveva fare. Spazzò il pavimento e lavò i piatti, e poi corse a pelare patate. Il lavoro non era nuovo per lei. I mesi trascorsi all'addiaccio le avevano insegnato a servire. Non si risparmiava mai nessuna fatica. Non faceva pasticci. E quando smetteva di piovere portava fuori al pascolo la scheletrica vacca. Caterina stava a letto avvolta in una pelliccia di montone, tossiva, beveva vodka e tè, un po' l'una e un po' l'altro. Ogni tanto si alzava e andava alla finestra. Era una casa povera, così come la stalla accanto. Sull'aia: alcune travi di legno, una recinzione cadente e del verde abbandonato a se stesso. Erano così le case fuori dal paese, dove abitavano insieme i lebbrosi, i matti, i ladri di cavalli e le puttane.

Generazioni su generazioni si erano avvicendate qui, senza rimettere in sesto la casa, senza lavorare la terra. Erano le stagioni a foggiare il posto con le loro mani, tanto che non lo si distingueva dalle radure spelacchiate del bosco. La sera a Caterina tornava la voce dolce e riprendeva a raccontare dell'epoca trascorsa in città, quando lei e Maria giravano insieme per le strade. Cosa restava di tutto ciò? Lei era lì, loro laggiù. Laggiù c'erano le luci, qui fango, lebbrosi e matti.

Ogni tanto indossava uno dei suoi vecchi abiti eleganti, si metteva alla finestra e annunciava: Domani me ne vado. Sono stufa. Ho solo quarant'anni. Una donna a quarant'anni non è finita. Gli ebrei mi prenderanno per quello che sono. Loro mi vogliono bene. Ovviamente erano vane speranze. Nessuno andò a cercarla. La tosse non le dava tregua.

Ogni notte svegliava Tsili: Fammi un tè. Sto morendo. La notte, quando aveva un attacco di tosse, il viso si trasfigurava e lei non risparmiava più nessuno, nemmeno gli ebrei. A volte compariva un vecchio cliente, che faceva cambiare aria alla casa. Caterina si vestiva, si agghindava e si spruzzava il profumo sul collo. Amava gli uomini robusti che la prendevano per i fianchi e la stringevano. La voce tornava quella di una volta, era molto femminile. Nel giro di un istante si trasformava, scherzava e attingeva dalla memoria tempi dimenticati. E poi faceva delle osservazioni a Tsili: Non si serve così la vodka a un signore. I veri signori non vogliono che si faccia passare il pane, prima della vodka. O: Non tagliare la salsiccia troppo sottile. Le sere come quelle erano rare. Di solito non veniva nessuno. Caterina si avvolgeva nella coperta e brontolava con voce malaticcia: Ho freddo. Perché non scaldi di più? La legna è bagnata, questa umidità mi fa diventare matta. Tsili imparò che Caterina era una donna ardita, irascibile, che non si lasciava spaventare da un coltello o una scure. Alla vista di una lama sguainata, tutta la sua bellezza si risvegliava. Gli ubriachi li trattava dolcemente, con un tono materno. Un astio inguaribile regnava fra Caterina e i suoi vicini, le cui case erano a una certa distanza dalla sua. Una volta al giorno il lebbroso usciva sulla soglia di casa e strillava verso la porta di Caterina, e quando si avvicinava, Caterina gli andava incontro come una cagna rabbiosa. Era un contadino alto, tutto rosa di piaghe. Arrivò l'inverno, arrivò la neve. Tsili andava nel bosco a raccogliere rami. Al suo ritorno, la sera, il fascio di legna era assai più alto di lei, ma Caterina non era soddisfatta. Si lamentava: Fa freddo. Perché non hai preso dei ciocchi più grandi? Sei viziata. Bisognerebbe suonartele un po'. Ti ho accolto come una madre e tu fai la pigra. Assomigli alla tua, di madre. Anche lei pensava solo a se stessa. Presto ti picchierò. Le trame di Caterina, Tsili non le afferrava ancora. La vita di Tsili era fatta di duro lavoro, oblio e alcuni momenti di inesplicabile affettuosità. Lei amava quella casetta, gli oggetti femminili consunti e i profumi che si spandevano ogni tanto nell'aria. Persino alla scheletrica vacca, Tsili voleva bene. Ogni tanto Caterina le rivolgeva uno sguardo colmo di significati e diceva: Ti è cresciuto il petto. Però hai le gambe ancora troppo sottili. Devi mangiare patate. Quanti anni hai? Io alla tua età giravo già per la città. O altre volte, con tono materno: Perché non ti pettini? Arriva gente e tu non sei pettinata. L'inverno imperversava, la tosse non lasciava in pace Caterina. Beveva vodka e tè bollente, ma la tosse non cessava, diventava più roca ogni notte che passava. Svegliava Tsili e la rimproverava: Perché non mi prepari una tazza di tè? Non senti che sto tossendo? Tsili veniva strappata al sonno e correva a servirle un tè. Fu quello un inverno assai lungo, Caterina non smetteva di brontolare, di maledire le sue sorelle, suo padre e tutti coloro che avevano implorato le sue grazie e le avevano devastato il corpo. Il viso era sempre più magro, le gambe non la sostenevano più. Le visite cessarono. Arrivavano ormai soltanto ubriachi e lebbrosi. All'inizio lei faceva ancora finta di star bene, ma ormai non riusciva più a dissimulare la malattia. Gli uomini fuggivano dalla casa. Caterina accompagnava con ingiurie quelle fughe. Ma la sua collera la riversava su Tsili. Ogni tanto le scagliava contro un piatto o una pentola. Tsili incassava i colpi in silenzio. Una volta Caterina le disse: Io alla tua età già mantenevo mio padre.