CAPITOLO 15.
Da allora Tsili partì una volta alla settimana per far scorta di provviste in pianura. Era tranquilla come chi fa quel che deve, senza perdersi in chiacchiere. Era solita andare a lavarsi nel fiume, e al ritorno aveva addosso il buon profumo dell'acqua fresca. Raccontava a Marek le novità della pianura: una contadina ubriaca aveva cercato di picchiarla, un contadino le aveva aizzato contro il cane, un passante aveva cercato di rubarle le cose che stava andando a vendere. Narrava con semplicità, come si fa con le esperienze di tutti i giorni. Il clima era buono, pioveva poco, loro trascorrevano ore e ore seduti accanto al fuoco, bevendo una tisana e ascoltando il bosco. Marek non parlava più del campo e delle atrocità. Ora parlava dei vantaggi di quel posto in alto, lontano. Una volta disse anche: L'aria qui è molto pura, lo senti com'è pura? La parola «pura» la scandì, con una delizia inesprimibile.
Una volta Tsili chiese: «Che cosa significa 'non è di questo mondo?»
«Non capisci?» «No.» «E' molto semplice: che non è di questo mondo, che è bello, eccezionale.» «Allora è di Dio?» azzardò lei. «Non proprio.»
Non era sempre così. Ogni tanto gli rimontava la rabbia che aveva dentro. Che ti è successo?... Perché hai fatto tardi?... Ma alla vista dei viveri si riprendeva. Alla fine chiedeva scusa. Lei non aveva più paura di lui. Lui stava cambiando di giorno in giorno. Restava per ore a guardare la vegetazione selvatica che fioriva in un tripudio di colori.
L'estate sul monte lo incantava. Spesso raccoglieva un fiore e sussurrava: Che bellezza! Che umiltà! Lo emozionavano persino le erbe di campo. Una volta disse, come fra sé: Nelle case ebraiche non c'è tempo, sempre trambusto, c'è sempre da fare qualcosa. Perché, poi... E che melodia c'era nella sua voce, una melodia malinconica, ma senza amarezza. I giorni passavano uno dopo l'altro senza che nulla di sospetto si notasse nella zona. La quiete si faceva sempre più profonda.
I campi erano stati mietuti e nei frutteti la raccolta era al culmine, tuttavia lui decise di costruire una specie di casamatta, nel malaugurato caso che potesse servire. L'idea gli venne all'improvviso, in pieno giorno. Andò subito a cercare un posto adatto, accanto a una collinetta di sterpi e rovi. Nel suo zaino aveva un rozzo coltellaccio.
Quell'oggetto domestico, scurito dall'uso, gli infuse la voglia di fare.
Prima impresa: lo scavo. Lavorando aveva un'altra faccia. Smise di parlare, come se la sua vita avesse trovato un altro scopo.
Ogni settimana Tsili scendeva in pianura e tornava non solo con pane e salsiccia, ma anche con della vodka. Il tutto in cambio dei vestiti che Marek le dava, così, senza pensarci. I suoi accessi di rabbia, invero, non erano cessati completamente, ma erano ormai rari. Quell'attività frenetica l'aveva reso, in fin dei conti, una persona pacifica. Un giorno le disse: «Mio padre, buonanima, amava la lingua tedesca di un amore sconfinato. In particolare prediligeva i verbi irregolari. Li conosceva tutti. Con me insisteva che li pronunciassi correttamente.
Ricordo le lezioni di tedesco con mio padre come un incubo.
M'impappinavo sempre, e lui, inflessibile com'era, non me lo perdonava.
Dovevo ricopiare pagine e pagine. Mia madre sapeva bene il tedesco, ma non alla perfezione, e mio padre tuonava, correggeva i suoi errori in presenza di estranei. Bastava un errore di grammatica per farlo uscire dai gangheri. In provincia la passione per il tedesco era più grande che in città». «Che cos'è la provincia?» chiese Tsili. «Come, non lo sai? La gente come noi, non del centro, un posto dove non c'è un liceo, non c'è un teatro.» Improvvisamente scoppiò a ridere: «Se mio padre, buonanima, sapesse che cosa stanno facendo adesso, quei pilastri della sua cultura, direbbe: 'Impossibile, impossibile'». «Perché impossibile?» «Perché lui diceva sempre così.» Dopo giorni e giorni di lenta scalfittura, di lavoro tenace e continuo, Marek si trovò per le mani una vanga, una forte vanga. Il manico intagliato attirava il suo sguardo, continuava a toccarlo. Era di buon umore e le raccontò degli strani insegnanti che suo padre faceva venire per insegnargli matematica e latino. Quasi tutti erano dei giovani ebrei, vagabondi, che non avevano terminato l'università, senza arte né parte, che finivano per mettersi nei pasticci con una ragazza, quasi sempre non ebrea, e allora non restava altro che cacciarli via. Marek parlava adagio, descriveva le loro smorfie, le loro debolezze, la loro passione per un bicchierino d'amaro.
Questa lingua Tsili la capiva meglio. Ogni tanto chiedeva, e Marek raccontava, spiegava. Poi lui lavorò giorni e giorni, senza posa. Ogni tanto la pioggia guastava il lavoro di scavo. Marek si arrabbiava. Ma era uno sfogo passeggero. Il lavoro sfiancante gli dava l'aria di un manovale. Tsili smise di chiedere, e Marek smise di raccontarle. Dopo una settimana di fatiche dentro la terra c'era una solida costruzione.
Era quel che ci voleva per i freddi dell'autunno, un riparo dalle gelate notturne. Marek in effetti pensava che fin lì non sarebbe arrivato nessuno, ma era meglio essere prudenti. Tsili notò che Marek ora usava spesso la parola «prudenza». Gli ultimi ritocchi li fece senza lasciarsi andare al giubilo. Una gioia discreta gli imperlava la fronte e le mani.
Lei si rese conto di una cosa: era abbronzato e le braccia, in cui le era parso di riconoscere della mollezza, erano ora muscolose. Sembrava un manovale, capace di gioire del proprio lavoro. Che succederà quando avremo venduto tutti i vestiti?: questo pensiero sfiorò Tsili. Non sembrava turbare Marek, invece. Era così contento del rifugio, non faceva che ripetere: è buono, comodo, questo rifugio, resisterà alla pioggia.