CAPITOLO 29.

Era un ospedale da campo composto da una baracca divisa con delle vecchie coperte. C'erano soldati, partigiani, donne e bambini. Da ogni parte si levavano grida. Tsili la misero in un letto ampio, evidentemente portato lì da una casa distrutta. Da giorni non sentiva più muoversi il feto. Ora le parve che palpitasse di nuovo dentro di lei. Un'infermiera passò uno straccio umido sul suo corpo e le chiese: Di dove sei? Tsili le raccontò. Il viso pieno e tranquillo dell'infermiera sconosciuta l'aveva calmata. Si capiva che era di buona famiglia. Faceva il suo lavoro con dedizione, senza smorfie. Tsili chiese meravigliata: Di dove sei? Di qui, rispose l'infermiera. I suoi occhi celesti sprizzavano efficienza. L'infermiera le raccontò che ogni giorno portavano soldati e profughi, che non c'era più posto e mancavano i medici. Quei pochi si facevano in quattro fra gli ospedali sparsi per la città distrutta. Poi Tsili si addormentò. Fu un sonno profondo. Vide Marek: assomigliava al mercante che si era preso cura di lei. Tsili gli spiegava che era stata costretta, non aveva avuto altra scelta che vendere i vestiti. Nel trambusto aveva anche perso lo zaino. Ma poteva darsi che ce l'avesse il mercante. Il mercante? si stupiva per un attimo Marek, chi sarebbe questo mercante? Tsili era spaventata dalla faccia perplessa di Marek. Gli raccontava diffusamente di tutte le sue peripezie dal giorno in cui aveva lasciato il monte. Marek chinava il capo e diceva: Non è più affar mio. Un tono di biasimo si percepiva nella sua voce. Tsili cercava subito di placarlo. Ma le parole le si strozzavano in gola, e si svegliò. L'indomani un medico andò a visitarla. Parlava in fretta, in tedesco. Alle sue poche domande Tsili rispose tranquillamente. Lui disse all'infermiera che quella notte stessa la ragazza andava trasferita al reparto di chirurgia. Tsili vide la luce del mattino salire alla finestra: era cupo. Le inferriate erano come quelle di casa sua. Al reparto chirurgia la trasferirono che era ancora chiaro. C'era la coda, e l'infermiera straniera, che si era rivolta a lei in un tedesco stentato frammisto a parole slave, le teneva la mano. Da lei Tsili comprese che il suo feto era morto e che di lì a poco l'avrebbero estirpato dal suo ventre. L'anestesia gliela fece un tizio basso, con un berretto militare in testa. Tsili lanciò un urlo e poi basta. Fu una notte lunga, come incisa nella pietra, che durò tre giorni interi. Fecero alcuni tentativi di svegliarla. Nella baracca infermieri e soldati correvano come tarantolati, portando barelle. Tsili in quel momento vagava dentro il tunnel scavato nella pietra, mentre davanti ai suoi occhi passavano conoscenti ed estranei, visi nitidi e senza ombre. Sto tornando, disse a se stessa aggrappandosi alla maniglia di legno. Al suo risveglio l'infermiera le era accanto. Tsili chiese, chissà perché, se anche il mercante fosse ferito. L'infermiera le raccontò che l'operazione era stata breve, i medici erano soddisfatti e ora doveva solo riposare. Le mise un cucchiaino in bocca. «Sono stata brava?» domandò Tsili. «Bravissima.» «Non ho urlato?» «Non hai urlato, non hai aperto bocca.» La sera l'infermiera le raccontò che non usciva dall'ospedale da una settimana intera, che ogni giorno arrivavano soldati o profughi, c'erano feriti gravi e lei non poteva lasciare il posto di lavoro. Il suo fidanzato di sicuro era arrabbiato con lei. Il suo viso tondo esprimeva preoccupazione. «Ti riprenderà» disse Tsili.

«Non ha pazienza» confessò l'infermiera. «Digli che lo ami.» «Vuole venire a letto con me» le bisbigliò l'infermiera nell'orecchio. Tsili ridacchiò. Gli sciroppi e la conversazione l'avevano distratta dai dolori. La sua mente si era svuotata dai pensieri. E anche i dolori, a dire la verità, s'erano calmati; solo il sonno l'incatenava come in un incantesimo.