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IL REGNO DELLA GRANDE DEA

«I shall go in to a hare

with sorrow and sigling and mikle care

and I shall go in the Devil’s name

aye, till I come home again...»

Formula magica per trasformarsi in lepre, questa, raccontata da Isobel Gowdie di Auldearne, in un processo del 1662. Gli inquisitori la ascoltarono inorriditi non solo perché la formula invocava l’intervento del Diavolo.

Nel 1673 Ann Armstrong, processata per stregoneria nel Northumberland, confessò agli inquisitori che la sua amica Ann Baites si era trasformata in lepre, segugio, ape, gatto, per farsi bella davanti al Diavolo dimostrandogli la propria abilità nella metamorfosi.

«Mi trasformerò in lepre / con sofferenza e sospiri e con accortezza, / e mi trasformerò in nome del Diavolo, / ahi ahi, fino a quando tornerò a casa», dice la formula di Isobel, dove per “casa” si intende tornare nella forma umana originale. Se agli inquisitori parve di vedere le orecchie dell’imputata allungarsi mentre una fulva pelliccia lepresca la ricopriva, se si immaginarono Ann frenetica nel suo divenire un animale dopo l’altro, secondo Robert Graves, uno studioso del Novecento, la metamorfosi non riguardava l’aspetto esteriore, bensì il comportamento: si eseguiva una danza mimica imitando le movenze dell’animale prescelto. La danza riguardava certi riti stagionali connessi con la fertilità.

La formula, in ogni caso, faceva inorridire gli inquisitori soprattutto perché testimoniava come, ancora nel XVII secolo, i riti della metamorfosi fossero tutt’altro che scomparsi, nonostante i divieti e le persecuzioni della Chiesa, cattolica e riformata. Le malefiche donne, quindi, non solo invocavano il Diavolo, cosa che confermava agli inquisitori il sistematico aiuto che Satana offriva alle streghe per compiere i loro incantesimi. Ritenevano ancora di doversi – o potersi – trasformare in bestia. Se questa non è pratica sommamente pagana, per l’amor del cielo, che cosa lo è? L’impossibilità di trasformarci in bestie non distingue forse noi cristiani dai seguaci di antichi abominevoli culti della Natura e della sua divinità? Questo si domandavano gli inquisitori.

Non è diabolico, si chiedevano l’un l’altro gli inquisitori, che queste donne si trasformino in gatte, cagne, orse, scrofe, cavalle e come se non bastasse anche in lepre? Animale lascivo, la lepre, che come le tortore e i cani e i gatti copula sotto gli occhi di tutti invece di andare a nascondersi in un cespuglio. Le donne, loro, accusate di stregoneria, avevano imparato invece dalle loro madri che la lepre è animale lunare dedicato alla Grande Dea nel suo aspetto notturno. Riconoscevano ai piedi di Orione la costellazione della Lepre, simbolo di fertilità e anche di morte, sacro al punto che nell’antica Britannia la sua caccia era permessa solo in un giorno dell’anno, durante i riti di primavera.

Ancora più turbava i signori inquisitori la consapevolezza che nella maggioranza dei processi per stregoneria tenuti in Occidente, fin dai primi secoli delle persecuzioni, le streghe confessassero, e non sempre sotto tortura, di sapersi trasformare in animali come e quando volevano. Era necessario in certi casi conoscere le formule appropriate o gli unguenti con cui spalmare tutto il corpo per agevolare la metamorfosi.

Possibile – si chiedevano costernati gli inquisitori – che per queste donne la linea di demarcazione che separa il corpo dell’uomo da quello dell’animale sia ancora talmente incerta da venir vanificata da una formula? E questo nonostante noi uomini di Chiesa ci si sia tanto affannati per enucleare l’uomo dal contesto naturale in cui vive, scorporandolo dal mondo degli animali e della vegetazione? Invece qui e adesso si parla ancora di metamorfosi. Se siamo a questo punto e nel XVII secolo – concludevano indignati gli inquisitori – a che cosa sono serviti tante prediche e tanti roghi per cancellare da queste teste, ostinatamente pagane, l’antica tenacissima credenza nella metamorfosi dell’essere umano in bestia, o in pianta, adducendo come motivazione che siamo tutti parte della Natura? Pessima maestra la Natura, concludevano gli inquisitori, firmando le condanne al rogo. Dimenticavano che san Bernardino da Chiaravalle – e non confondiamolo con san Bernardino di Siena – a proposito della Natura aveva scritto: «Imparerai più cose nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno le cose che nessun maestro ti dirà».

Può essere di giorno o di notte, può accadere nel silenzio della casa quando tutti dormono, o fuori, in qualche radura, nel sole di mezzogiorno o quando la luna percorre il cielo, meglio se velata da uno strascico di nebbie, e come un vascello si muove, nella sua umida luminosità, apparendo e scomparendo. Dal folto del bosco ti giunge la voce del vento, portando il richiamo di qualche animale notturno. Una lepre – nel caso la metamorfosi desiderata sia in lepre – ti appare a pochi metri di distanza, ti fissa immobile per qualche istante, seduta sulle zampe posteriori e tenendo ben diritte le orecchie. Breve visione magica, la lepre, che con un guizzo scompare fra i cespugli.

È questo il momento per percepire quanto profondamente siamo un tutt’uno con la Natura circostante. È questo il momento in cui avvertire la spirituale continuità fra se stessi e gli animali, fra se stessi e la vegetazione, dalle erbe ai tuoi piedi fino ai salici lungo il torrente, dedicati alla Dea nel suo aspetto lunare, alberi di incantesimi, i salici, e di ispirazione poetica e profetica. Siamo un tutt’uno con i magici ontani laggiù accanto agli stagni, gli ontani le cui foglie non si fanno mai gialle, tanto vitali da non marcire mai, con il cui legno i nostri progenitori costruirono le prime case sulle palafitte, alberi la cui linfa risana ogni ferita; alberi di risurrezione e di rigenerazione, perché di rigenerazione è il rito che esige la metamorfosi in lepre, da ottenere mediante la formula rivelata ai signori inquisitori. O anche senza di essa, non essendoci separazione fra noi e il mondo della Grande Dea. Così pensava la donna sapiente prima di trasformarsi in lepre.

Essendo noi e gli animali contenuti nel medesimo ciclo unitario ed essendo noi uomini epifania di tutti gli animali nel regno della Grande Dea, formula o non formula, perché tanto stupore se qui e in questo momento posso mandar fuori da me la lepre, per celebrare il rito della rigenerazione? La fertile lepre, sacra alla Dea, rappresenta il suo umido utero come lo rappresentano la rana, il rospo, la tartaruga, il porcospino, il pesce e la testa di toro: umido grembo quella della Dea in cui nel momento della morte inizia la rigenerazione. Io stessa, si diceva la donna sapiente, io stessa trasformata in lepre rappresento la rigenerazione, e il rito che sto per compiere è un rito di rinascita celebrato nel momento di una morte. Sono qui in sembianze di lepre, e mi identifico con la Grande Dea promotrice dell’inizio di un ciclo vitale, di una nuova vita. La “strega” mormorava la formula, piangendo e stridendo e con paura poiché basta un errore per non riuscire a tornare in sembianza umana. Trasformata in lepre andava a chiamare le sue compagne annunciando loro di esser lepre, invitandole a seguirla. Diceva loro: «Vi trasformo in lepre» e così trasformate esse riunite in gruppo saltavano via tutte insieme nell’erba correndo a compiere il loro rito.

Negli atti dei processi leggiamo che per trasformarsi in animale, certe “streghe” annunciavano alle altre donne di essersi trasformate in lepri «ed esse ci vedono come tali e si trasformano in lepre esse stesse». Nessuno poté istruire gli inquisitori sulla diffusione universale, in ogni cultura, della pratica sciamanica che riguarda il tema della metamorfosi, in questo caso connessa con lo sciamanesimo siberiano. Sapevano però bene, i signori inquisitori, che la metamorfosi in lepre dichiarata dalle donne processate costituiva il residuo degli antichissimi culti dedicati alla Grande Dea della Natura, culti pagani, secondo il loro punto di vista, e quindi ispirati da Satana.

Se la metamorfosi in animale, richiesta dal rito, fosse stata non in lepre, bensì in gatto, nel primo verso della formula bastava sostituire a hare le parole black shot “fulmine nero”. “Streghe” che si trasformano in gatti ce n’era un’infinità, secondo gli atti processuali di tutte le epoche.

Nei suoi Otia imperialiis Gervasio di Tilbury racconta di una congrega di streghe che se ne andava in giro di notte. Si erano tutte trasformate in gatto per i loro riti malefici, commenta Gervasio. Alcuni viandanti si ritrovarono fra i piedi, a un crocicchio, quella moltitudine miagolante. Tratta la spada dal fodero, si misero a menar fendenti all’impazzata. Zampe e orecchie di gatto volarono tutto intorno. Il giorno seguente molte donne del vicinato, in fama di streghe, furono viste trascinarsi in giro mutilate negli stessi punti del corpo in cui erano state ferite nella loro veste felina.

Bernardino da Siena non perse l’occasione di riprendere l’episodio nelle sue famose prediche. Lo divulgò nelle campagne e nelle città con tutto il corredo di formule e unguenti capaci di trasformare una donna in animale, tant’è vero che non poche guaritrici sotto tortura confessarono di essersi trasformate in gatto per poi ritrattare: «L’ho detto perché l’ho sentito raccontare».

Nel processo di Polissena di San Macario in Lucca nel 1571 la “strega” ammise di aver avuto una zia guaritrice, di aver imparato da lei l’arte della stregoneria e di aver ricevuto proprio da lei l’unguento che ti trasforma in gatta. Una notte sentì delle voci che la chiamavano. Si mise nuda, unse tutto il corpo con l’unguento e quatta quatta, «lasciando il corpo addormentato nel letto», trasformata in gatta grigia se ne zampettò fuori di casa per raggiungere le sue compagne, che in fondo alla radura la stavano aspettando. Nella stessa epoca, Gianna di Lucchesia si trasformava in gatto nero mentre l’amica che la accompagnava era trasformata in gatto bianco.

Nel 1589 la guaritrice Crezia confessa di essersi trasformata in gatto, lei con i suoi 85 anni finiti in tortura, e di usare un unguento che non specifica. Incalzata dalle domande degli inquisitori confessa infine solo la formula dell’incantamento: «Unguento, mi unguento portami più che il vento e passi sopra i boschi e pioppi non li tenghi», formula simile a quella che ti portava a Benevento, luogo di raduno streghesco. In forma di gatta Crezia, assieme a una sua amica, si aggrappava – disse ai giudici – alla groppa del Diavolo trasformato in capra. Volava così al Prato Fiorito – e dove, se no, visto che era quello il luogo in cui abitualmente Crezia si recava a raccogliere le sue erbe? Qui riacquistava forma umana, ballava e mangiava polli rubati nei villaggi e si rotolava nei piaceri della carne insieme al suo amante, il Diavolo Cattabrincole, amante tanto impetuoso da non batter ciglio se informato dell’età veneranda di Crezia.

Nel 1646 – anni di Cartesio, di Newton, di Boyle, di Leibnitz, anni della ricerca scientifica, di geometria analitica, calcolo infinitesimale, diffrazione della luce, leggi dei gas, circolazione del sangue, del barometro a mercurio, dell’orologio a pendolo, anni del manometro, dell’addizionatrice, della moltiplicatrice – nel 1646, si diceva, le “streghe” processate a Nogaredo si trasformavano in gatto, cavavano i bambini dalle tombe per preparare unguenti e per mangiarseli arrosto, facevano uso improprio dell’Eucarestia calpestando l’ostia, frequentavano diavoli eleganti nella loro bella livrea rossa, diavoli dai nomi fantasiosi, si facevano battezzare diabolicamente da Satana per meglio scatenare grandini e epidemie, e tutte insieme costituivano una congrega streghesca diffusa in tutto in mondo, che aveva capitane e molti caporali, organizzazione gerarchica femminile in cui ogni strega aveva il suo compito.

I roghi posero fine ai racconti fantastici delle imputate di Nogaredo, racconti che circolavano fra il popolo – scrive Giuseppe Bonomo – per tutto il Seicento, arricchiti di particolari sempre cruenti, racconti imparati dai predicatori che avevano letto non solo il Malleus ma anche i terrificanti trattati di demonologia del grande giurista francese Jean Bodin, di Martin del Rio e di tanti esimi uomini di cultura.

«Hare hare Good sent the care

I am in a haire likeness now

But I shall be in a woman’s likeness now.»

Con queste parole – «Lepre lepre Signore aiutami nel fare attenzione / sono in forma di lepre adesso / ma sarò di nuovo in forma di donna» – la “strega” lepre tornava a riassumere la sembianza umana, al termine dei suoi riti. Questa volta non invocava il Diavolo ma il Signore Iddio.

Nonostante la sua strepitosa cultura, non conosceva questa formula Michele Scoto, che fu in Spagna alla Scuola di Toledo intorno al 1217, che diffuse in Occidente dopo averle tradotte in latino dall’arabo le opere di Aristotele e di Averroè, che fu infine gran mago al punto da venire ricordato da Dante nell’Inferno, e da essere astrologo personale di Federico II.

Si diceva che un giorno, durante un viaggio in Inghilterra, Scoto, affascinato dalle cose occulte, riuscì a sapere dove esattamente vivesse una tal strega di Falsehope, nota per i suoi sortilegi. Durante una partita di caccia, accompagnato dai suoi segugi, Scoto deviò il percorso e si presentò alla strega. Costei, non brutta, era di fascino inquietante. Trattenendo i lunghi capelli arruffati con entrambe le mani se ne stava con il volto chino sui fumi sprigionati da rami di piante aromatiche, gettate su un fuoco, e si profumava tutta dato che la parola profumo deriva da pro-fumo, vale a dire “grazie al fumo” prodotto da sostanze odorose. Avvolta quindi in fumi fragranti, la strega gettò a Scoto un’occhiata breve quando lui, mago, le domandò quale fosse mai la sua arte streghesca. La strega di Falsehope si limitò a raccogliere la bacchetta magica che aveva accanto e con un gesto distratto trasformò subito Scoto in lepre, cosa che non solo lo sorprese ma lo indispettì, dato che la lepre era ritenuta, nella credenza superstiziosa dell’epoca, animale di morte e non più di rigenerazione quale essa fu nei culti antichi della Grande Dea.

Scoto ebbe poco da rimanersene lì indispettito e indignato per la bravura della donna: i suoi stessi segugi, fino a quel momento distesi e ansimanti nell’erba, fiutando la lepre gli si avventarono addosso. Scoto scappò e i segugi dietro, tutti a rotta di collo. La fuga angosciosa ebbe termine quando Scoto-lepre finì a capofitto in un letamaio, disorientando i segugi con il lezzo che si ritrovò addosso. Sospettò che la strega, profumata deliziosamente da capo a piedi, al sortilegio avesse aggiunto anche lo scherno facendo finire lui, semplice mago, proprio nella fossa del letame. Qui, Scoto impiegò non poco tempo per ritrovare sembianze umane, dopo aver passato in rassegna tutte le formule magiche conosciute per sciogliere l’incantesimo. Non conosceva la più efficace, quella usata dalle donne per liberarsi in un attimo della sembianza lepresca.

Nella raccolta gallese del Duecento detta Il Libro rosso di Hergest, che contiene anche il mito celtico della “Battaglia degli Alberi”, leggiamo che, nel Penllyn, una donna di nome Cerridwen, per dotare uno dei suoi figli di grande intelligenza, mise a bollire in un calderone gli ingredienti di una ricetta che aveva trovato nei libri del mago Virgilio di Toledo. La mistura, racconta Robert Graves, doveva bollire per un anno e un giorno. Ogni tre mesi la donna aggiungeva erbe magiche colte durante gli appropriati periodi astrali. Per rimestare la pozione si faceva aiutare dal piccolo Gwion, figlio di contadini di un’altra parrocchia. Dopo quasi un anno, tre gocce schizzarono dal calderone sul dito di Gwion. Il bambino succhiò il dito e in un attimo comprese tutti i segreti della Natura, scoprì il presente, il passato e il futuro e scoprì anche che al termine dell’anno Cerridwen l’avrebbe ucciso, per impedirgli di riferire ad altri la formula. Fuggì e Cerridwen lo inseguì. Gwion, usando i poteri acquistati con la pozione magica, si trasformò in lepre, ma Cerridwen si trasformò in levriero. Il bambino subito si trasformò in pesce gettandosi in un torrente, e lei si trasformò in lontra. Lui divenne uccello alzandosi nell’aria e lei si tramutò in falco. Lui diventò chicco di frumento in mezzo a infiniti altri chicchi, lei si trasformò in gallina e lo ingoiò. Inizia così la complessa avventura del piccolo Gwion, che rinascendo da Cerridwen venne ribattezzato Talesin, eroe profetico della cultura celtica.

Merlino, mago per eccellenza, possedeva il dono dell’invisibilità, quello di agire sugli elementi, il dono di comprendere il linguaggio degli animali e della vegetazione, il dono della medicina e quello di resuscitare i morti, doni che possedevano i druidi e le loro sacerdotesse, doni posseduti dagli sciamani siberiani. Possedeva anche il dono della metamorfosi.

È credenza antichissima, comune a tutti i popoli e religioni, che l’uomo possa trasformarsi in animale, pianta, albero, pietra, acqua. In origine la vita umana – scrive Erich Neumann – partecipava misticamente al mondo circostante e un flusso unitario collegava piante, uomini, animali e stelle: ogni cosa poteva trasformarsi in un’altra. L’uomo si percepiva quale discendente delle piante o viveva un rapporto di fusione con piante e animali: dagli alberi erano nati gli uomini – e gli dèi – e negli alberi venivano sepolti. Il confine che definiva uomo e vegetali e animali era tanto indistinto da permettere continue metamorfosi.

Non c’è mito in tutto l’Occidente che non narri di queste metamorfosi, inaccettabili per il nostro pensiero che imprigiona ogni essere nella propria sembianza e vede il mondo rigidamente diviso in mondo vegetale, mondo animale, mondo minerale. Secondo il nostro pensiero, questi tre mondi sono non solo separati uno dall’altro ed estranei uno all’altro: vengono disposti nell’implacabile verticalità di una gerarchia al cui apice si erge l’uomo. L’uomo si ritiene superiore a ogni vivente, ritiene gli siano sottoposti animali, vegetali, pietre, acque, aria, astri. Si ritiene padrone della Natura, di cui usare e abusare, padrone che troppo spesso sa disprezzare, mortificare, distruggere.

Secondo il pensiero antico, dunque, e nei miti da esso creati, vegetali, pietre, creature animali pari all’uomo erano tutt’uno nel grande ciclo della Natura; lo testimoniava fra l’altro la metamorfosi di un essere umano, o di una divinità, da una sembianza all’altra. La metamorfosi non stravolgeva l’identità, bensì faceva emergere uno dei suoi molteplici aspetti.

Nell’identità dell’uomo erano contenute e rappresentate tutte le specie animali: lo sciamano – la “strega” – mandava fuori di sé, se così si può dire, quel tal certo animale nel momento in cui quella sembianza era necessaria per un certo rito.

Simile alla Grande Dea, la “strega”, come lo sciamano, ignorava l’antagonismo fra se stessa e gli animali. Ignorava dominio e ostilità verso gli animali, fossero essi selvaggi o mansueti. Non le apparteneva la caccia. Non le apparteneva la guerra.

La maga Circe, come Medea, ebbe i tratti della Grande Dea, fu primordiale guaritrice, signora degli animali e della vegetazione. Fu per eccellenza maga di metamorfosi. Omero e i suoi miti patriarcali la negativizzarono, così come venne negativizzata Medea. A Circe attribuirono qualità negative e intenti malvagi: venne tramandata quale trasformatrice di uomini in porci.

Le “streghe” perseguitate dagli inquisitori furono ritenute simili a Medea e simili a Circe: operavano metamorfosi perverse.

Additate già nei primi Penitenziali da Reginone di Prüm, da Burcardo di Worms, da Teodoro arcivescovo di Canterbury quali incantatrici ossequiose di riti pagani, le “streghe” furono accusate di trasformare in animale se stesse e, peggio ancora, gli altri, grazie alla loro intesa con il Demonio. Peccato gravissimo per la cristianità, questo della metamorfosi, essendo l’uomo stato creato a immagine e somiglianza di Dio: non lo dicevano forse le Sacre Scritture?

Come non bastasse, le “streghe” si sentivano tanto connesse con la Natura che le circondava da poter agire sugli elementi, quali trasformatrici anche delle condizioni atmosferiche. Per magia ritenuta diabolica, schiaffeggiando uno specchio d’acqua con un ramoscello di salice, potevano procurare piogge o tempeste. Così leggiamo nella bolla di Innocenzo VIII, del 1484, elenco di crimini perpetrati dalle popolazioni streghesche.

Come Medea, di cui era sorella, Circe era figlia del Sole. Come maga della trasformazione divenne dea notturna, reggitrice di vita e di morte, divenne dea lunare, quindi Ecate. Ciclicamente, nel cielo della notte, la luna continua a trasformarsi mese dopo mese.

La luna piena è un cerchio. Il nome Circe evoca il cerchio, simbolo quanto mai magico. All’interno del cerchio tracciato sul suolo, si compiono incantesimi, si evocano i defunti, si allontanano spiriti nefasti.

Il cerchio è emblema della ciclicità della Natura, nella spirale vita-morte-vita.

L’isola Eea, posta alle foci del Po fu, secondo Omero, regno di Circe, e non poté che avere valenze funebri. Era isola dei morti – simile a quella di cui fu regina Morgana. Gli Argonauti che la bordeggiarono alla ricerca del vello d’oro, videro Circe splendente in cima alla collina, videro ai piedi della collina cadaveri di uomini penzolare dai salici, secondo gli usi degli abitanti della Colchide dove agli alberi si appendevano i morti maschi, mentre le donne venivano seppellite.

Da Circe, i compagni di Ulisse vennero trasformati in porci – e in cos’altro potevano trasformarsi gli uomini sedotti dal fascino lussurioso della dea, se non in maiali, animali impuri per eccellenza? Anche Circe, come Medea, venne ridotta dalla mitologia patriarcale a donna dalla sessualità insaziabile e quindi vampiro malefico che devasta il maschio. Insaziabile come Circe fu Morgana, e con lei tutte le donne, le “streghe”: non ce lo spiega forse diffusamente il Malleus maleficarum, e non ce lo ricorda la mentalità comune?

L’isola cimiteriale di Circe era isola magica, circondata da ontani. Nella nordica sequenza sacra degli alberi, il mese dell’ontano era il quarto e precedeva il mese del salice, albero sacro alla dea. L’ontano era associato alla magia dell’acqua, era sacro alle nove Muse, albero di ispirazione poetica: la parola del poeta non è forse il prodotto di mistiche trasformazioni spirituali?

L’ontano fu sacro alla Grande Dea: le sue gemme disposte a spirale evocano i cicli vitali e riflettono l’ellittica spirale delle galassie. Già in tempi antichissimi i Greci proibirono il culto dell’ontano diffuso fra le popolazioni matriarcali. A esso sovrapposero i propri culti e i propri dei. Nella cultura celtica il culto sopravvisse e l’ontano fu albero di fate, albero di resurrezione e primo della fila, come più coraggioso, nella “Battaglia degli Alberi”. Molto tempo passò dalla “Battaglia degli Alberi”, e l’ontano continuò a essere ritenuto albero sacro fra le popolazioni nordiche almeno fino al V secolo d.C., quando la Chiesa iniziò la persecuzione degli alberi.

Di indole simile alla cattiva fata Morgana, con la sua bacchetta magica Circe mutò in picchio il re del Lazio, Pico, noto per la sua prestanza virile e per le sue doti profetiche. Pico si ritrovò trasformato nel grande uccello nero dal capo sanguigno, munito di un potente becco con cui perfora i tronchi degli alberi alla ricerca di vermi, producendo un suono simile al frenetico rullo di tamburi.

Nella mitologia dei Greci, Circe fu non solo immagine della lussuria. Le vennero attribuite invidia e gelosia, tipiche qualità femminili da cui discendono, come tutti sanno, malvagità e sete di vendetta. Da che cosa possono scaturire queste tipiche qualità femminili se non dalla tendenza delle donne a perdere la testa per un uomo che ben si guarda dal desiderarle? E che cosa fanno le donne quando ciò accade se non vendicarsi atrocemente per il rifiuto? Forte di tale certezza, la mitologia maschile racconta che Circe, impazzita d’amore per il bellissimo Pico, lo perseguitava con la sua corte sfacciata. Lui non ne voleva sapere. Lei insisteva. Lui continuava a rifiutarla. Allora Circe non ci vide più: per punirlo – Putifarre insegna – lo trasformò in picchio. Venne associato alla quercia, albero degli oracoli, poiché da uomo Pico fu veggente. Non perse la sua dote, in veste di picchio: dal suo tamburellare ritmico nel folto delle selve gli indovini traevano responsi. Così racconta Ovidio nelle Metamorfosi.

Trascuratissima dal mito greco come primordiale guaritrice, Circe vide ricordata la sua sapienza di divina erbaria solo nelle vicende che narrano del re di Creta, Minosse. E qual è il rimedio offerto da Circe e citato dal mito? Forse valeva per guarire anziani malati o bambini ricoperti da eczemi, come sapevano fare le guaritrici con i loro oli di borragine? Nossignori: fu un controveleno, quello preparato da Circe, e aveva a che fare, guarda caso, con il sesso. Le cose andarono così: Pasifae, maga anch’essa, respinta da Minosse per cui aveva perso la testa, nella miglior tradizione attribuita alle donne si vendicò con un sortilegio raffinato, condannando Minosse a emettere non liquido seminale ma un grumo di scorpioni, rettili e insetti ogni volta che avesse posseduto una donna. Inutile dire che appena la faccenda si riseppe, le donne evitarono di infilarsi nel letto di Minosse. Ma Procri, figlia del re di Atene, si innamorò di lui. Pur divorata dal desiderio, rifiutava di buttarsi fra le braccia dell’amato, ben conoscendo cosa il suo membro fosse capace di emettere. Procri ricorse a Circe, cui la mitologia per l’appunto attribuiva grande sapienza in cose di sesso. Circe preparò un pozione magica – controveleno profilattico – per permettere a Procri di congiungersi al suo amato senza ritrovarsi poi il grembo brulicante di bestiacce.

Dal mito, Circe venne rappresentata non come dea della salute, bensì come simbolo della Natura selvaggia, dell’istinto, che si oppone alla razionalità e la distrugge. Cedendo a Circe – al femminile e lubrico fascino – l’uomo si imbestialisce, e diventa autentico animale. Resistendole con la forza della ragione, conserva invece la sua dignità. E buon per lui.

Dai miti che trasformavano le divinità dell’Olimpo in qualsiasi elemento della Natura, alla Bibbia, che vede il re Nabucodonosor mutato in una sorta di uccellaccio, alla letteratura classica, le metamorfosi furono nei secoli argomento straordinario per qualsivoglia racconto o avventura. In particolare, streghe trasformate in disgustosi uccellacci notturni popolano le opere dei classici latini, da cui con tanto zelo attinsero gli autori del Medioevo, e gli inquisitori. Idea diffusa fra il popolo fin dalla latinità, fu che le streghe – striges – in forma di uccellaccio, ma fornite di robusti seni, volassero sulle culle dei neonati per ucciderli allattandoli con il loro velenoso latte.

In questa credenza si intravede negativizzato il volto della Grande Dea, dispensatrice di vita e di morte. La sua epifania fu anche l’uccello. Era Dea Uccello, donna-uccello o uccello-donna – scrive Marija Gimbutas – nelle credenze preistoriche e in quelle storiche.

Nella consuetudine annuale degli uccelli migratori di arrivare a primavera, quando la vita sboccia, e ripartire d’inverno, quando la vegetazione muore, le credenze primordiali leggevano il ciclo vita-morte-vita.

Come uccello acquatico, che ha dimora nelle acque, umido e fecondo, la Dea Uccello era dispensatrice di vita, donava vita – la cicogna portava i bambini – e donava salute e benessere. Era rondine, allodola, colomba, gru e cigno. Dea di sorgenti, paludi, torrenti, stagno.

Come dispensatrice di morte – e di rigenerazione, dal momento che morte e rigenerazione furono costantemente associate – la Dea Uccello era uccello rapace, civetta, corvo, avvoltoio. Avvoltoi con grandi ali simili a scope si avventano su figure umane nelle raffigurazioni neolitiche. Ma sono dipinti di rosso, simbolo della rigenerazione.

Nel Neolitico la Grande Dea venne raffigurata con testa di uccello e grossi seni prominenti, dispensatori di vita e nutrimento. Le streghe in forma di uccello, o con zampe di uccello e penduli seni velenosi, furono immagine negativa della Dea Uccello, definita dalle culture patriarcali come Dea di morte: il concetto di rigenerazione venne cancellato lasciando spazio solo all’orrore generato dalla figura femminile assassina.

Nei racconti medioevali del meraviglioso, la pagana credenza nella “confusione” fra sembianza umana e mondo animale venne dai chierici cronisti rappresentata nella figura della fata che rivelava di essere per metà donna e per metà serpente. Nella fata, animali ed essere umano sono congiunti in un unico corpo: Melusina, innamorata del suo sposo mortale, da donna torna a essere donna-serpente nel momento in cui egli trasgredisce al divieto richiesto dalla fata come patto d’amore.

La credenza che le “streghe” potessero trasformarsi a loro piacere si rinvigorì nel Medioevo all’apparire sullo scenario europeo di Satana, demone capace di mutarsi in caprone, lui che già si era dimostrato tanto ingegnoso da aver assunto le sembianze del serpente nel giardino dell’Eden. Trasformato dunque in capro o in rana, gatto, cane, il Diavolo partecipava alle eretiche adunanze degli albigesi e ne dirigeva le cerimonie e le orge. Questa fu l’accusa della Chiesa che, per estirpare le eresie, molteplici e diffuse, attribuì alle sette eretiche gli elementi della stregoneria – fra cui la capacità di metamorfosi – provenienti dall’antichità pagana. A questi elementi si sovrapposero i miti dei celti, dei cimbri, degli scandinavi, unitamente ai residui delle credenze antichissime che risalivano al Neolitico. Tutti questi stessi elementi, compreso il bacio sotto la coda di Satana attribuito ai catari, vennero trasferiti alla cultura delle streghe. Se nella cultura popolare sopravvissero antichi rituali legati a culti e riti di trasformazione, in essi gli inquisitori individuarono il persistere di religioni pagane supportate, per così dire, dalla presenza di Satana.

Se trasformarsi in animale – la metamorfosi – non avesse un significato ben preciso, non ci sarebbe stata ragione per impedire alle “streghe” di assumere le sembianze di un qualsiasi animale. A chi nuocevano queste loro trasformazioni? Chi veniva danneggiato, se un gruppo di donne, o di uomini, dopo aver comunicato l’un l’altro di essere lepre, o gatto, o cornacchia, danzava mimando le movenze dell’animale prescelto? O celava il volto con una maschera bestiale? O diveniva animale con formule e incantamenti magici? In quanto derivazione di credenza pagana, la metamorfosi non poteva che essere punita dalle gerarchie ecclesiastiche, e con il rogo, in particolar modo nei riguardi delle “streghe” del Cinquecento e del Seicento, più di altre colpevoli di aver perseverato nella tradizione di culti precristiani, protette dalle foreste, dalle montagne inaccessibili, dal fondo delle campagne in cui vivevano.

Le “streghe” potevano dunque trasformarsi in gatto, lepre, cornacchia, topo, cane, ape e lupa, così come si trasformavano le antiche sacerdotesse per rispecchiare le molteplici epifanie della Grande Dea.

Nelle credenze nordiche si era convinti che, trasformate in lupe, le streghe si insinuassero nelle membra dell’uomo per sconvolgergli la mente. Quanto agli uomini trasformati in lupi, la licantropia era realtà di cui nessuno dubitava.

La metamorfosi, che si esigeva per la partecipazione a particolari riti in certi momenti dell’anno, avveniva anche solo sovrapponendo al proprio volto una maschera raffigurante l’animale scelto. Con quella specifica maschera sul volto, chi partecipava al rito era tramutato in animale.

Non a caso, come abbiamo visto, il Penitenziale dell’abate Pirmino del 743 d.C. diffidava i fedeli ad «andare in giro travestiti da cervi», divieto che ritroviamo in altri Penitenziali delle epoche successive, e collegato alla diffusione del rito precristiano che celebrava il Dio Cornuto delle religioni antiche, il dio della vegetazione nascente o morente. Ancora una volta possiamo ricordare il Dio Caprone danzante sulle pareti delle grotte dell’Ariège.

Nel 1569 in Lorena, un uomo chiamato in causa durante un processo per stregoneria, dichiarò agli inquisitori di aver assistito in aperta campagna e in pieno giorno – a mezzogiorno – a una danza di uomini e donne che ballavano schiena a schiena, alla maniera delle fate, e avevano zampe da capro. Nella stessa epoca, un testimone in altro processo per stregoneria raccontò di aver visto in una grotta donne mascherate da gatto, sedute tutt’intorno a una tavola a banchettare.

Lucrezia Geminiani, processata come strega a Valmaggiore in Romagna, nel settembre del 1559, dichiarò ai giudici di trasformarsi in serpente per poter entrare nelle case e mangiare e bere a sazietà percorrendo indisturbata la tavola imbandita. Nella mente di Lucrezia, doveva essere ancora ben vivo il rapporto che fin dai tempi antichi la popolazione delle campagne aveva con i serpenti, associati, come vedremo, alla Grande Dea della Natura.

Nel 1673 Anne Armstrong – l’esperta in metamorfosi a beneficio di Satana – confessò di esser stata trasformata in cavalla per portare sulla groppa tale Ann Forster e trasportarla al raduno delle streghe a Riding Mill. Vale la pena di ricordare che il culto della Grande Dea come dea-cavalla era molto diffuso fra i celti.

Ognuno degli animali che venivano invocati nelle metamorfosi “streghesche” si riferiva a quegli stessi animali con i quali, negli antichi culti e negli antichi riti, era connessa la Grande Dea nelle sue molteplici epifanie.

Essa era gatto, animale sacro a Diana, Iside, Birgit, Freya, dee della fertilità in cui la Grande Dea si rispecchiava nelle diverse culture.

Per cancellare il culto della Dea Gatto, nel 1200 san Domenico si affrettò a identificare il gatto nero con Satana, e papa Gregorio VII nel 1233 emise la bolla Vox in Rama che esortava a sterminare i gatti e specialmente quelli neri. Ancora nel Rinascimento si gettavano dall’alto di una torre alcuni gatti neri per significare che la città non era pagana. O si bruciavano vivi, in ceste di vimini appese sopra un falò.

La Grande Dea era rospo, che veniva considerato raffigurazione sacra dell’utero della dea, e simboleggiava la forza vitale e la rigenerazione. La dea germanica Holla in forma di rana restituisce alla terra la mela rossa, simbolo della vita. Dopo l’avvento della cristianità, le donne che soffrivano di disturbi all’utero offrivano pelli di rospo alla Madonna. Ancora nel vicino 1811 in una chiesa della Baviera venne rinvenuto un ex voto che raffigurava un rospo con una vulva umana dipinta sul dorso, posto ai piedi della Vergine Maria.

La Dea era Dea Toro, mistica fonte di vita con le sue grandi corna simili a falci lunari. Tori bianchi erano sacri alla Dea che del resto nella testa del toro vedeva rappresentata la forma di utero e ovaie. Simboli di rigenerazione e del divenire, i tori sono raffigurati in tutta l’arte neolitica.

La Dea era Dea Farfalla e Dea Ape. La farfalla è l’incarnazione del principio della trasformazione, manifestazione della Dea nel suo aspetto di vita emergente, con la sua forma a bipenne o a clessidra. L’effimero corso della sua esistenza suggeriva l’idea della fugacità del tempo, e veniva associata a idee di morte.

L’ape produce miele, antichissimo alimento materno con il latte. Nel miele, puro elemento di trasformazione, il mondo vegetale e il mondo animale si saldano a beneficio dell’uomo. Nello sciame delle api si rispecchiava la struttura delle antiche società matriarcali.

Le donne che finirono sui roghi, fossero esse guaritrici o no, vivevano ancora in un loro mondo in cui il pensiero sciamanico della metamorfosi, e quello potente della trasformazione, connotava il rapporto che esse avevano con la Natura circostante, con le piante e con gli animali.

Antiche formule, danze, movenze simulanti questo o quell’animale, venivano tramandate da una generazione all’altra, di madre in figlia, insieme alle credenze, alle superstizioni, ai miti, alle fiabe, a un universo di realtà e di sogno, che sarebbe finito in cenere.

La Natura, in cui esse agivano e vivevano, pulsava di significati, di simboli, di vicende, di emblemi.

Era creatrice del mondo dello spirito e quindi del respiro, del fiato e dell’alito – divino – della voce, della parola, del logos. La voce declamava misticamente la formula magica che accompagnava i riti.

La stessa Natura era creatrice delle voci che precorrono prati e foreste e mare, voce del vento e voci di animali, richiami d’amore o di avvertimento, universo unitario di creature delle lande e di foreste e della profondità del cielo.

Il volo circolare del falco, che stride alto nel cielo sopra gli alberi, racchiudeva simboli molteplici, colti dallo sguardo primordiale intento a contemplarlo.

Scopa, bacchetta magica, calderone, strega con capelli arruffati. E tutt’intorno un bel gruppetto di animali, ritenuti disgustosi dalla mentalità comune: gatti, rospi, serpenti, pipistrelli, porcospini. E lepri. Così veniva rappresentata la strega nella iconografia medioevale e rinascimentale. Ci sarebbe da chiedersi perché ogni bambino alla parola “strega”, senza aver avuto particolare istruzioni in merito, sia pronto a rappresentarla in questo modo, la strega, e innanzitutto brutta, grifagna, gobba.

I signori inquisitori ascoltavano deposizioni in cui le imputate raccontavano come cavalcassero la scopa o il bastone per recarsi al sabba, o come usassero una bacchetta magica per i loro sortilegi, oppure come rimestassero nel loro calderone per preparare le pozioni.

Quanto ai capelli arruffati, bastava guardarle, queste donne di campagna, strappate prima dell’alba dalle guardie al loro casolare, trascinate in carcere, messe sotto tortura. Eppure nei capelli fitti di nodi con cui apparivano nell’aula del tribunale, secondo la superstizione corrente – e le credenze – gli inquisitori decifravano viluppi malefici, poiché ai nodi in genere venivano attribuiti valenza e poteri magici. Non a caso Albrecht Dürer in una sua celebre litografia rappresenta la strega priva di sensi e con i capelli che ricadono lisci. È la magica forza del nodo che nella strega alimenta la sua potenza malefica. Strega con capelli non arruffati è strega svenuta, se non morta. Strega con capigliatura selvaggia non solo è strega potente: la chioma arruffata stessa dimostra che è strega, poiché è la capigliatura ordinata, acconciata che definisce l’appartenenza della donna al consesso civile. Presentarsi con i capelli in ordine, ben pettinati, privi di nodi, “domati”, dichiara l’inserimento della donna – Venere o donna pia – nel ruolo che la cultura dominante le ha assegnato.

L’annodare, il legare, l’unire, l’intrecciare – anche le dita – veniva considerato fin da tempi antichi pratica magica capace di trattenere forze positive o negative, o di respingere forze positive o negative.

Così anche il ragno che intreccia la sua tela munendola di nodi, il ragno che tesse, rimanda a primordiali simboli di potenza femminile che con il laccio – con la rete – ha la capacità di incatenare il maschio. Dove domina l’ossessione del principio maschile, là il nodo, l’intrecciare, il tessere, ha valenza malefica e negativa, e malefico e negativo diviene quel “femminile”, già onorato in quanto principio creatore e alimento di vita. Di duplice significato furono i simboli connessi quindi con i nodi e con i legacci. Non per niente il termine “legatura” indica incantesimo, malìa.

Molti amuleti avevano forma di nodo già presso i babilonesi. Giunse fino ad Alessandro Magno la fama del nodo con cui, in Frigia, il contadino Gordio aveva legato con stringhe di cuoio il giogo taurino. Quando un’aquila inviata da Giove si posò sul giogo, vi pose il segno della sacralità religiosa e della sapienza, destinando Gordio a divenire re della Frigia: nessuno al suo posto avrebbe potuto controllare tutta l’Asia Minore, se non avesse avuto la capacità di sciogliere, con sapienza e intelligenza, il nodo cui si attribuivano poteri di natura religiosa. Alessandro Magno, l’invasore, non sciolse bensì tagliò di netto il nodo usando la spada, sprezzante del rito richiesto. Nel suo gesto brutale, definì la forza del potere sulla religiosità e sulla sapienza.

Gli inquisitori non furono da meno, seppur con diversa modalità: spedivano al rogo la “strega” con le chiome aggrovigliate e che portasse al collo i suoi sacchettini in cui riponeva, insieme a erbe particolari, semi e piccoli amuleti formati da fili legati e intrecciati. Nodi, in questo caso, di valenza malefica. Del resto il più antico documento di diritto popolare tedesco, la legge salica, proibisce il “far nodi” per compiere malefiche magie. Nel 743 il concilio di Liftina proibisce alle guaritrici nodi magici. Nei suoi Penitenziali, Burcardo di Worms impone ai confessori di chiedere ai fedeli: «Hai intrecciato nodi per preservare il bestiame dalle malattie?». Il divieto di Burcardo conferma quanto il nodo fosse ritenuto anche rimedio contro malattie e nefasti sortilegi.

Pratica sacrale pagana, il far nodi. Pratica precristiana che nel 1446 i vescovi riuniti nel Concilio di Ratisbona decisero di punire con la pena di morte. Come dimenticare che prima dei divieti della cristianità, ornamenti a forma di nodi decoravano le chiese pregotiche, per svolgere azione protettiva contro potenze malefiche? E come non ricordare, allora, che il simbolo antichissimo del nodo era emblema sacro alla Grande Dea della Natura, protettrice benefica poi detronizzata?

Incisioni, quadri, xilografie raffiguranti streghe intente a rimestare nel calderone, o volanti a cavallo di scope o bastoni, invadevano l’iconografia, soprattutto nei secoli XV e XVI, ben prima che Francisco Goya, del 1799, dipingesse la Linda Maestra. Qui Goya raffigura due streghe volanti a cavalcioni di una scopa e tenute d’occhio da un gufo. Orrido è l’aspetto della maestra alle cui spalle si aggrappa la giovane allieva che nasconde il volto.

Intorno al 1480, il pittore toscano Filippino Lippi rappresentava il calderone quale tripode, sostenuto da tre zampe di lepre terminanti in muso di cane. Nel calderone rimesta fumanti intrugli una giovane strega assistita da un’altra figura femminile, arcigna.

Shakespeare apre il Macbeth con il calderone attorno al quale si agitano tre streghe, che recitano formule magiche. Il sortilegio che esse intendono attuare ha origine lì, nel calderone che troneggia sulla scena.

Se la metamorfosi è trasformazione visibile, il calderone è emblema di trasformazione spirituale. Emblema di magia.

Secondo lo storico Robert Briffault la cultura dell’uomo primitivo fu prodotto del gruppo femminile, gruppo matriarcale che creò vasi, sculture, ceramiche. Ogni attività del quotidiano – preparare il cibo, plasmare vasi, accendere il fuoco, preparare utensili – veniva tramandata di madre in figlia da una generazione all’altra, quale rito e quale mistero. Il fondamentale rapporto fra madre e figlia tracciò il perpetuarsi della tradizione, fu rapporto fra maestra e allieva che a sua volta diviene maestra, fu rapporto in divenire, simile a quello fra la dea dell’orzo, primordiale alimento, e del grano, Cerere, con la figlia Proserpina, dea della morte e della rigenerazione. Rapporto di solidarietà e di coesione, di reciproca fiducia, che le Inquisizioni – con soddisfazione, immagino, di san Bernardino da Siena – riuscirono a spezzare, quando sotto tortura si videro le figlie accusare di stregoneria le madri e viceversa, nella speranza atroce di scampare alle fiamme offrendo al tribunale la delazione.

I misteri primordiali delle donne erano segnati da tappe fondamentali: parto, mestruazioni, concepimento, sessualità, morte e rigenerazione. La donna raccoglieva i frutti della terra e li trasformava in alimento. La donna era per natura colei che nutre, che allatta, signora di tutto ciò che attiene al cibo, alla sua conservazione e trasformazione. La donna concepiva e nel suo utero trasformatore nasceva il figlio. La donna tesseva, trasformando la pianta del lino in tessuto, annodava, vestiva, cuciva. Conservava e sorvegliava il fuoco e nel fuoco trasformava il vaso in ceramica, nel fuoco trasformava il grano in pane. Ognuno dei suoi gesti era rituale, connesso con i misteri femminili.

Il vaso – il calderone – era associato al carattere trasformatore femminile, e con il vaso, la dimora, la caverna, la grotta, l’area sacra, il recinto, il cerchio: esprimevano tutti una “periferia che contiene”, analoga all’utero. Nella divinità della vegetazione la donna primordiale si rispecchiava, coglieva le forze spirituali trasformatrici della Natura, osservando il mondo in cui viveva. La Grande Dea donava grano e orzo, erbe e frutti e bacche e radici, donava la vite.

Riflessa nella Dea, la donna divenne magica trasformatrice di ogni elemento della Natura: raccoglieva erbe, era guaritrice, produceva pozioni curative o inebrianti con sostanze vegetali, vite, papavero, di cui conosceva la forza. Divenne essa stessa dea e signora della medicina delle erbe e dei veleni. Divenne donna sapiente. Divenne strega. Come sacerdotessa o come “strega” dall’inizio dei tempi e in tutti i Paesi, dagli egiziani ai celti, e in tutto il mondo, essa fu la «signora dell’azione magica» e fu «la veggente primordiale» – scrive Erich Neumann – «signora delle acque profonde che danno la saggezza [...] capiva lo stormire degli alberi e tutti i segni della Natura [...] sopraffatta dallo spirito che emergeva in lei e che da lei parlava [...] esprimeva la sua magia in formule ritmiche scandite [...] essa fu centro della magia, del canto magico e della poesia. Fonte di sapere [...] creatrice del linguaggio che fluisce dal profondo. Essa fu Musa [...] fu Anima ispiratrice del poeta».

Il calderone fu vaso di vita e di morte, di rinnovamento e rinascita, di magia e di ispirazione.

Nel calderone avveniva la trasformazione della materia in sostanza terapeutica o in alimento, trasformazione concepita come magica, compiuta dalla donna e solo da lei. Essa stessa era vaso di trasformazione. Vaso e calderone – simboli della fertilità – furono inscindibili dalla figura divina femminile, dalla sacerdotessa. E, in seguito, dalla “strega”. Medea fu rappresentazione primordiale del principio femminile della trasformazione, della guarigione, dea sapiente del mondo vegetale; Circe fu signora degli animali, analoga a Diana e dea della metamorfosi. Dee svalutate dal patriarcato, negativizzate, divenute streghe.

Associato alle maghe avvelenatrici, alle guaritrici accusate di esser “streghe”, il calderone venne demonizzato dalla cristianità quale contenitore non più di trasformazione benefica, bensì di pozioni infernali. Non più grembo trasformatore della Grande Dea che ci nutre, bensì sede di veleni. Per gli inquisitori, dal calderone non si sprigionavano più fumi odorosi, risanatori, inebrianti, ma nebbie che scatenavano epidemie e tempeste. Da esso scaturirà non più magia benefica: il calderone divenne centro dei sabba, quando si scatenano le malefiche forze femminili.

Vennero cancellati i misteri femminili dei tempi antichissimi, connessi con la capacità femminile di creare in sé la vita, mistero sul quale si era fondata la visione magica del mondo.

La scopa su cui vediamo volteggiare le streghe nell’iconografia medioevale e rinascimentale, nell’intento di pittori, incisori, disegnatori, venne associata alla vecchia grifagna che sfuggendo dal camino si recava al sabba, per compiere una sua qualche scelleratezza. Alla maga, e spesso anche alla strega, erano associate la bacchetta magica o il fuso.

Betulla, frassino e salice furono i tre alberi da cui nascevano la bacchetta magica e la scopa, strumenti incantati inscindibili dalla figura della donna in rapporto con la magia, alberi dal potente significato, la cui forza spirituale veniva trasferita alla scopa e alla bacchetta. Da questi tre alberi sacri la scopa e la bacchetta, strumenti sciamanici per eccellenza, traevano il loro potere.

Secondo la tradizione celtica, sacerdoti e sacerdotesse con un tocco di bacchetta magica potevano, come Circe, trasformare un essere umano in uccello o in maiale. Con la bacchetta magica le fate operavano i loro incantesimi. Bacchetta magica era il fuso: ruotando in modo uniforme alludeva alla ciclicità della vita e della morte.

Spazzare il suolo del recinto sacro, della soglia della casa, della periferia del bosco sacro, fu gesto antico che apparteneva ai culti: gesto sciamanico con cui si spazzavano via gli spiriti impuri che invadevano il terreno sacro. Le antiche sacerdotesse o le maghe celtiche, usavano la scopa per allontanare le potenze negative e i demoni. Demonizzate esse stesse nel corso della colonizzazione operata dalla cristianità, chiamate streghe, si ritrovarono in mano non più un oggetto sacro, di culto, ma un oggetto che venne definito fallico, demoniaco, un oggetto il cui unico scopo sarebbe stato quello di valere come cavalcatura: inforcando la scopa, la strega raggiungeva il suo infernale amante.

Le gerarchie ecclesiastiche demonizzarono anche la scopa delle streghe, e gli alberi usati per fabbricarla, e con essi demonizzarono tutti gli alberi, tutta la vegetazione che nelle religioni antiche e antichissime furono fondamentali elementi di culto.

Il manico della scopa veniva costruito usando legno di frassino. E come avrebbe potuto essere albero diverso dal frassino, di così pregnante significato spirituale?

Il frassino, descritto nell’Edda del XIII secolo, era considerato nelle antiche credenze il mitico albero del mondo. Con le sue vibranti fronde e le sue possenti radici congiungeva il cielo con gli inferi. Con la sua altezza sosteneva il cielo e fu albero di rinascita, dalle portentose virtù risanatrici.

Coloro che venivano guariti dal frassino vegliavano su di lui, perché nessuno lo abbattesse: in questo caso la malattia sarebbe ricomparsa e mortale.

Il frassino fiorisce prima che il serpente esca dal letargo e perde il fogliame solo quando il serpente rientra nel letargo, ed è medicamento miracoloso contro i morsi delle vipere. Ha tre radici possenti di cui la prima si spinge nel regno degli dei, fino alla fonte dove risiedono le tre Norne – le Parche – reggitrici del destino dell’uomo. La seconda radice raggiunge lo spazio cosmico; accanto a essa sgorga la sorgente della saggezza e dell’intelligenza. La terza radice sta nel cielo, dove gli dei amministrano la giustizia.

L’abbattimento dei frassini, alberi sacri fra i celti, nel 665 d.C. da parte dei missionari cristiani segnò il trionfo della Chiesa sulle religioni antiche.

Fu albero sacro al dio nordico Odino, che lo usò come cavalcatura nella “Battaglia degli Alberi”.

Prima ancora, fu albero sacro alla Grande Dea. Le antiche imbarcazioni celtiche avevano remi in frassino, che tramite il suo rapporto con la Dea simboleggia il potere sul mare e su tutte le acque.

Fu terzo albero dell’alfabeto arboreo, albero del terzo mese dell’anno, mese delle piogge e delle piene, posto sotto la tutela della Notte. Di frassino fu la bacchetta magica dei druidi, decorata con spirali, emblemi della Grande Dea.

Di frassino, dunque, era il bastone della scopa sciamanica, attorno al quale, con rami di salice le “streghe” legavano rametti di betulla.

Argentea, aerea con quelle sue foglie sensibili alla minima brezza, luminescente nella sua chiara corteccia, la bellissima betulla è albero sciamanico per eccellenza. Albero magico. Nello sciamanesimo siberiano, la betulla è l’Albero cosmico ed è con una scopa di rami di betulla che lo sciamano celebra i riti di iniziazione. Scalando ritualmente la betulla lo sciamano che esce da se stesso, vola fino al cielo e in qualsiasi luogo, ottiene il dono della divinazione e quello di evocare gli spiriti di qualsiasi natura, le anime dei defunti, e la pioggia.

Ai piedi della betulla nasce, non a caso, l’Amanita muscaria, fungo di allucinazioni e stati di coscienza alterati, mortale solo per chi non sa usarne.

Dal tronco d’argento della betulla si sporgeva verso lo sciamano una figura di donna, che è lo spirito della pianta, capelli sciolti e braccia tese per stringerlo a sé, al proprio seno gonfio di latte, da cui lo sciamano succhiava la linfa della forza e della saggezza.

La betulla è albero di luce. Nell’alfabeto degli alberi sacri ai celti era il primo, associato al ritorno della luce, al risveglio del serpente dal letargo, al primo fremito della Natura che esce dal sonno invernale per tornare a fiorire. Dedicata alla luna per il suo lucore argenteo e dedicata al sole, perché primo albero a metter le foglie, la betulla albero duplice veniva celebrata il 1° febbraio durante la festa di Imbolc. Con verghe di betulla si frustava l’aria per scacciare l’anno vecchio e accogliere il nuovo anno con i suoi germogli, i suoi frutti, le future messi.

Albero di saggezza, la luminosa betulla, e connesso alle guarigioni. Con la sua corteccia, infatti, le guaritrici ottenevano infusi per scacciare la febbre e depurare il sangue, la pelle, la bile. Con la sua linfa curavano reumatismi e gotta.

E per scacciare spiriti nefasti, preparavano la scopa disponendo rametti della sacra betulla intorno al bastone di frassino; con gesto rituale legavano i rametti con il flessuoso salice, sacro alla dea Luna, alla notturna manifestazione della Grande Dea.

Alla Grande Dea il salice è sacro, scrive Robert Graves, perché è albero d’acqua, sorge lungo i torrenti lungo fiumi e stagni. È albero di umidità come umida è la notte che la Luna irrora di rugiada, umido è l’utero che dispensa la vita. Albero sacro di vita e di morte, poiché la Luna ha triplice volto – vita-morte-rigenerazione – essendo anche Ecate, dea degli Inferi. Il salice era sacro a Circe che indicò a Ulisse la via per scendere nell’Ade, luogo di morti, costeggiato da pioppi neri e da salici. Dai complessi significati di vita e di morte, il salice serviva per costruire i cestelli che anticamente venivano usati per vagliare i cereali.

Ceste di vimini contenevano i sacrifici che gli antichi sacerdoti celtici offrivano nelle notti di luna agli dei. Le selci funerarie celtiche erano a forma di foglia di salice. Il nome greco del salice – helike – diede il nome in Tessaglia al monte Elicona, dimora della Muse. Oltre alla vita e alla morte, il salice fu albero connesso con l’eloquenza mistica: ne ebbe il dono il poeta Orfeo toccando i salici del bosco sacro alla Dea della morte.

Albero sacro all’ispirazione, ai poeti, il salice è il quinto albero dell’alfabeto arboreo, e il numero cinque è sacro alla Grande Dea nel suo aspetto lunare.

Perde i suoi frutti rapidamente. Appena maturi essi cadono al suolo che li accoglie per rigenerarli: per questo il salice divenne simbolo del ciclo generatore e rigeneratore della Madre Terra o Grande Dea. Albero dedicato a tutte le dee madri di ogni cultura, dal duplice significato di fecondità e di castità. Albero di vita, crescendo accanto all’acqua, fu percepito come tale dalla cultura ebraica che usa i rami dei salici nella Festa delle Capanne, secondo i precetti del Signore.

Albero considerato simbolo di castità dai cristiani, poiché bevendo acqua di salice si smorzano, fino ad assopirsi, le passioni della carne, la lussuria e l’incessante desiderio sessuale. La pozione di salice può rendere a tal punto casti da procurare sterilità o impotenza, così come sterile può apparire questo albero che perde subito i frutti che genera. La castità, come tutti sanno, è sotto il potere del Demonio che non la perde d’occhio: chi alla castità simboleggiata dal salice si vota, più dei non casti è esposto alle tentazioni del sesso. Non pochi santi vennero raffigurati con un ramo di salice fra le dita, perché vittoriosi sulle tentazioni della carne.

Albero di pioggia, il salice. Albero tramite fra il mondo dei vivi e quello dei morti, come nel regno animale tramite fra i due mondi è il corvo.

Per il suo legame con la Luna e con il mondo sotterraneo e notturno – mondo di magia – il salice venne dal Medioevo ritenuto albero delle streghe, albero di malefici, benché con la sua linfa le guaritrici ottenessero pozioni e unguenti formidabili nel risanare omeopaticamente malanni dovuti all’umidità: reumatismi e febbri reumatiche.

Vita e rinnovamento e rigenerazione, veggenza e ispirazione poetica, senso religioso del ciclo vita-morte-vita e ricchezza simbolica connessa con gli alberi sacri costituiscono una visione del mondo che venne stravolta e sgretolata nell’immagine della strega che vola aggrappata alla scopa, figura nera, stagliata lugubremente contro l’esangue disco lunare.

Strega portatrice di malefici. Di morte. Donna malefica che si trasformava in uccello per succhiare il sangue dei bambini. Strega che divorava i cadaveri, se fin dai tempi antichi un editto franco del 789 d.C. condannava il cannibalismo delle streghe. Il domenicano Girolamo Visconti ancora nel 1460 accusava le streghe di antropofagia: del resto non è da sempre che si accusa il proprio nemico di cibarsi di carne umana e in particolare di mangiare i bambini?

Confluiva nelle accuse di cannibalismo il ricordo di antiche tradizioni sciamaniche. La deglutizione rituale del corpo di defunti permetteva di appropriarsi di qualità appartenute al morto, o di evocarne lo spirito. Si ingerivano parti del corpo per fini divinatori.

I negromanti rinascimentali nel corso dei loro riti squartavano una volpe, una talpa e una civetta per divorarne il cuore, e acquistare doti di astuzia, divinazione, saggezza. I sacerdoti dei tempi antichi si procuravano la facoltà della divinazione ingerendo cuori di talpa, animale sotterraneo. Uccelli che divoravano cadaveri, come i corvi, venivano ritenuti uccelli sapienti e divinatori.

È indubbio che nei secoli delle grandi cacce alle streghe, l’antropofagia non fosse praticata, eppure alle donne accusate di essere streghe veniva mossa l’accusa di divorare i bambini, se non parti del corpo di defunti da esse rimossi nei cimiteri.

Dalle Inquisizioni la “strega” venne vista come assassina. Gli alberi vennero perseguitati. Gli animali demonizzati, perché se è vero che la strega può trasformarsi in lepre, rospo, gatto, serpente, ape, corvo o cornacchia, è anche vero, secondo la mentalità comune, che tutti questi animali possono essere streghe.

Del resto, nella tradizione popolare di tutta Europa, permane tenace l’immagine preistorica della Dea della morte a cui venne sovrapposta la figura della donna-strega.

Gli avvoltoi che si avventano su una figura umana, raffigurazioni neolitiche risalenti al VI secolo a.C., vennero rappresentati, come già detto, con grandi ali simili a scope. Su una scopa vola nel cielo, portatrice di morte, la strega.

Se densi di sacralità furono nelle credenze pagane gli alberi con cui veniva costruita la scopa magica, nell’ottica della Chiesa, la scopa – simile alle ali degli avvoltoi o dei corvi – permetteva alla strega di volare, per renderla simile a uccello di morte. L’iconografia, e la mentalità diffusa, che vedevano nella strega una creatura volante a cavallo di una scopa, potevano forse aver fatto uso, in forma stravolta, dell’immagine del volo angelico: le ali che sostengono gli angeli, venivano rappresentate come fasci triangolari di luce. Triangolo era la forma della scopa che sollevava la strega da terra per condurla ai suoi convegni satanici.

Le streghe della tradizione popolare – associate all’idea della morte, streghe assassine, streghe-avvoltoio – volano in stormi, siedono sulle betulle dove sciolgono i lunghi capelli, impediscono alle piante di crescere, tagliano a metà la luna, arrestano la fertilità, tolgono il latte alle mucche, trasformano gli uomini in lupi, annientano i poteri vitali. Esse uccidono. Riflettono le forze distruttrici della Natura, della Grande Dea.

La Grande Dea non colpisce per punire i peccati: la sua opera apparentemente crudele è necessaria alla rigenerazione. Essa arresta i poteri vitali perché non fioriscano per sempre – scrive Marija Gimbutas – così da permettere la continuità in un nuovo ciclo vitale.

In tempi storici l’antica Dea decadde divenendo strega. Strega che vola su manici di scopa, vecchia e grifagna maledice e uccide i bambini, avvelena invece di guarire, si trasforma in mostro, scaglia maledizioni ed è temuta perché immagine dell’antica Dea, di cui pare rappresentare i poteri: controlla i mutamenti atmosferici, scatena grandini, provoca carestie, ha potere sulla fertilità e sulla sessualità. La strega personifica il lato crudele della Natura privata del suo significato di rigeneratrice. Associando la “strega” a Satana mediante il patto diabolico del duplice volto della Dea, volto di morte e volto della rigenerazione, gli inquisitori cancellarono il secondo.

Le Inquisizioni accolsero credenze, tradizioni, superstizioni popolari per condurre la guerra contro le guaritrici e le donne sapienti, ricche delle proprie antiche credenze, tradizioni e sapienza della Natura.

Con le “streghe”, le Inquisizioni perseguitarono la Natura fin nel folto delle foreste remote, per stanare e distruggere uno dei più tenaci e antichi culti: il culto degli alberi. Ogni albero, ogni cespuglio, ogni fiore aveva nelle antiche credenze e nei miti la sua vicenda, connessa alla sua divinità specifica, alla sua fata, alla ninfa, agli esseri elementari. Le foreste, muraglia di alberi e di culti dedicati alle dee – e successivamente agli dei – verdi fortezze che parevano inespugnabili, si opponevano all’opera di cristianizzazione dei missionari della Chiesa.

Le foreste accoglievano divinità e sacerdotesse della divinità. Accoglievano le streghe.

Poiché la strega è figlia della Natura da cui – si dicevano gli inquisitori l’un l’altro – attinge le proprie conoscenze malefiche, distruggendo la Natura annienteremo la strega. In breve: per acchiappare i pesci non c’è come levargli l’acqua.

Come la “strega”, l’albero divenne il nemico da estirpare.

Si diceva che la schiera di Diana volasse fino al grande albero di noce situato a Benevento, per riunirsi in convegno. Si diceva che le streghe volassero – unguento unguento portami al noce di Benevento – fino al noce di Benevento per partecipare al sabba e copulare con i demoni e con Satana.

Nel VI secolo il vescovo Barbato fece sradicare il noce di Benevento per porre fine una volta per tutte a culti pagani che i Longobardi ancora vi celebravano. Quando il vescovo morì, l’albero ne approfittò per rispuntare e divenire nei secoli delle cacce alle streghe famoso luogo di convegni delle “donne malefiche”, secondo le confessioni delle imputate dei processi per stregoneria. Dedicato a Diana, il noce fu albero sacro della Grande Dea della Natura, albero di rigenerazione e di abbondanza. Quello di Benevento in particolare, fu luogo celebre di riti precristiani, e come tale demonizzato e successivamente abbattuto dalla Chiesa.

L’Europa primordiale era fitta di sterminate foreste che si estendevano coprendo territori immensi. Ancora nel I secolo a.C. si poteva viaggiare per due mesi dal Reno verso est senza vedere la fine della foresta che copriva quei territori.

Cupe, solitarie, misteriose, le foreste spaventavano chi si recava verso le terre settentrionali, rese impenetrabili dagli alberi. L’Inghilterra era ricoperta di foreste, e così la Francia, la Germania e l’Italia, in particolar modo la Lombardia, fitta di querce, noci, frassini, castagni. Era ricoperta di foreste la Grecia. I santuari più antichi furono le foreste, le divinità furono gli alberi. I culti dei sacerdoti celtici si svolgevano nei boschi sacri. Le leggi degli antichi germani punivano brutalmente chi osasse anche solo strappare la corteccia di un albero ancora radicato. Dall’Italia all’estremo lembo nordico dell’Inghilterra, e specialmente nelle culture celtiche, l’albero era sacro.

L’albero, verticale, assicurava il contatto del cielo con la profondità della terra ed era tramite fra due mondi: firmamento e inferi. Nel ciclo della vegetazione che nasce, vive, muore e si rinnova, si specchiava il volto della Grande Dea della vita, della morte e della rigenerazione. La visione sacrale dei ritmi della Natura rendeva l’albero un modello per l’uomo se non il suo antenato.

Albero e uomo sono del resto le uniche due creature che si ergono verticali, perpendicolari al suolo, e dal suolo si alzano verso il cielo. Tutte le altre creature hanno, per così dire, la spina dorsale parallela al suolo. Albero e uomo sono gli unici ad avere sulla terra i piedi – le radici – e il capo – le fronde – protesi verso il cielo. Come ignorare quanto albero e uomo siano congiunti?

L’umanità dei primordi viveva con l’albero. Di legno fu la capanna primitiva, dal legno sbocciò il fuoco, la luce. L’albero nutriva, proteggeva, insegnava all’uomo serenità, forza, accoglimento delle creature della terra, essendo egli stesso nido e territorio di uccelli e animali. L’albero segue i ritmi del sole, perde le foglie e sembra defunto in inverno, simboleggiando la morte. Nel caldo grembo della terra prepara la nuova vita, il risveglio, la primavera. La rigenerazione.

Furono piante i primi esseri viventi poiché gli animali non possono vivere senza piante.

Nella Genesi, leggiamo che il Signore, dopo aver creato la luce separandola dalle tenebre, dopo aver creato le acque il cielo la terra, creò, nel terzo giorno della Creazione, erbe e piante: «Produca la terra della vegetazione, delle erbe che facciano seme e degli alberi fruttiferi, che secondo la loro specie portino del frutto avente in sé la propria semenza, sulla terra».

Nutrimento dell’albero sono gli elementi, le forze del cosmo, dal terreno egli assorbe i suoi alimenti, dal sole trae la clorofilla che sviluppa ossigeno: l’aria che noi respiriamo.

L’albero drena le acque, i vapori che trattiene evaporano in nuvole. Cade la benefica pioggia.

L’albero dà ombra, dipinge il mondo con le sue infinite sfumature di verde e con l’incanto dei suoi fiori. Dove cresce sgorgano le sorgenti, le fontane, la vita. L’albero è culla ed è bara. Dal cielo, attraverso l’albero scendono sulla terra le divinità. Nel vento che percorre le fronde degli alberi, la Grande Dea aveva la sua voce.

San Germano, vescovo d’Auxerre, se ebbe molto da ridire contro la schiera di Diana che i suoi fedeli ancora accoglievano nelle loro case imbandendo la tavola, di suo continuava tranquillamente a seguire l’antica usanza di appendere agli alberi le pelli degli animali cacciati, per onorare la divinità.

Venne rimproverato dal santo eremita Amadoro: «Ma come, noi ci facciamo in sette per tentare di sradicare i riti pagani insieme agli alberi oggetti di culto, e tu ogni volta che torni dalla caccia continui a celebrare quegli stessi abominevoli riti?». L’eremita fece abbattere l’albero, ma dovette fuggire inseguito da Germano inferocito, deciso a uccidere il sant’uomo e vendicare la morte dell’albero sacro.

Santi e missionari della cristianità abbattevano boschi sacri, sradicavano alberi, bruciavano le foreste allo scopo di distruggere i riti pagani e imporre la propria religione. Non poche volte vennero uccisi dalla popolazione furibonda nel vedere sacrilegamente distrutta la propria visibile divinità. L’albero poteva essere tagliato solo con riti appropriati e per uso quotidiano. Solo per necessità.

Concili ed editti cristiani si susseguirono nei secoli per vietare l’adorazione degli alberi, unitamente a quella delle sorgenti e delle pietre.

La fondazione di monasteri e di abbazie in tutta Europa e nelle zone più isolate non seguì in particolare i percorsi spirituali dell’eremitaggio e della meditazione. Monaci e abati, campioni della cristianità, che si addentrarono nelle foreste per stabilirvi sede e possedimenti, perseguivano infatti un duplice scopo: dissodare nuovi territori e, affondando la scure nel cuore della Natura, eliminare il santuario delle religioni precristiane: l’albero, il bosco, la foresta. E con essi eliminare gli animali che popolavano alberi, boschi, foreste, tutti manifestazioni del paganesimo, tutti dedicati alla Grande Dea.

Eppure ancora nei secoli delle persecuzioni le “streghe” confessavano agli inquisitori di sedersi sugli alberi, di danzare intorno agli alberi, di volare – sulle loro scope costruite con i rami degli alberi sacri – nei luoghi dei sabba, e qui, sotto gli alberi, si incontravano con il Diavolo, trasformato in capro, esse trasformate in gatte e con tutto un seguito di serpenti, rospi, corvi, rane, animali definiti diabolici dagli inquisitori.

Con il serpente a lei sacro, simbolo della rigenerazione, con l’ariete che la Chiesa trasformò in gran maestro di danze sabbatiche, con i rospi, la rana, il porcospino, primordiali emblemi del suo utero umido, la Grande Dea della Natura si ritirò sempre più nel folto delle foreste, devastate, depredate, bruciate.

La sua religione la venerava quale Dea Madre creatrice. L’universo era il suo corpo. La Terra da cui tutte le creature ebbero origine non era polvere, com’è scritto nella Sacra Scrittura. Nella religione della Grande Dea la Terra era vita. Era il grembo della Dea.

Essa sovrintendeva – scrive Marija Gimbutas – a tutto ciò che è trasformazione ciclica, al ciclo del giorno e della notte, della primavera e dell’inverno, della vita e della morte, della felicità e dell’infelicità. Sovrintendeva al destino, nella triplice sembianza delle Parche, delle fate, delle Norne germaniche.

Essa fu Dea delle vette, la si poteva intravedere splendente in cima ai monti. Le vette le erano consacrate e non a caso i raduni delle “streghe” furono raduni in cima a montagne, fossero esse il Tonale o le Cime di Lavaredo, il Puy de Dome o l’Alto Tatra.

La Grande Dea fu Dea del concepimento, del parto, della crescita: terra, palude, luna, rospo, rana, erano epifanie del suo grembo umido ed essa si manifestava quale Dea Rospo, Dea Porcospino, Dea Pesce. Fu Dea della morte rappresentata come Dea Uccello che giunge silenziosa con le sue grandi ali.

Fu Dea Serpente in quanto Dea della rigenerazione. Entità benefica, il serpente, che esce dal letargo invernale, simile a una morte, con il ritorno della primavera. Simbolo di forza vitale, simbolo seminale, energia di animale che sulla terra striscia, energia che influenza il mondo circostante e si ritrova nel simbolo della spirale, nelle viti, negli alberi in crescita. Energia che si ritrova nei falli, nei pilastri. Associati a piante magiche, i poteri del serpente erano efficaci per guarire e ricreare la vita. Con pozioni composte da piante magiche e da polvere di serpente le donne sapienti acquistavano la dote di sentire e di intendere il linguaggio dell’erba, degli alberi, della Natura. Degli animali. Ancora nel 1604 un missionario riferiva della presenza di un culto del serpente in Lituania: «Qui sono tanto pazzi da credere che la divinità sia presente nei rettili, perciò li proteggono...». Simbolo di salute e di rinascita, il serpente in doppia sembianza si avvolge sulla bacchetta di Esculapio, divinità della medicina. Secondo le antiche credenze mangiare carne di serpente rendeva la vista, compresa quella interiore.

Nello snodarsi a spirale del serpente si rispecchia l’immenso ruotare delle spirali galattiche.

L’iconografia della Dea nacque nel Neolitico con l’osservazione delle leggi della Natura. Spirali, vortici, serpenti attorcigliati, cerchi crescenti, corna, semi germinati, germogli, viluppi, intrecci, nodi, triangoli, ali, scope, emblemi e simboli che rimandavano alla Dea della fertilità e della guarigione, vennero stravolti dalla Chiesa persecutrice in segni demoniaci, e attribuiti alle serve di Satana.

Nella religione della Dea i colori avevano valenza diversa da quella della cristianità: il nero era colore di vita, poiché nero è il grembo della terra, delle grotte umide, della Dea. Il bianco, colore delle ossa calcinate, era colore di morte. Il carattere complessivo della Dea non fu quello della Dea Madre, fu molto di più. Essa non si limitava a generare, essa era vita ed era morte, serpente innocuo o velenoso, uccello acquatico o rapace, cicogna o avvoltoio, pioggia o tempesta. Alle streghe venne attribuito dalla Chiesa questo ultimo aspetto: la sembianza della Dea assassina e distruttrice. L’aspetto di rigenerazione caratteristico della Dea – lo ripetiamo – venne cancellato.

Tutti gli animali associati alla Dea, dal gatto alla lepre, dal serpente alla civetta, vennero negativizzati e demonizzati.

Colei che uccide e rigenera, scrive ancora Marija Gimbutas, signora del ciclo della vita, colei che è madre dei morti venne trasformata in strega, creatura della notte e della magia.

L’eredità della Dea venne raccolta da levatrici, guaritrici, ostetriche, veggenti perseguitate dalle Inquisizioni e sterminate. Fu raccolta da donne che Gimbutas definisce le menti migliori e più coraggiose del tempo.

Il mondo che le accoglieva era mondo di significati. La Natura in cui vivevano le circondava di meraviglie.

Ogni filo d’erba possedeva il suo senso, ogni erba contemplata dallo sguardo della guaritrice narrava la propria vicenda risanatrice, le proprie virtù, ogni albero aveva una sua storia e così le acque, il cielo, la luna crescente o calante, così il firmamento e il vento che stormisce fra le fronde. Ogni cosa aveva la sua voce.

Era un mondo ricco, quello, perché denso, fitto di nessi, di relazioni, di rapporti fra una creatura e l’altra, colmo di segni e di avventure individuali e collettive, che la guaritrice individuava nei piccoli percorsi delle formiche, nei contorni delle foglie, nello snodarsi delle acque fra le sponde del torrente. Nel colore delle bacche e in quello della lepre. Nello stagliarsi dei monti contro il cielo. Nel mare, oltre la spiaggia.

Le antiche credenze legate alla religione della Dea vennero sommerse dai miti indoeuropei, che precedettero la cristianità. Alla Grande Dea e alle sue manifestazioni essi sovrapposero Diana, Giunone, Ecate, Artemide, Minerva, e poi la russa Baba Yaga e la germanica Frau Holle, la basca Mari e la celtica Morrigan: divinità femminili ognuna delle quali rifletteva e manteneva un aspetto della Grande Dea. Pur trasformate dalla mitologia patriarcale in spose soggette alla divinità maschile, o in veneri oggetto di desiderio, le dee dei miti greci e latini furono divinità della Natura e dei boschi, divinità delle sorgenti e delle foreste, del mare e della luna. Divinità della Natura.

Insieme alle “streghe” e alle loro credenze, alle loro sapienze, venne distrutta la Natura che è vita e morte e rigenerazione, che è madre e maestra di salute e di guarigioni. Nella distruzione di alberi e animali leggiamo la sua condanna a morte.

«L’oggi», scrive Robert Graves, «è civiltà in cui gli emblemi della poesia» – del mito – «sono disonorati, in cui il serpente, il leone e l’aquila appartengono al tendone del circo; il bue, il salmone e il cinghiale all’industria dei cibi in scatola; il cavallo da corsa e il levriero al botteghino delle scommesse; il bosco sacro alla segheria. La Luna è disprezzata come satellite privo di vita.»

Come la Luna è disprezzata la donna, mortificata oggi quanto la Natura è svuotata del suo significato profondo, della sua spiritualità, dei suoi molteplici simboli.

Agli inizi del Seicento Keplero, figlio di madre “strega”, mentre scrutava il cielo per studiare l’armonia degli astri era consapevole di gettare lo sguardo nella meraviglia del cosmo.

Scrisse che le leggi dell’universo, lungi dal rappresentare pura meccanica celeste, lo commuovevano. In esse è racchiuso il mistero del creato e della vita. In esse si manifesta lo splendore del mondo spirituale.