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LE FATE E IL LORO REGNO
Chilometri e chilometri di foresta: verdeggiante, sterminata, fitta distesa di querce, frassini, olmi, faggi, castagni, noci i cui tronchi affondano nell’intrico del sottobosco, dei canneti e delle piante palustri intorno alle sorgenti, ai corsi d’acqua, ai laghi, e percorsa da animali selvatici. Questa era ancora, intorno al Mille dopo Cristo, la foresta di Brocelandia, nella Francia settentrionale. Tanto folta che uno scoiattolo avrebbe potuto percorrerla tutta da una parte all’altra saltando di ramo in ramo, senza mai toccare terra.
In un giorno d’estate, vagando nella cupa penombra di Brocelandia, un uomo si fermava a ogni passo per individuare da che parte, sulla corteccia dei tronchi secolari, crescesse la lanugine dei licheni con cui gli alberi si proteggono dai venti del nord. Unica speranza di orientamento, questa del lichene, poiché le fitte cupole degli alberi sbarravano il passo alla luce del sole. Gerberto di Reims, un chierico benedettino del monastero di Aurillac – il quale ignorava che sarebbe divenuto papa anni più tardi con il nome di Silvestro II – si era smarrito nella foresta, mentre percorreva quelle terre nella sua opera di evangelizzazione. Era affamato, non conosceva le virtù delle bacche della foresta e si asteneva dal mangiarle temendo che potessero avvelenarlo; sfuggiva gli animali che vedeva scivolare nell’ombra temendo che potessero divorarlo; diffidava persino delle lepri, che tante se ne sono sentite sulle lepri magiche capaci di inghiottirti in un boccone. Assetato, evitava le sorgenti, temendo che dal profondo dell’acqua occhi di Medusa potessero folgorarlo.
Giunse a una radura, dove il sole era finalmente riuscito ad aprirsi un varco fra gli alberi, alto nel cielo. Era mezzogiorno. Al centro della radura sedeva una giovane donna, su un bel drappo di seta, con il viso rivolto verso Gerberto, che avanzò verso di lei, incredulo. La giovane gli sorrise come se da ore lo stesse attendendo e gli indicò allusiva la rilucente quantità di monete d’oro disposte, in cerchio, intorno a lei. Temendo una visione creata dal Diavolo pronto a dannarlo con uno dei suoi fantasiosi inganni, Gerberto tentò di darsela a gambe. Ma lo raggiunse la voce soave di quella creatura, con le sue parole gentili e rassicuranti. Gerberto tornò indietro.
La fata – tale e quale nell’aspetto a una donna mortale che nonostante i digiuni, baluardo della castità, il chierico continuava a sognare e a desiderare – la fata, dunque, propose a Gerberto di fargli da maestra pretendendo in cambio, da innamorata, un patto di fedeltà assoluta e di assoluta segretezza. Gerberto si affrettò a sottoscrivere il patto. La fata indicò a Gerberto la via del ritorno, e lo seguì.
Con tale maestra al fianco, Gerberto divenne in breve dottissimo. Studiò matematica, astronomia, cosmogonia. Eccelse nella dialettica a Reims con il titolo di magister, ebbe per allievo lo stesso Fulberto, famoso medico, detto di Chartres per aver intrapreso la costruzione della splendida cattedrale.
Gerberto fu in breve l’uomo più erudito di Francia e amico dell’imperatore Ottone II. Divenne ricchissimo, come gli aveva promesso la fata, ma generoso soccorritore di poveri, malati, vedove e orfani, che anche in quell’epoca erano una moltitudine. Divenne celebre difensore degli oppressi. In favore di essi tentò di rendere dignità alla bilancia della Giustizia, verificandone i pesi maneggiati, come si sa, da chi ha potere e danaro.
Famoso per la sua sapienza e per la sua indole integerrima, divenne vescovo a Reims. Durante il sinodo della Chiesa francese, nel 991, non gli parve vero di poter suggerire, all’adunanza degli esimi prelati, argomenti più che solidi per arginare la corruzione che già allora sgretolava la Chiesa di Roma. Qualche anno più tardi, per un rigurgito di lussuria, tradì la sua segreta innamorata con una dama della corte ravennate. Le cose si misero subito male, com’era da prevedersi: i patti non si mandano a quel paese come niente fosse, e specialmente quelli stipulati con una fata.
Gerberto, nel 995, venne scomunicato dal papa, furente per gli attacchi subiti. La celebrità gli voltò le spalle. Il suo patrimonio si sbriciolò. Solo un sincero pentimento e disperate implorazioni gli permisero di ottenere il perdono e gli restituirono la sua fatata amante. Con lei, la perduta gloria.
Sotto l’influenza della fata, apportatrice di bene agli uomini, Gerberto fu ben presto circondato di nuovo da rispetto e ammirazione. Venne perdonato dal papa, Giovanni XV. Con l’appoggio dell’imperatore Ottone III, che era stato suo discepolo, ottenne l’arcivescovado di Ravenna, nel 998. Da qui puntò diritto a Roma, su consiglio della sua maestra, e alla morte di Giovanni divenne papa, con il nome di Silvestro II. Era l’anno 999. Non stette certo con le mani in mano: si adoperò per conciliare il regno tedesco e il regno italico in una pacifica coesistenza, cercando di edificare una unità ideale fra potere religioso e potere politico.
Solo in punto di morte – era l’anno 1003 – incerto sulla propria destinazione nell’altro mondo, ritenne di spianarsi la strada per il Paradiso confessando pubblicamente ai cardinali e al popolo di aver affidato la propria vita a una fata, creatura il cui regno non coincide con quello di Dio: cosa che del resto Gerberto aveva sempre perfettamente saputo.
Aveva già infranto il patto di fedeltà. Con la pubblica confessione infranse quello della segretezza. Tradì la fata per la seconda volta e in modo ben più grave: una cosa è tradire con la carne, altra è tradire con la mente rinnegando chi ti ama. Ma tant’è: Gerberto puntava a esalare l’ultimo respiro in odore di santità.
Contrariamente alle proprie aspettative, rivelando di esser stato amante e allievo di una fata, Gerberto si trovò affibbiata la futura fama di potente mago ed eretico.
La vicenda di Gerberto ci è stata tramandata nell’opera De nugis curialum del monaco Walter Map. Era costui un gallese, vissuto intorno al 1200, gran viaggiatore e assiduo frequentatore della corte di Enrico II d’Inghilterra. Non erano tempi in cui i monaci si rinchiudevano nei monasteri: con attente orecchie ascoltavano le avventure dei viandanti, dei contadini, dei parroci di campagna, di coloro che chiedevano asilo ai conventi.
Walter Map annotava ogni cosa e specialmente gli eventi soprannaturali e meravigliosi, estranei al mondo cristiano.
Inesausto studioso delle credenze pagane, Map unisce la sua opera a quelle della nutrita schiera di chierici, vescovi, teologi, scrittori, santi, da sant’Agostino a Reginone di Prüm. Tutti insieme impegnati, questi ultimi, a far piazza pulita delle divinità pagane, soprattutto della moltitudine di creature magiche e invisibili del soprannaturale pagano, fra esse le «creature femminili di sostanza corporea... che si mostrano quando lo desiderano... e quando vogliono possono svanire», vale a dire le fate, come vennero descritte da Burcardo, vescovo di Worms nell’anno Mille, nel suo De Incantatoribus et Auguris.
Non furono tanto le divinità pagane dei Celti, dei Galli, dei Cimbri, a dar filo da torcere ai campioni del cristianesimo, che sciamavano verso il nord essendosi assunti l’arduo compito di insegnare la vera religione alle popolazioni pagane. In quelle regioni settentrionali – dalla Lituania alla Germania su su fino all’ultimo lembo della Scozia – la realtà quotidiana era frequentata da presenze, dichiarate visibili, di creature spirituali che abitavano la vegetazione, gli alberi, i fiori, le erbe e poi le acque e le pietre. Non si trattava certo di animismo diffuso. La faccenda era ben più complessa per gli uomini di chiesa che tentavano di decifrare e abbattere quella potente concezione del mondo, di cui era difficile negare la spiritualità. Una incomprensibile religione della Natura si opponeva con tenacia al cristianesimo.
In essa, elementi spirituali davano vita alle sterminate foreste, alle radure, alle lande, alle sorgenti e ai fiumi, alle coste e al mare. Comunicavano con i mortali in un fitto e continuo dialogo, unitamente allo spirito dei defunti. Erano prodighi di protezioni e insegnamenti, ricompensati con devozione e con riti e offerte sacrificali. Alle grandi divinità nordiche i cristiani potevano riuscire, con qualche ingegnosa forzatura, a sovrapporre il Dio cristiano, la Madonna e i Santi. Non riuscivano invece a cancellare la credenza negli esseri elementari, plasmati dal fuoco, dalla terra, dalle acque e dall’aria. Essi impregnavano di sé la Natura; non riuscivano a sradicare la concezione dell’universo e la mentalità degli abitanti delle regioni settentrionali.
Come riuscire – si chiedevano quei colonizzatori della cristianità – a dimostrare che gli esseri elementari della Natura erano solo partoriti da pagane menti ricche di immaginazione? O frutto di illusioni? I cristiani finirono per ammettere che tali esseri elementari esistevano sul serio, che erano potenze arcane germinanti in infinite forme quanto infinite sono le manifestazioni della Natura. Non aveva senso negare l’esistenza degli esseri elementari, fate comprese. Bisognava minarne il dominio.
Il religioso potere della Natura sui popoli nordici era fra l’altro affine in modo inquietante a quello che aveva soggiogato i pagani di Grecia e Roma, per non parlare dei popoli slavi. Su questo fronte avevano già sputato sangue, loro, missionari e padri della Chiesa di Cristo, e sudato le proverbiali sette camicie per fronteggiare e tentar di sgominare un vero esercito di ninfe, sirene, ondine, fauni, animali sacri e magici, elfi, folletti, nani e giganti.
E come dimenticare l’indecente dio Pan, dal fallo perennemente eretto, testimone della lussuria pagana, che si ritrovava ovunque: agli angoli delle strade, lungo le coltivazioni, negli orti, nelle dimore?
L’esercito degli esseri fatati circondava divinità potenti come Diana, tanto per dirne una, la dea della notte, della luna, della vegetazione. Dea delle partorienti. Dea delle donne.
Il sospetto che di un’unica estesa religione si trattasse, sia pur con tratti e nomenclatura diversi, da sud a nord nell’Europa intera, balenò nella mente di non pochi uomini di Chiesa. Un’unica religione come unica nella sua molteplicità è la Natura.
Almeno – si dicevano i preti missionari e i padri della Chiesa – almeno i pagani greci e romani ai loro dèi edificavano templi e altari, che con buon impegno si potevano trasformare in chiese benedette dalla Croce.
Ma come sbrogliarsela quando, secondo l’usanza delle popolazioni nordiche, il tempio della divinità non è costruito da mani umane, ma è addirittura la Natura stessa, foresta, bosco, radura, cielo stellato, mare e universo intero? Impossibile imprigionare la Natura. Impossibile imprigionare la Grande Dea fra quattro mura, come avveniva al Dio dei cristiani. Un tempio che abbia per tetto il firmamento e per mura gli alberi è ben difficile da sostituire o da abbattere. A meno di non radere al suolo e distruggere, insieme agli alberi, la vegetazione intera, e appestare le acque e avvelenare il cielo, cosa che l’uomo dei secoli futuri si sarebbe impegnato a fare al suo meglio e con gran successo.
La Natura è però tempio di potenti religioni. Le butti fuori dalla porta e ti rientrano dalla finestra. Ben lo sapevano le gerarchie ecclesiastiche della Chiesa di Roma, che non avevano certo dimenticato l’imperatore Giuliano, soprannominato l’Apostata per aver abiurato alla fede cristiana nel 351, deciso a restaurare il paganesimo e per questo assassinato.
In epoche più recenti, come non ricordare il buon cattolico vescovo di Coventry, che ancora nel 1303 – all’incirca un secolo dopo la morte di Walter Map – officiava contemporaneamente su due altari, uno dedicato al Dio dei cristiani e l’altro – sulle colline e fra gli alberi – dedicato al Dio Caprone, divinità maschile della vegetazione, creatura della religione della Grande Dea?
Prima di lui, nel 1282, non erano pochi i preti come quello di Inverkeiting, nelle Highlands, che guidavano durante la festa di Trinox Samoni i riti della fertilità sulle colline delle fate. Anni successivi, questi, ai tempi in cui Walter Map intingeva la penna d’oca nel calamaio per scrivere la sua opera, impensierito da un mondo evidentemente abitato dalle fate, di cui si trovava costretto ad ammettere l’esistenza. Lo stesso Map fin dalla nascita era vissuto in un via vai di fate ed elfi, nani e coboldi e spiriti dei defunti, unite tutte insieme, queste creature dell’invisibile, per continuare con tenace insistenza a saldare il proprio mondo soprannaturale a quello naturale. Map, suo malgrado, non poteva che narrare la vicenda di Gerberto facendone protagonista non tanto l’eroe maschile divenuto papa, ma la fata, che occultamente – secondo il costume delle fate – istruiva e tutelava il suo protetto.
E questa, di istruire e proteggere, è virtù principale e costante delle fate, se ancora tre secoli più tardi Bessie Dunlop – e siamo ormai oltre la metà del 1500 – ammetteva davanti agli inquisitori di essere stata allieva del popolo fatato. Quasi tutte le donne processate come streghe, specialmente ad Aberdeen, dichiararono del resto in tribunale di frequentare fate ed elfi. Trattandosi per lo più di guaritrici, tutte affermarono di aver appreso la loro conoscenza dalle fate.
Fra loro, si ricordi anche un uomo, tale John Walsh, chiaroveggente famoso a Netherberry e in tutto il Dorset, accusato di stregoneria nel 1556. Ammise di frequentare fate ed elfi, da cui aveva appreso l’arte della divinazione. Specificò che gli incontri avvenivano a mezzogiorno, quando il sole è alto. E a mezzanotte. Le fate, raccontò, non sempre erano vestite di bianco, spesso i loro abiti erano color delle foglie a primavera, o neri come la notte. Per incontrarle Walsh si incamminava lungo i sentieri che attraversano il bosco e portano alle colline, poiché è lì che le fate hanno dimora, insieme alla loro Regina.
Della Regina delle fate parlò Alison Peirsoun di Byrehill, nel Fifshire, che venne condannata come strega nel 1588, per essere stata in costante rapporto con il “buon popolo” – così veniva chiamato il popolo delle fate e degli elfi – e in particolar modo con la Regina delle fate e degli elfi. Raccontò ai giudici che nelle colline delle fate dove si recava spesso c’era musica e allegria, e una grande luminosità. E ancora nel 1597 Christiana Livingstone, famosa guaritrice di Leith, dichiarò di aver appreso le sue arti mediche dalla figlia, allieva delle fate, e prediletta dalla loro Regina, che le aveva insegnato poteri magici e curativi. Ancora ad Aberdeen e sempre nell’anno 1597 Isabel Strathaquhin venne processata come strega e arsa insieme alla figlia, per aver dichiarato che entrambe frequentavano le fate e la loro sovrana, la Regina degli elfi, da cui avevano appreso ogni segreto per far nascere i bambini e guarire uomini e animali.
Sempre nel 1597, sinistro anno di persecuzioni, Andro Man di Aberdeen, inquisito come stregone, confessò ai giudici di aver conosciuto la Regina degli elfi un giorno in cui era andato a trovare sua madre, e la Regina era lì, seduta in cucina; ammise che era bella. Di conseguenza si congiunse con lei carnalmente e ne ebbe un figlio; la descrisse sulla sua cavalla bianca, mentre galoppava nelle radure. Descrisse elfi e fate che vestono abiti semplici o sontuosi, mangiano e bevono allegramente seduti a grandi tavole imbandite sotto gli alberi, e sentono musica e danzano schiena contro schiena in cerchi sempre più veloci che si muovono in senso antiorario. La più sapiente di tutti è la Regina degli elfi e delle fate.
Regina delle fate, fate ed elfi, si affollano negli atti dei processi per stregoneria, avanti e indietro nei secoli, compreso quello in cui visse Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orléans, bruciata come strega dagli inglesi – secondo l’accusa incontrava le fate e con esse parlava – dopo esser stata processata ad Arles nel 1431. Ammise al processo di essersi più volte fermata accanto all’Albero delle fate, un faggio che sorgeva accanto a una sorgente dove chi possedeva la seconda vista vedeva radunarsi le fate. Giovanna dichiarò: «La mia madrina vedeva le fate ed era una donna buona». Non solo la madrina di Giovanna, ma quasi tutti gli abitanti di Domrémy, nelle cui campagne sorgeva il faggio fatato, vedevano le fate, conversavano con le fate, danzavano con le fate. Dalle fate apprendevano l’arte della divinazione. Domrémy non fu che uno dei tanti luoghi i cui abitanti possedevano il dono della seconda vista.
Durante il processo tenuto ad Aberdeen in Scozia nel 1576, i giudici chiesero a Bessie se con Thomas Reid, che le era apparso in cucina, avesse avuto rapporti sessuali.
Bessie negò.
Più che per curiosità morbosa la domanda era stata posta dagli inquisitori per dimostrare che Bessie si sbagliava di grosso a credere di essersi intrattenuta con lo spirito di un defunto. Ci mancherebbe proprio che i morti, appartenenti al regno di Dio e maneggiati esclusivamente dalle gerarchie ecclesiastiche, potessero apparire a una qualsiasi Bessie Dunlop. Se costei era convinta di aver visto lo spirito di un morto, quell’immagine – secondo l’opinione degli inquisitori – non poteva essere che quella del Demonio, il quale normalmente appariva alle streghe sotto qualsivoglia veste, spettri dei defunti inclusi. Con le streghe Satana ha sempre rapporti sessuali a cui ben volentieri ogni strega si presta. Vale a dire che se una donna ammette di aver visto lo spirito di un defunto, è evidente che si intrattiene con Satana. E Satana si congiunge carnalmente con le streghe.
Secondo la logica del tribunale, quindi, se Bessie avesse ammesso di aver copulato con lo spirito del defunto – cioè con Satana – i giudici avrebbero avuto in mano la prova che era una strega. Poiché Bessie negò, i giudici ritennero che mentisse: la menzogna sarebbe valsa come ulteriore prova della sua indole streghesca e demoniaca.
Figuriamoci con quale benevolenza le chiesero successivamente di descrivere le fate apparse al fianco di Thomas Reid in cucina, dato che per gli inquisitori le fate sono spiriti demoniaci. Altro che benefico popolo fatato delle colline!
Bessie, già guardinga di suo, a questo punto si limitò a raccontare che le fate che le erano apparse nella cucina di casa sua erano creature sontuosamente vestite di bianco, e che avevano avuto per lei parole amabili. Le avevano anche chiesto di seguirla, tendendole la mano: sarebbero state sue maestre insieme a Thomas Reid. «Ma io» precisò Bessie cauta «non le ho seguite ed esse sono scomparse.»
Ammise di aver seguito altre volte Thomas Reid nei pressi del cimitero, luogo di raduni fatati e di festose chiacchiere che i defunti scambiano abitualmente con le fate. Qui di nuovo le era apparso un gruppo fatato composto da otto donne e quattro uomini. Si trattava, le aveva spiegato Thomas, delle buone fate della corte di Elfos.
Ammise di essersi rifiutata di andare a vivere con loro non volendo lasciare il marito e i suoi figli.
Ammise che Thomas Reid le aveva insegnato a sviluppare la chiaroveggenza, e con essa a intuire i poteri curativi delle piante. Era famosa levatrice, era guaritrice, era diventata donna sapiente come la nonna, e la madre di sua nonna e così via.
Ammise anche che la Regina delle fate e della corte di Elfos si era seduta un giorno accanto a lei, sul suo letto, quando Bessie aveva partorito uno dei suoi bambini. Era stata lei ad assisterla. Non sapevano forse tutti che le fate accudiscono le partorienti e si prendono cura del bambino appena nato? Se molti temono che il neonato venga da esse rapito, ciò non accadde a lei, Bessie, che dalle fate aveva ricevuto solo del bene. Precisò che quella volta la fata era corpulenta e vestita con semplicità, di nero, pur essendo la Regina delle fate in persona.
Gli inquisitori chiesero a Bessie di spiegare che cosa fosse la corte di Elfos e chi fosse esattamente la Regina delle fate. A questo punto Bessie si chiuse nel silenzio. Rifiutò di rispondere ad altre domande. Rimase muta fino alla conclusione del processo.
Come spiegare infatti, circondata da quelle facce derisorie, da quegli uomini decisi a giudicarti come strega e serva del loro Satana, come spiegare che la corte di Elfos altro non è che l’incantato Sidh, territorio di transito fra questo e l’altro mondo? Fra il sensibile e il sovrasensibile? Gioioso Paese della Pace delle fate e di silfidi, elfi, gnomi, folletti che qui si incontrano con gli spiriti dei defunti, siano essi stati eroi o no? Come spiegare che Sidh è la collina fatata in cui abita il buon popolo delle fate, e che non c’è luogo nelle Highlands in cui non sorga un Sidh?
Perché, poi, a costoro che la accusavano di essere in combutta con il loro Demonio, perché mai spiegare che le fate e la moltitudine di esseri spirituali che le circonda sono esse stesse il Sidh e vedono ciò che l’essere umano non può vedere, e sono creature di un mondo in cui la musica scorre ineffabile, musica capace di colmare il cuore di gioia e di favorire la conoscenza?
Perché, a questi cupi inquisitori che dividono il Signore Iddio dall’uomo, lo spirito dalla materia, il corpo dall’anima, la vita dalla morte, l’aldiqua dall’aldilà, e che a ogni cosa pongono un inizio e una fine, perché mai proprio a loro parlare della Regina degli elfi, figlia come tutte le fate e tutti gli esseri spirituali di Colei che presiede al ruotare ciclico della Natura, ed è la Grande Dea della vita e della morte? Dea della continua evoluzione dal mondo fisico a quello spirituale, in un ciclo continuo che non ha inizio e non ha fine? Forza spirituale essa stessa della crescita della vegetazione, dello sgorgare delle sorgenti, dello scorrere delle acque, della fertilità di uomini e animali. E del nostro destino.
Accedere dal piano dell’esperienza puramente fisica di questa nostra realtà al piano della consapevolezza del suo significato spirituale non è certo pane per i denti dei signori inquisitori. Non di questi, almeno, ansiosi solo di spedirti al rogo. Non di questi, pervasi dalla convinzione che il buon popolo delle fate sia popolo di quella incarnazione del Male da essi chiamata Satana.
Perché, ai signori inquisitori che sedevano sui loro scranni, pronti a punire chi vede le fate e possiede il potere di guarire le malattie, perché a costoro descrivere la Regina delle fate, grande maestra, che con la sua intelligenza, la sua grazia, la sua bontà governa il buon popolo fatato, sapiente di tutti i segreti del meraviglioso mondo che ci circonda e quindi anche di quelli del cuore umano, delle sue debolezze e delle sue virtù e delle sue ardenti passioni? Madrina e amante?
A questi signori inquisitori non si racconta il patto che il popolo fatato richiede a chi ottiene la chiaroveggenza, vale a dire saper mantenere i segreti delle fate, amare la lealtà e quella generosità che prontamente aiuta i bisognosi, e soprattutto amare la sincerità. Non è forse risaputo, da chi frequenta le fate, che esse accanto a chi è buono preservano il proprio tradizionale modo di vita, ma si corrompono accanto a chi è malvagio e sanno divenire malvage esse stesse? Le fate non possono tollerare l’arrogante, l’egoista, il vile, l’avaro, l’invidioso. Le fate non possono tollerare chi è crudele, e vallo a dire questo ai signori inquisitori cristiani! Per costoro la crudeltà non è neanche uno dei sette peccati capitali condannati dalla loro fede. Non la crudeltà ma la lussuria – che per i cristiani è un chiodo fisso – questa sì che è un peccato a lettere maiuscole.
Non sono lussuriose le fate che amano chi ama, chi sa sorridere e ridere, chi conosce l’allegria e si perde nel vortice della musica e della danza e dell’erotismo, e non solo durante le quattro grandi feste dell’anno. Le fate amano chi sa godere.
Amano l’ospitalità e quelle che i signori inquisitori chiamano con scandalo “offerte pagane” – il latte, il vino, il pane, il formaggio deposti sul davanzale della finestra in cucina – altro non sono che gesti di benvenuto, per accogliere le fate visitatrici delle nostre case, e le case devono sempre essere ordinate, il focolare pulito, il fuoco acceso perché così piace alla Regina delle fate e al suo seguito, che nottetempo vengono a visitarci. Nel luogo in cui le fate usano lavare i loro figli è bene lasciare, per premura nei loro confronti, catini colmi di acqua limpida. In cambio le fate offrono protezione contro malattie e sventure, a maggior ragione se hai appena partorito e puoi con il tuo seno sfamare anche un loro bambino.
Aveva detto già abbastanza: così rifletteva Bessie mentre se ne stava muta davanti ai giudici. Se tante donne accusate di essere streghe avevano raccontato in tribunale – in tutte le epoche e in tutti i Paesi – i segreti delle fate, lei, Bessie Dunlop, nipote della più grande guaritrice dell’epoca e allieva delle fate, non si sarebbe piegata a indicare le colline in cui, nelle Highlands come in tanti altri luoghi, si trovavano il regno di Elfos e le dimore delle fate e degli elfi.
Non avrebbe raccontato che, sotto la cupola delle colline ricoperta da felci, erba, alberi e cespugli, le abitazioni di fate ed elfi potevano essere dimore circolari splendide, ricche di grandi saloni sfarzosi, o dimore costruite con pavimenti di rozza pietra, pareti di cannucciato, e una sola stanza che aveva al suo centro il focolare.
Non avrebbe parlato dell’incantevole luce soffusa, proveniente da lanterne fatate e fuochi perpetui, che illuminava le dimore delle fate. In ogni caso, dato che i signori inquisitori non possedevano la chiaroveggenza, non sarebbero stati in grado di scoprire l’ingresso delle dimore delle fate, non sarebbero riusciti a entrare, non avrebbero sentito la musica travolgente e giocosa del buon popolo. Non avrebbero visto fate ed elfi affaccendati nelle loro occupazioni abituali, tessere e filare, o fabbricare scarpe, o forgiare metalli, o scavare i loro fatati cunicoli nelle miniere.
Dalla nonna, Bessie aveva imparato che il piccolo buon popolo – così era chiamato il popolo delle fate – era simile, nelle sue consuetudini e nel suo modo di vivere, a certe popolazioni vissute nei tempi remoti in quelle foreste, dove gli orsi avevano le loro tane e i lupi correvano in branchi, e dove animali selvatici e mostruosi minacciavano giorno e notte la vita dei viandanti, e draghi sputavano fiamme dalle fauci, e uccellacci a tre teste dagli artigli implacabili erano pronti a ghermire gli incauti.
In quei tempi remoti, le popolazioni di cui narrava la nonna vivevano anche nelle lande addomesticando i serpenti e pascolando le loro greggi.
Erano popolazioni pacifiche, dove uomini e donne vivevano in armonia fra di loro. Gli uomini cacciavano e le donne erano tutte donne sapienti, conoscevano le virtù delle erbe e gli incantesimi, e le bacche e i frutti selvatici dei fiori e dei cespugli che costeggiavano i fiumi.
Sapevano guarire con il vischio e con le formule imparate dal loro continuo colloquio con la divinità.
Modellavano meravigliose ceramiche su cui dipingevano i simboli della Grande Dea.
Erano creature dotate del dono della chiaroveggenza, esperte di magia, straordinarie nell’arte della poesia e della musica.
Quando dal sud arrivarono gli invasori, uomini con armi di ferro, uomini guerrieri, feroci, aggressivi, distruttori, uomini governati da divinità terribili, il piccolo popolo si rifugiò sempre più addentro nelle zone boscose e selvagge, dove continuò a vivere a volte mescolandosi con gli esseri umani dei villaggi. Continuava a seguire le proprie leggi, dividendosi i beni. Preservava le proprie doti magiche, il dialogo con la Natura e con gli animali, perché a quei tempi ancora si riusciva a intendere la voce dell’erba e degli alberi, e il senso dei richiami dei falchi, sulle montagne delle Highlands. Le colline divennero rifugio e dimora, e ogni collina – ogni corte degli Elfos – aveva il suo Re e la sua Regina. Era lei la vera sovrana, lei che salvaguardava, con la sua autorità, le tradizioni. Lei che imponeva il nome ai cavalli e agli armenti del suo popolo, compresi i magnifici tori bianchi che pascolavano liberamente, quei tori bianchi sacri alla Grande Dea.
Bessie continuava a rimanere silenziosa, mentre i suoi inquisitori, lì ad Aberdeen, nel tribunale dalle finestre aperte sul mare, continuavano a incalzarla con le loro domande, per sapere che usi avessero le fate, e se era vero, come avevano rivelato altre donne, che di notte si recassero nelle case per concludere magicamente i lavori di tessitura e di filatura lasciati in sospeso dalle donne la sera precedente.
Bessie, chiusa nel suo silenzio, si rifiutò di raccontare che conosceva benissimo l’abilità con cui le fate tessevano e filavano. Lei stessa le aveva viste intente a maneggiare i loro fusi e gli arcolai e i loro telai, e le aveva sentite cantare mentre lavoravano. Era vero, anzi verissimo, che spesso di notte, gentili e premurose, sapendo che le donne si ammazzavano di fatica, concludevano per loro il lavoro di tessitura e filatura. Lei stessa aveva trovato più volte il telaio vuoto e le stoffe pronte, ben piegate sulla tavola di cucina. Li aveva visti, lei, Bessie, i tessuti delle fate, simili a quelli fatti da noi creature umane, bei tessuti in lana o in lino, oppure sottili come meravigliose ragnatele dai colori iridescenti.
Era il verde il colore prediletto dal popolo delle fate, colore che ti aiuta a confonderti con il verde del fogliame e delle piante del sottobosco, e se è vero, come raccontava la nonna, che il piccolo popolo è superstite di tribù spodestate e costrette a nascondersi nelle foreste e nelle lande, con il colore verde fate ed elfi si proteggevano. Adesso, con il colore verde si vestono i guardiacaccia e i briganti.
Spesso la Regina delle fate era vestita di bianco, di fine lino schiarito dal sole, o di rosso, poiché era facile tingere i tessuti con la linfa degli ontani, o con i licheni che danno tutte quelle fantasiose colorazioni gialle, porpora e blu. Neri potevano essere gli abiti indossati dalle fate, quando visitavano le case degli esseri umani, per sottolineare il piacere di quella visita, poiché il nero non è colore di lutto, ma colore spirituale e gioioso. Ben la ricordava, Bessie, la Regina delle fate nel suo abito nero, quando era venuta ad assisterla nel parto.
Bessie aveva visto svolazzare al vento le lunghe vesti delle fate, e aveva notato la loro irritazione quando quel vento faceva volar via i loro copricapi. Per niente al mondo fate ed elfi – si diceva – rinunciavano ai loro berretti, cappelli o cappucci che fossero.
Sorprendente affezione di cui Bessie aveva discusso non solo con la nonna ma anche con altre donne sapienti. Si ipotizzava che i cappelli avessero un qualche particolare potere magico. Non è raro infatti che esseri umani desiderino ardentemente un cappello che li faccia diventare invisibili, o potenti nel mondo del danaro e della politica, o nel letto delle loro donne; cappelli color verde come quelli della corte di Elfos della Scozia occidentale, o neri come in Irlanda, a punta e multicolori nell’isola di Man, rossi e a tricorno nel Galles, simili a una corona in Alta Bretagna. In ogni caso, chissà che cosa avrebbero dato i signori inquisitori per veder passare fra gli alberi della più vicina foresta fate ed elfi nei loro vestimenti conclusi dal cappello, abiti spesso di tutti i colori, rossi e gialli e verdi, poiché ogni colore aveva un suo significato; come l’azzurro, colore della trascendenza.
Bessie aveva personalmente assistito a un corteo di fate ed elfi, che era passato una sera in fondo alla radura, davanti a casa sua: Re e Regina degli elfi, in sella ai loro bei cavalli, indossavano abiti sfarzosi; lunghi e fluttuanti erano quelli delle regine, verdi e ricamate d’oro le casacche dei re. Aveva visto la corona di perle sul capo della Regina, le livree rosse e blu dei paggi.
Aveva visto anche i nani e fra questi il malvagio Duergar, che indossava una pelle d’agnello, pantaloni e scarpe di pelle di talpa, e portava infilata una penna di fagiano sul suo cappello di muschio verde.
Sapeva che gli esseri fatati portano sempre qualcosa di rosso, perché rosso è il colore della magia. Ben si guardò dal raccontare ai suoi giudici che le fate spesso erano nude e nude si bagnavano nelle sorgenti o danzavano in cerchio nelle notti di luna piena, l’astro consacrato alla Grande Dea.
Insistentemente, quanto invano, gli inquisitori chiesero a Bessie se questo suo tanto amato popolo di Elfos fosse un popolo armato, e se sì, con quali armi. Lei non raccontò che anche fate ed elfi, come gli esseri umani, usavano le armi, se armi si possono chiamare frecce con la punta di selce, ben modellata, e spade di bronzo magnificamente forgiate. La punta di selce delle frecce era così minuta e sottile da poter infliggere solo ferite superficiali; più di una volta Bessie stessa era riuscita a risanare qualche vicino, colpito da una freccia degli elfi perché con il suo comportamento aveva offeso le fate.
Non disse neppure, Bessie, che il piccolo popolo sapeva anche uccidere perché era in grado di avvelenare la punta delle frecce: nello sterminato regno della Natura non sono certo poche le piante da cui trarre sostanze mortali.
Bessie conosceva l’indole ombrosa e permalosa delle fate: basta niente a offenderle, suscettibili come sono, e in questo ben diverse dagli esseri umani, che si obbligano a mandar giù rospi a tutto spiano, senza protestare, senza reagire.
Invece loro, le fate che se la prendono subito, anche per un nonnulla, si vendicano.
Per non parlare degli elfi e dei folletti – già dispettosi di per sé – che non ci pensano due volte ad andare su tutte le furie per uno sgarbo subìto dagli esseri umani e sono capaci di distruggerti il raccolto, rapirti i bambini o mandarti una serie di accidenti. Si augurò, Bessie, che i signori inquisitori avessero patito personalmente almeno quel micidiale colpo che ti blocca la schiena, l’elf-shot che ti paralizza i muscoli e ti impedisce di muovere un passo!
Quanto a lei, Bessie Dunlop, ben istruita dalla nonna, si era sempre comportata bene e quindi non era mai stata punita dalle fate. Non le aveva mai spiate andando poi a vantarsi in giro di ciò che aveva visto, non aveva rubato, come tentò di fare il re d’Inghilterra Enrico VIII, i loro tesori.
Gente che aveva rubato alle fate ce n’era, come quel viaggiatore che una sera, passando accanto alla collina fatata aveva sentito musiche, risate e canti. Si era avvicinato ed era stato invitato alla festa delle fate. Gli avevano offerto del vino, in una coppa d’oro, ma lui aveva gettato il vino – sia mai che fosse veleno – e portandosi via la splendida coppa se l’era data a gambe, per rivendere al mercato quella meraviglia tutta intarsiata, che era poi finita alla corte di Enrico I d’Inghilterra. Che fine abbia fatto il viaggiatore ladro non si sa, ma Bessie ricordava quell’altro cavaliere che alle fate aveva rubato una coppa tempestata di pietre preziose ed era fuggito al galoppo, sferzando il suo cavallo per non essere raggiunto dagli elfi.
Gli esseri fatati non hanno bisogno di starti alle costole per punirti: il giorno seguente il cavaliere al posto della coppa rubata trovò un fungo velenoso e mentre stava per salire a cavallo e riprendere il suo viaggio, si accorse che il suo bel destriero era stato azzoppato. Proseguì a piedi ma calpestò la zolla fatata – evitata accuratamente da chi sa distinguerla nell’erba – la zolla fatata che ti fa perdere l’orientamento. Finì per smarrirsi nelle lande e scomparve.
Bessie, dal canto suo, non aveva mai temuto nessuna punizione da parte delle fate, sapeva che cosa voleva da lei la corte di Elfos, non aveva mai lasciato la casa in disordine o sporca, e neppure si era mai toccata gli occhi dopo aver usato l’unguento magico ricevuto dalle fate, capace di spezzare qualsiasi incantesimo. Sapeva benissimo che se così avesse fatto, sarebbe stata privata della vista fatata. Non si era mai neppure posta domande sulla bizzarria del divieto. Le fate detestano i ficcanaso.
Avevano le loro leggi e il loro codice morale, poiché non mentono, non rubano, e amano essere generose: quante volte anche a lei, Bessie, avevano prestato utensili che le mancavano o il paiolo per cucinare, quel giorno in cui il suo si era rotto!
Puniscono severamente chi mente e chi ruba e chi è avaro ed egoista. Sono queste per le fate le colpe inammissibili, e non quelle di cui si occupano questi signori giudici inquisitori – rifletteva Bessie – che ti bruciano sul rogo come una foglia secca se guarisci la gente, se fai del bene, se parli con un defunto come hanno sempre fatto i nostri avi. E se vedi le fate.
I signori inquisitori quasi si accapigliarono fra di loro facendo a gara per superarsi l’un l’altro in eloquenza, nel tentativo di dimostrare a Bessie Dunlop che era stata ingannata dalle fate, e che le fate non sono fate ma demoni.
Lei zitta e muta ripeteva fra sé e sé che le fate non ti ingannano mai. Figurarsi che non dicono bugie neppure gli esseri fatati malvagi, e di malvagi fra fate ed elfi ne esistevano eccome. Bessie li conosceva e li temeva.
Esistono fate buone e fate cattive, questo lo si sapeva, esseri fatati buoni ed esseri fatati malvagi, perché il Male esiste, basta guardar negli occhi i signori inquisitori che stavano di fronte a Bessie, per esserne convinti! Che stessero alla larga dal popolo fatato, loro, alla larga dalla Moltitudine Felice, come nelle Highlands venivano chiamati gli esseri fatati ricchi di bontà. Stessero lontani, perché Bessie sapeva che le creature spirituali, fate ed elfi, perdono la loro bontà e – come si diceva – si corrompono quando hanno intorno esseri umani dall’indole cattiva.
È allora, scaturendo dalla cattiveria umana, che appare e si scatena la Moltitudine Malvagia, mai stata così prospera come in questi nostri tempi di guerre, delitti, ingiustizia, razzie, tempi in cui i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, in questi nostri duri tempi in cui prevalgono l’ingiuria degli oppressori e l’arroganza del potere, mentre il merito paziente viene deriso.
Di esseri malvagi fra i fatati ce n’è tutta una serie – ma questi i signori inquisitori avrebbero dovuto conoscerli a menadito – a cominciare dai Trows, che se contagiati dalla cattiveria diventano avidi d’argento e d’oro, abilissimi nel cavarti di tasca fino all’ultimo spicciolo di quello che possiedi senza per questo venir puniti, astuti nell’imbroglio, esseri che temono la luce, si tratti della splendente luce del sole o della ancora più splendente luce spirituale.
Esseri capaci di inseguirti di notte e strangolarti con le loro mani grosse e pelose, o di apparire nei sogni e trasformarli in un incubo, sibilandoti ingannevoli previsioni sul tuo futuro. Bessie ne aveva paura anche se si diceva che porta fortuna sorprendere due Trows mentre parlottano fra di loro; se invece ne vedi uno solo, quando al tramonto sta per infilarsi sottoterra dove vive, da quel momento ti andrà tutto per il verso sbagliato.
Malvagio è Redcap, che appare e scompare fra i tronchi degli alberi, la sera, pronto a stravolgerti la mente se lo guardi in faccia, e ancora di più se ti prende sottobraccio: ti induce a compiere un’azione malvagia prima che sorga la luna nuova, si tratti di furto o menzogna o omicidio. Redcap rende la tua anima dura come il guscio di una noce, in modo che niente possa più impietosirti e nessun povero possa più sperare da te l’offerta di una moneta.
Malvagio è Marool, il mostro marino che improvvisamente balza fuori dalle onde e travolge le imbarcazioni ed esulta nel guardare i marinai mentre affogano. E li ricopre di una vischiosa e spessa patina nera che trasforma il mare in veleno e ammorba i pesci.
Seduta in silenzio nell’aula del tribunale, Bessie avrebbe voluto che lì apparissero in un sol colpo tutti i malvagi della Moltitudine Malvagia e non solo Trows e Redcap e Marool, per avventarsi sui suoi inquisitori e sbranarli, spalleggiati dall’infinita crudele schiera di quei defunti che in vita ne avevano combinate di tutti i colori ed erano, come le aveva raccontato la nonna, condannati a vagare nello spazio per un numero di anni pari a quello delle loro cattiverie. Non sarebbe stato improbabile che i signori inquisitori facessero in quattro e quattr’otto amicizia con i malvagi, dato che da sempre, come tutti sanno, cane non mangia cane.
A meno che le creature malvage vaganti nel mondo, che ti assaltano alle spalle e popolano i tuoi incubi, quelle che strisciano sottoterra e si appiattiscono nell’ombra per terrorizzarti, quelle che ti sibilano nefandezze all’orecchio, quelle che appaiono e scompaiono nella notte e ti pare succhino il sangue a te o ai tuoi figli, che distruggano i frutti della tua fatica o scatenino sciagure sulla tua testa, che facciano piazza pulita del tuo amore e sgretolino la forza della tua passione – esseri malvagi che ti instillano rancori e ti spingono al tradimento e alla menzogna, esseri perfidi o draghi o mostri, nani maligni e fate cattive – a meno che tutti costoro altro non siano che l’incarnazione del lato oscuro dell’animo umano, la personificazione dello sguardo perverso della nostra umana indole, la manifestazione visibile dell’umana malvagità. L’epifania dell’orrore. Sarebbe come dire che sono gli uomini a partorire i mostri.
E pensare che non perché colpevole di aver frequentato queste atroci creature, i signori inquisitori la stavano spedendo al rogo, lei, Bessie Dunlop, in quel novembre del 1576, ad Aberdeen.
La condannavano, e questo non poteva che lasciarla stupefatta, per aver parlato con lo spirito del suo defunto eroe, il dolcissimo Thomas Reid, e per aver frequentato la Moltitudine Felice, la luminosa magia della corte di Elfos percorsa dalla musica.
Non potevano sapere i signori inquisitori quanto quella musica fosse intrisa di poesia, e ti spingeva alla danza, accompagnava feste e banchetti e gioiose cerimonie funebri, con flauti e flauti doppi che modulavano l’aria e il corno ricurvo che racconta la foresta e la caccia, e la tromba dagli squilli come corolle che si aprono verso il cielo a primavera.
Non potevano conoscere, i signori inquisitori, la musica dell’arpa divina, che guarisce da malinconia e malattie oscure, che suona la melodia della commozione e quella delle emozioni, una musica che ispira la conoscenza e regola la follia. Arpa divina costruita con il legno di salice, sacro agli spiriti dei defunti e alle divinità delle fruscianti acque.
I signori inquisitori la condannavano perché aveva percorso i mercati che le fate tenevano sui pendii delle colline, fra gli alberi, mercati affollati e multicolori, dove elfi e gnomi e coboldi lavoravano metalli e aggiustavano scarpe e vendevano ogni sorta di oggetti, ed era lì che aveva comperato una ciotola d’oro a poco prezzo. Non pochi rimasero zoppi o accecati da un occhio per aver avidamente spiato quei mercati fatati, ma a lei, Bessie, non era accaduto nulla di male, le fate l’avevano sempre protetta anche se adesso, così pareva, davanti ai signori inquisitori, quella protezione sembrava essere fragile più di una ragnatela.
La condannavano per aver appreso a decifrare nell’erba il presagio delle tempeste, proprio come fa il Night-man, l’essere fatato di cui Bessie riconosceva il grido e il suono del corno con cui questo spirito amabile ti avverte quando sta per piovere.
L’avevano accusata di essere simile alla Black Ann, la strega da cui lei, Bessie, si era sempre tenuta alla larga, perché strega malvagia che si scava la fossa con le unghie, e si ciba di carne umana, razzia le greggi, e solo l’anice gettato davanti alla porta di casa riesce a tenerla lontana.
L’avevano accusata di avere al proprio servizio un esercito di spiriti demoniaci con cui compiva magie delittuose per danneggiare le messi o per far ammalare mortalmente qualche vicino. Nell’ascoltare l’accusa Bessie si diceva che era impossibile che i signori inquisitori stessero parlando dei Goblins, perché essi non sono spiriti demoniaci, ma come tutti i folletti di questa terra amano solo far dispetti e non sono aggressivi se non con coloro che offendono gli inermi e maltrattano chi non può reagire.
O forse i signori inquisitori alludevano a Brownie, ma anche qui si sbagliavano a considerarlo creatura satanica. Brownie di demoniaco non ha proprio nulla, è solo un folletto servizievole, e se certe volte ti fa andare a male il latte o impazzire il burro, ti aiuta nei campi a mietere, a falciare, a battere il grano, o nelle stalle a mungere e ripulire. Bisognava solo fare attenzione a non offenderlo mettendogli direttamente in mano la fetta di torta, o di focaccia, che gli spetta per ricompensa; bisognava lasciarla nel vano della finestra dove Brownie sarebbe venuto a prenderla, quando nessuno lo vedeva.
O forse i signori inquisitori alludevano all’esistenza dei Knockers, che sono folletti che vivono nelle miniere, sottoterra, e per i signori inquisitori tutto quello che è giù sottoterra è infernale. Invece i Knockers sono spiriti minatori, gli elfi che sanno dove e come trovare i minerali e i metalli di cui hanno bisogno. Il padre di Bessie raccontava che anche lui, insieme agli altri minatori, tendeva l’orecchio per sentire i Knockers picchiettare con i loro martelli. Seguendo il picchiettio ogni volta erano riusciti a individuare ricchi filoni. Era vietato disturbare i folletti con fischi o imprecazioni: sarebbero scappati chissà dove, nelle viscere della terra.
I signori inquisitori l’avevano accusata di aver rapporti carnali con Satana, affermando che non solo lei, Bessie, ma anche tutte le altre che conosceva nel villaggio, tutte insieme se ne correvano a un diabolico sabba, alla festa del Diavolo, a danzare, copulare, circondate da rospi e demoni travestiti da cane, o da altri che andavano e venivano offrendo a destra e a sinistra monete d’oro che si sarebbero tramutate in sterco di cavallo alle luci dell’alba.
A questa accusa Bessie non si era degnata di rispondere. Valeva la pena di continuare a ripetere che le feste celebrate da lei, insieme alla gente del villaggio e dei villaggi vicini, erano le feste che per quattro volte segnano l’anno? A novembre quando l’anno comincia, a febbraio quando i serpenti escono dal letargo per annunciare il risveglio della primavera, a maggio fra gli alberi fioriti e prima della semina, e in agosto nel fulgore della raccolta delle messi? Valeva la pena di difendersi urlando che durante queste feste si accendevano fuochi e si danzava, si faceva anche l’amore, certo, ma diavoli non ce n’erano a quelle feste, e non c’erano rospi, poiché quelli se ne stanno nei fossi? C’erano poi le feste dei fuochi della miseria e anche le feste delle fate, ma lei, Bessie Dunlop, non avrebbe spiattellato ai signori inquisitori, come fecero in molte, come e dove si svolgessero le straordinarie feste del popolo delle colline.
L’avevano accusata di essere capace di volar via e percorrere il cielo notturno, insieme a un corteo di forsennate streghe, mentre a volare sono le fate, che sanno levarsi nell’aria, essendo esseri incorporei, e – come si racconta la sera intorno al fuoco – si siedono su steli o ramoscelli portati dal vento. Le fate sapevano anche far volar via nell’aria castelli e case, certe volte anche le persone, per deporle in altro luogo.
A essere sincera, ma di esser sincera con i signori inquisitori a questo punto non se ne parla neanche, Bessie aveva imparato dalla nonna a raccogliere certe erbe indispensabili per preparare unguenti che fanno uscire l’anima dal tuo corpo, ma qui non c’entrano streghe e scope e neanche il Diavolo.
Il corpo resta come dormiente mentre la tua anima libera può andare ovunque, glielo aveva insegnato la nonna. Per volare puoi anche fare a meno dell’unguento, quando sei donna sapiente sul serio.
E come se non bastasse, i signori inquisitori l’avevano accusata di mentire, quando aveva detto che lo spirito maschile di cui riceveva le visite era Thomas Reid. I signori inquisitori sostenevano che si trattava non dell’eroe di Pinkie ma di Satana in persona, o che, comunque, fosse Satana a farle apparire Thomas Reid, come se i morti avessero bisogno dell’aiuto del Demonio per tornare a far visita ai vivi! L’avevano derisa chiedendole perché mai Thomas Reid avrebbe dovuto apparire proprio a lei, povera donnetta di campagna.
I signori inquisitori evidentemente ignoravano che certi defunti tornano da chi li ha amati, e fa niente se vivi in una catapecchia e non in un palazzo. Tornano da chi non li dimentica, da chi sa vederli nel vano della porta di casa con gli occhi della chiaroveggenza. Thomas Reid non era forse ritornato, con l’aiuto delle fate, per concludere gli insegnamenti della nonna? Satana non c’entrava per niente in tutta questa faccenda, Bessie ne era sicura, come era sicura che molti defunti – ma non era il caso di Thomas – appaiono perché anime in pena, o per riscuotere antichi debiti di affetti non ricevuti, o per vendicarsi di offese patite, oppure per implorare di essere ricordati.
Siamo in troppi ormai a dimenticarci dei morti, avendo disprezzato il divino dono della memoria.
E poi non lo sapevano, i signori inquisitori, che quando un bambino – come era accaduto a Thomas Reid – viene rapito dalle fate diviene parte della Natura fatata e può muoversi a suo piacimento nel mondo visibile e in quello invisibile, territorio comune di esseri fatati e di defunti? Thomas poi, quando venne rapito ai genitori, non fu sostituito con un bambino delle fate, anche se questa, di sostituire un proprio figlio a uno di razza umana, si dice sia consuetudine del piccolo popolo.
Se ne raccontano di storie in cui i genitori si ritrovano in casa un bambino gracile o malaticcio! Protestano di non vederlo bello grassoccio e sano come sarebbe giusto, con tutto quel pane che padre e madre gli avevano messo nella scodella del latte! Che cosa farsene di un figlio rachitico, o muto, o di indole bizzarra? Non poteva essere che figlio di fate perfide, ma non di loro, genitori robusti e religiosi. Non lo volevano, loro, questo figlio di fate, e per questo il piccolo veniva maltrattato, o picchiato, o ucciso. Non poche volte lei, Bessie, era riuscita a guarire bambini stenti e famelici – così numerosi nei tempi di carestia – per impedire ai genitori di spedirli al Creatore, con la bella scusa che i figli delle fate non meritano altro.
Di tutto questo, di questo mondo fatato da cui era sempre stata circondata fin dal momento in cui aveva aperto gli occhi, vivendo nei boschi e nelle lande la sua vita di donna sapiente, Bessie Dunlop non disse ai suoi inquisitori una sola parola.
Da parte loro, i giudici calvinisti che stavano per condannare Bessie Dunlop al rogo, in quel giorno di novembre ad Aberdeen in Scozia, erano più che convinti di trovarsi davanti all’ennesima strega, recalcitrante ad ammettere le proprie colpe. Non servivano minacce, non serviva la tortura con quella cocciuta donna. Affermava di riuscire a guarire la gente? Ammesso che fosse vero, si dicevano l’un l’altro gli inquisitori, era indubbiamente Satana a darle questo potere, poiché quella donnetta non era una santa e non era un medico e non era un prete esorcista. Affermava di vedere le fate e le riteneva buone? Qui mentiva, ovviamente, perché le fate non sono altro che creature sataniche, come si poteva leggere nei testi di demonologia che gli inquisitori di tutta Europa si tenevano sottobraccio, dal Malleus maleficarum scritto da due famosi teologi tedeschi, a decine di altri.
In breve, tutto quello che era sfuggito dalle labbra di Bessie Dunlop era una prova lampante della sua complicità con il Demonio e della sua indole perversa. Del resto, se era stata denunciata da qualcuno del suo villaggio come strega, non scriveva forse l’esimio giurista francese Jean Bodin che la voce del popolo, le chiacchiere e i pettegolezzi che circondano una donna e la ingiuriano come strega valgono essi stessi come prova indiscutibile e certa che la donna in questione strega lo è sul serio?
Che continuasse pure a starsene muta da quando aveva deciso di non rispondere più alle loro domande. Non era certo la prima con cui loro, gli inquisitori, avevano a che fare. Non sarebbe stata l’ultima, e pazienza se si rifiutava stolidamente di confessare le sconce baldorie consumate insieme a Satana, fa niente se rifiutava di ammettere che quelle che venivano chiamate fate altro non erano che spiriti satanici.
Altro che esseri fatati, altro che spirito dei defunti, si dicevano l’un l’altro gli inquisitori di Bessie Dunlop. Qui si parla del Diavolo, si parla di presenze diaboliche, si parla di sabba. Con questa convinzione ordinavano di preparare i roghi su cui si sarebbero incenerite le donne sapienti, una dopo l’altra.
Cattolici o calvinisti che fossero, non solo in Scozia o in Inghilterra, ma in tutta l’Europa, in Scandinavia, in Germania, in Italia, nei Paesi Baschi, nei Paesi slavi, per difendersi da Satana e dai suoi demoni gli inquisitori accendevano roghi, dopo aver ascoltato dalla bocca delle imputate interminabili racconti che parlavano di feste delle messi e della fertilità, di fate ed elfi, gnomi e folletti, nani e coboldi.
Erano i racconti delle fate, questi, con cui le donne sapienti accusate di stregoneria stavano parlando del proprio mondo, racconti che furono la severa testimonianza e l’appassionata difesa di antichissimi culti, di antichissimi eventi religiosi.