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IL MONDO DI BESSIE DUNLOP
Nessun dubbio che parlasse delle fate, la guaritrice scozzese Bessie Dunlop quando ai giudici che la inquisivano dovette descrivere le dame in abito bianco apparse nella sua cucina, vicino al focolare. Quella sera Bessie aveva gettato nel fuoco alcune manciate di foglie di quercia.
Dubbi sull’esistenza delle fate non ne aveva certo lei, Bessie Dunlop, famosa in tutto l’Ayrshire, nel nord della Scozia, per le sue arti magiche e curative. Donna sapiente e veggente. Con l’accusa di essere strega nel 1576 venne denunciata, non seppe mai da chi, agli inquisitori della città di Aberdeen. In quei tempi nelle chiese scozzesi si teneva una cassetta a disposizione dei parrocchiani. Qui chiunque, non visto, poteva lasciare cadere denunce contro le streghe. Prontamente le denunce finivano nelle mani dei giudici inquisitori. Quella contro Bessie Dunlop venne consegnata agli inquisitori del tribunale di Aberdeen.
Costoro erano calvinisti. Non furono quindi giudici della Inquisizione istituita dalla Chiesa di Roma, ma da essa raccolsero, mantennero, enfatizzarono e fecero proprio il rigore cattolico nella persecuzione di eretici e streghe. Inquisitori di fatto se non di diritto. Nel 1563 la legge scozzese contro la stregoneria prescrisse la pena di morte per tutte le streghe, buone e cattive, obbedendo all’insegnamento di Calvino. Il riformatore svizzero con “tetro piacere”, come scrive lo storico Hugh R. Trevor-Roper, predicava ai suoi eletti: «La Bibbia ci insegna che le streghe esistono e che devono essere uccise [...] questa legge di Dio è legge universale». Sinistra eco al versetto biblico: «Non lascerai vivere la strega».
Ci mancherebbe proprio che non fosse strega, per i signori inquisitori calvinisti, questa Bessie Dunlop che comunicava con gli esseri fatati, ne era allieva e seguace, e peggio ancora non li temeva. Anzi: li descriveva come spiriti buoni e amabili.
Loro, gli inquisitori, solo a parlar di fate si sentivano rizzare i capelli in testa, come dovrebbe accadere a ogni buon cristiano. Per provare il brivido della paura bastava del resto allontanarsi da Aberdeen e dal suo vociferante porto e inoltrarsi nelle lande deserte, battute da un vento inquieto, o nelle boscaglie. È qui, e certo non solo nella stregata cucina di Bessie, che le fate, come tutti ben sanno, amano sorprenderti alle spalle, apparire e sparire fra i cespugli o nei boschi dove hanno dimora, all’interno di certe colline ricoperte da alberi, le cui radici affondano giù giù fino all’Inferno.
Nessun dubbio infatti, per i giudici inquisitori, calvinisti o cattolici o anglicani che fossero, circa la vera natura di quegli spiriti sottili chiamati dal popolo “fate”. Spiriti che la Chiesa di Roma e la Riforma, Martin Lutero in testa, avevano definito di natura satanica. O Satana stesso si tramutava in essi; essendo il Diavolo tanto abile, si sa, ad assumere qualsivoglia aspetto, bruco o fata o lupo o bell’uomo se non donna lasciva, gnomo o elfo, pur di tentare la creatura mortale e strapparne al Signore dei Cieli l’anima, per dannarla.
Ciò che non è di Dio appartiene a Satana, non finiremo di ripeterlo. Di questa conclamata verità Bessie Dunlop non riesce a convincersi, nonostante l’umidità delle carceri di Aberdeen stillanti acqua salmastra, e la tortura. Né si convince che fu il Diavolo, come sostenevano i signori inquisitori, e non le fate ad ammaestrarla sui segreti delle erbe mediche, sui riti del parto, sulla sua veggenza.
Nessun dubbio per Bessie Dunlop, donna sapiente, guaritrice e veggente, che oltre al regno del Diavolo e del Buon Dio, esista un ben altro regno, e non solo di materia. È questo il regno che appartiene alla Natura, governato dalla sua energia vitale, dalla sua forza rigeneratrice e misteriosa, dai suoi cicli di sole e di luna, di vita e di morte che torna a esser vita. Linfa, albero, gemma, fiore e frutto, acqua e pietra, creatura animale, pianta ed erba risanatrice o velenosa, di quel regno Bessie Dunlop tutto conosce.
Conosce la qualità degli spiriti che animano la Natura. Un mondo invisibile scorre parallelo a quello visibile: Bessie sa discernere l’invisibile nel visibile, il soprannaturale nel naturale. Chi come lei possiede la seconda vista crede nelle fate perché le vede, a differenza dei suoi inquisitori che nelle fate credevano pur senza riuscire a vederle.
«Chi guarda, vede», affermava Paracelso, il grande medico cinquecentesco, che sulle creature appartenenti al mondo del soprasensibile scrisse nella prima metà del Cinquecento Il trattato delle ninfe silfi pigmei salamandre e altri esseri.
Evidentemente, Bessie sapeva guardare. Del resto Paracelso – a cui la morte avvenuta nel 1541 fu preannunciata, a quanto si dice, da un’eclissi – affermava che tutto ciò che aveva imparato sulla scienza della guarigione gli era stato insegnato dalle streghe, vale a dire da erboriste, guaritrici, esperte di farmaci, levatrici, dalle donne di antica saggezza capaci di trattare sostanze benefiche e veleni nella giusta misura. Magnifiche nel risanare. Accusate di uccidere dal potere laico e da quello ecclesiastico (Chiesa di Roma e Chiese Riformate).
Negli atti del processo per stregoneria celebrato in quei giorni del 1576 ad Aberdeen, in Scozia, leggiamo dunque che le fate apparvero a Bessie Dunlop in un pomeriggio di ottobre.
Fu il primo incontro. Bessie non era sola nella grande cucina di casa sua. Altri sedevano con lei. Fuori, le lande sbiadivano nel crepuscolo autunnale. Dentro, la fiamma del focolare dava vigore all’aroma delle erbe mediche, legate da Bessie in mazzi e appese in stretta successione a una corda tesa lungo le pareti della cucina, là in alto perché nessuno le toccasse. Quell’aroma invadeva l’aria frammisto all’odore delle foglie di quercia, che stavano bruciando nel fuoco alimentato esso stesso da legno di quercia, pianta sacra in assoluto. Su di essa, fra cielo e terra, cresce il magico vischio, farmaco incomparabile, che racchiude in sé il potente spirito della pianta che lo ospita.
Seduta al tavolo, accanto al marito, Bessie stava pensando che fra pochi mesi, quando il vischio avrebbe iniziato a verdeggiare sulle querce, sarebbe uscita di casa poco prima dell’alba. Avrebbe scorto, bassa all’orizzonte, la costellazione del Toro. Aveva imparato dalla nonna che è questo il tempo della raccolta del vischio, al colmo delle sue virtù curative. Bessie rifletteva che, al solito, avrebbe anche disposto alcuni rametti di vischio sopra la porta della cucina, perché oltre a risanare il corpo, il vischio sa come tener lontano gli spiriti maligni dalla casa, e quindi dall’anima.
Sulla tavola Bessie aveva appena deposto alcune focacce di avena impastata con uova e latte. Chiacchiere, risate, pettegolezzi, si incrociavano intorno a lei. A un certo punto vennero bruscamente cancellati da chissà quale gesto magico per lasciar spazio a un silenzio da cui Bessie si sentì circondata «come da un sudario». Tratta in un’altra dimensione da quel silenzio sospeso, Bessie percepì qualcosa alle spalle. Si girò verso il focolare e fu allora che le vide.
Raccontò ai signori inquisitori di aver subito guardato spaventata suo marito e poi gli altri intorno al tavolo: continuavano palesemente a parlare fra di loro anche se lei, Bessie, non riusciva a udire le loro parole. Non badavano a lei e tantomeno parevano essersi accorti del gruppo fatato apparso in fondo alla cucina. Comprese allora in un attimo che lei sola poteva vedere quelle creature ferme a mezz’aria là, vicino al focolare. A nessun altro in quella stanza, se non a lei, apparivano le fate. Insieme a loro, Bessie scorse Thomas Reid.
Dagli atti del processo sappiamo che Bessie era calvinista, ma non sappiamo quando abiurò al cattolicesimo per convertirsi al calvinismo. L’uomo di cui si era innamorata da ragazza, Thomas Reid, era rimasto cattolico, ardente al punto da arruolarsi per mettere in gioco la vita contro l’esercito del re d’Inghilterra in quel fatidico decimo giorno di settembre del 1547, a Pinkie, poco a est di Edimburgo, lungo le rive del fiume Esk. Battaglia tanto catastrofica questa, per la Scozia, da meritarsi il sinistro nome di “Black Saturday”, in memoria dei quattromila scozzesi che, sotto il tiro dell’artiglieria inglese, morirono insanguinando le acque del fiume.
Lungo le sponde dei fiumi e accanto alle sorgenti, nelle notti di luna, tragiche fate veggenti, pallide creature soprannaturali, chiamate banshees, lavano i sudari per coloro che stanno per morire e specialmente per coloro che, per morire, scelgono il campo di battaglia.
Ebbero un bel daffare, le banshees, a sciacquar sudari nella corrente dell’Esk, nella lunare notte di venerdì fra il 9 e il 10 settembre, poco lontano dagli accampamenti dove gli Highlanders bivaccavano raccolti intorno al loro inesperto comandante, quel conte di Arran che il giorno seguente, scambiando una manovra degli inglesi per una ritirata, avrebbe condotto i suoi soldati al massacro.
Per il momento, l’alba del sabato era ancora lontana. Nell’oscurità percorsa dal frusciare delle acque, dal bagliore della luna nella corrente, dall’umida fragranza del sottobosco, le banshees andavano e venivano lievi fra la riva del fiume e la cupa macchia del bosco. Là erano folti i noccioli simbolo di Saggezza e di Bellezza, incontaminate entrambe perché racchiuse nel piccolo frutto compatto, che il duro guscio protegge dai veleni dell’animo umano. Per la sua incorruttibile natura, il nocciolo era sacro per la popolazione mitica dei bardi e dei guerrieri: guerrieri celtici coraggiosi in battaglia e di cui i bardi cantavano le gesta accompagnandosi con il cruth, simile al divino strumento a corde che aveva estasiato, sotto altri cieli, anche Apollo.
Sui noccioli che fruttificano Saggezza e Bellezza, le banshees stendevano i sudari perché asciugassero, pronti ad accogliere i morti del giorno seguente, inglesi e scozzesi. Dall’altra sponda Thomas Reid le seguiva con lo sguardo. Possedeva la seconda vista, lui che era stato rapito dalle fate quando era in culla e restituito ai genitori da adolescente. Intorno a lui tutti, scozzesi e inglesi – in quella notte che precedeva la battaglia – seppur divisi da tradizionale odio e da aspri conflitti religiosi, erano uniti da una comune credenza: ognuno di loro sapeva, le si vedessero o no, che laggiù, fra i sacri noccioli, stavano vagando le banshees premonitrici di morte. Tutti credevano all’esistenza delle fate, indipendentemente dalla religione o dalla fede politica per cui erano disposti a uccidere e a farsi uccidere.
Nella mentalità collettiva la credenza nelle fate era tanto radicata, in quei tempi, da pervadere di sé la quotidianità del soldato e quella del condottiero, del chierico e del vescovo, della cortigiana e della dama, della guaritrice e degli inquisitori, del servo e del possidente di pecore, del mercante e del re.
Era la travagliata epoca della Riforma. Luterani, calvinisti e anglicani continuavano a sottrarre alla Chiesa di Roma territori, fedeli, beni e tasse. Si passava con fervore da una confessione all’altra e si continuava con fervore a credere nel mondo soprannaturale degli esseri elementari.
Se questo avveniva ovunque in Europa, più che mai accadeva in Inghilterra, in Scozia, in Irlanda, dove il cristianesimo aveva stentato a farsi strada nelle lande, nelle foreste e nelle montagne, tanto potente era il legame di quelle genti con gli invisibili esseri della Natura. Si poteva, come Bessie Dunlop, inginocchiarsi davanti al prete cattolico al mattino e frequentare le fate la sera, abiurare al cattolicesimo, diventare calvinisti – o luterani, o anglicani – senza per questo incrinare la personale credenza nelle fate e con essa la convinzione che dalle fate si potessero apprendere i segreti delle erbe che risanano, della rugiada che suggerisce i cambiamenti del tempo, delle acque curative, dell’influenza degli astri, il proprio futuro e il proprio destino.
Per il mondo cattolico, la Controriforma con il Concilio di Trento aveva iniziato nel 1545 una lotta senza quartiere al popolo fatato e al mondo magico; per i Riformati era altrettanto diabolico credere nelle fate e nel regno della magia. Eppure nel cuore dei più e in quello di Bessie Dunlop, archetipo di figlia del suo tempo, Cristo e la Regina delle fate potevano tranquillamente convivere.
Convivevano nel cuore di Thomas Reid, allievo di fate e morto in battaglia nel 1547, per impedire che alla propria cattolica regina, Maria Stuarda, venisse imposto come futuro marito EdoardoVI. Era costui re dell’odiata Inghilterra, orientato oltretutto verso il protestantesimo e figlio del sanguigno Enrico VIII, da sempre nemico degli scozzesi e dalla scandalosa vita personale, conclusa nel giugno di quello stesso anno 1547.
Presumibilmente Cristo e le fate, sia pure sotto una luce del tutto diversa, avevano convissuto anche nel cuore di Enrico VIII, che praticava la magia, che aveva rotto i ponti con il papato obbligando la Chiesa d’Inghilterra a riconoscerlo come capo supremo, che aveva aperto l’Inghilterra ai protestanti, che aveva incamerato i beni ecclesiastici abolendo i monasteri e i conventi, che era riuscito a disfarsi anche dell’ottava moglie Anna Bolena facendola giustiziare perché strega. E che, si diceva, insieme al suo demoniaco ministro Wolsey tentava, in certe notti di luna, di sorprendere le fate mentre danzavano intorno ai magici cerchi di pietra e sotto le sacre betulle, sperando di convincere la loro Regina a svelargli i luoghi dove erano sepolti i tesori.
Nel Rinascimento, segnato dalla vita, dal pensiero e dalle opere di tanti uomini straordinari, si continuava dunque a credere all’esistenza delle fate e al potere della magia. Non solo se, come Bessie Dunlop, si era guaritrici e veggenti. Nella sfarzosa corte rinascimentale dei Tudor, pozioni magiche estorte alle streghe e cappelli fatati acquistati da maghi ebrei, gran maestri di cabala e di occultismo, suscitavano lo stesso interesse delle lezioni di filologia che l’umanista Erasmo da Rotterdam teneva alla raffinata e colta università di Oxford.
Erano tempi di indomito coraggio e di grandi avventure della mente e dell’audacia individuale, in un mondo permeato dal senso del magico e del soprannaturale. Tempi in cui i navigatori, sull’esempio di Cristoforo Colombo, sfidavano l’ignoto per imbarcarsi alla ricerca di nuove terre, sicuri che un gatto nero che avesse un rametto di timo, pianta prediletta dalle fate, legato alla zampa anteriore sinistra sarebbe riuscito a placare prontamente le tempeste, se gettato in mare. Purché non si trattasse del gatto di bordo, protettore delle navi; credenza diffusa fin dall’antichità e divenuta norma nel codice di leggi stilato da Howel il Buono, re del Galles nel X secolo: una nave che non avesse a bordo il gatto protettore si sarebbe trasformata ben presto in relitto, preda dei pesci e dei draghi degli abissi.
Se sulle carte geografiche dell’epoca i navigatori del Rinascimento andavano a mano a mano sostituendo al Nulla il profilo di nuovi continenti dalle coste popolate di sirene – epifania marina delle fate – la concezione dell’universo intero veniva ridisegnata da uomini di genio, ed erano tempi, quelli, in cui la distanza fra genio e magia era breve quanto quella fra corda e impiccato. O fra legna e rogo.
L’astronomo polacco Copernico, per evitare l’accusa di essere non scienziato ma mago ed eretico, si vide costretto a rivelare solo in punto di morte – avvenuta nel 1543 – la sua teoria secondo cui la Terra altro non è che una scheggia vagante intorno al Sole, nell’immenso mistero spirituale del cosmo. Teoria, questa, che spogliava l’uomo del privilegio, fino ad allora universalmente riconosciuto, di esser creatura deposta da Iddio stesso al centro del Creato. Meno prudente di Copernico, passato a miglior vita nel suo letto, il filosofo italiano Giordano Bruno, in quanto mago e frequentatore delle scienze occulte, venne spedito sul rogo, il 16 febbraio del 1600, in Campo dei Fiori a Roma, per aver spifferato ai quattro venti le sue innovative enunciazioni filosofiche. Esse svellevano le radici stesse del pensiero cattolico, a cominciare dalla più profonda che trae la sua linfa dalle affermazioni di Aristotele.
Agli inizi del XVII secolo, l’astronomo e astrologo tedesco Giovanni Keplero riuscì a salvare la pelle nonostante condividesse apertamente le teorie di Galileo Galilei: Galileo fu perseguitato dalla Chiesa per aver incautamente sottoscritto la teoria copernicana dimostrando che è la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa, come si legge nella Bibbia.
Keplero, uomo che si inchinava di fronte alla spiritualità della Natura, da parte sua definì in formule matematiche l’ellisse tracciata da ogni pianeta avendo il Sole come uno dei due fuochi, ed escogitò un sistema tutt’altro che inefficace per prevedere le eclissi di Sole e di Luna. Nel contempo venne perseguitato dai cattolici perché protestante e, per ben 23 anni, venne assillato dalle accuse di stregoneria con cui l’Inquisizione tentava di spedire al rogo sua madre Caterina, famosa guaritrice, veggente e astrologa.
Le corti rinascimentali europee, e così quella inglese, spalancavano le porte a straordinari artisti, filosofi, scienziati e intellettuali, e tutte, compresa la corte papale, continuavano a ricorrere ai maghi per premunirsi dalle disgrazie e dalle malattie acquistando amuleti. Se, nonostante questi, si veniva divorati da un qualche morbo, allora si preferiva seguire l’usanza del popolo e prendere la strada delle campagne e dei boschi per chiedere aiuto alle donne sapienti: in breve, alle streghe.
Lo stesso re d’Inghilterra, Giacomo IV, era ricorso a una strega, a cui mostrò le gengive gonfie e infiammate sulle quali con l’inchiostro nero il più noto medico di Londra aveva scritto quale infallibile cura della piorrea: «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Sciacqui di malva consigliati dalla donna sapiente, unitamente a impacchi di cipolla e argilla, risanarono in poco tempo il re, che non esitò a spedire al rogo la sua guaritrice, accusandola di essere una strega.
Si ricorreva ai medici volentieri se il medico di corte era seguace di Paracelso, medico e alchimista, che conduceva i suoi studenti fuori dalle aule accademiche e li portava nei prati e nelle più folte foreste poiché, affermava, a guarire sono le erbe medicinali e le piante che crescono in quella magnifica e sterminata farmacia che è la Natura.
Le streghe la sapevano lunga, loro, sulla Natura e su come si cura un infermo, nel corpo e nello spirito. Avevano alle spalle generazioni e generazioni che di madre in figlia tramandarono gli insegnamenti appresi dalle fate, creature delle acque e dei boschi. Questi insegnamenti erano ritenuti sacri prima che all’orizzonte apparissero uomini risoluti rivestiti da tonache e da sai. Uomini che portavano con sé croci e libri in cui era contenuta la loro verità. Erano i preti missionari, inviati dalla Chiesa di Roma a cristianizzare i popoli pagani. La Chiesa aveva portato alle popolazioni pagane Cristo. E con esso, Satana. Gli insegnamenti delle fate vennero trasformati in formule demoniache. Le donne sapienti in streghe.
Erano tempi in cui i demoni della guerra percorrevano l’Europa avanti e indietro, lasciandosi alle spalle fiumi di sangue e rovine, carestie, pestilenze, fame. Mentre i grandi della Storia rinascimentale si combattevano per spartirsi i territori o imporre la propria fede, mentre principi e re e vescovi di Francia, Germania, Italia e Spagna e Inghilterra mandavano al massacro i propri eserciti e decapitavano, avvelenavano, passavano a fil di spada gli oppositori, politici o di diverso credo religioso, i roghi su cui ardevano le streghe illuminavano il cielo da un paese all’altro.
Le fate e il loro popolo continuavano a vivere nell’arboreo rifugio delle foreste.
Nell’Inghilterra del Cinquecento, boschi e foreste si addensavano folti di alberi secolari. Soprattutto nella selvaggia Scozia, patria di Bessie Dunlop, il regno fatato della Natura non era ancora stato colonizzato. Divinità della vegetazione, spiriti elementari, fate ed elfi, non erano ancora stati privati del loro potere. Nelle città che sorgevano sulle coste e nelle pianure delle Lowlands si viveva più o meno inseriti in una struttura sociale, politica e religiosa nell’ambito di una monarchia consolidata. Nelle montuose Highlands l’anarchia era totale.
Per l’ingovernabile popolo dei clans il tempo sembrava essersi fermato. Come i loro antenati, mille anni prima, gli Highlanders indossavano gonnellini e si buttavano sulle spalle mantellacci di pecora. Armati di spada e di scudo, abili nel tiro dell’arco, sprezzanti delle armi da fuoco, i bellicosi clans conducevano una inesausta guerriglia, gli uni contro gli altri, pur credendo nelle stesse divinità silvestri, mangiando gli stessi cibi, giocando tutti appassionatamente a golf, seguendo gli stessi riti stagionali, avendo le stesse credenze e gli stessi tabù, a cominciare da quello dei capelli, che gli Highlanders lasciavano ricadere sulle spalle, lunghi e arruffati.
Sapevano che solo tagliando i capelli in certi giorni dell’anno avrebbero potuto preservare la propria incolumità fisica. Usavano, per questo scopo, un coltello che fosse rimasto immerso nell’acqua di una sorgente per una intera notte di plenilunio. L’uso del pettine era più che mai vietato dopo il tramonto del sole, poiché era quella l’ora in cui i capelli rimasti nel pettine avrebbero scatenato devastanti temporali e tempeste di mare. Nessuna ragazza delle Highlands che avesse fratelli o innamorati in mare osava pettinarsi di notte: sia pure a grandi distanze, la nave che aveva imbarcato i suoi cari sarebbe colata a picco, sommersa da ondate furiose.
Selvaggi, con l’indole del bandito e del rapinatore, i capi dei clans vivevano tutto sommato poveramente, come la popolazione di cui erano signori assoluti. Protetti da una natura selvaggia quanto loro, opponevano uno strenuo baluardo a ogni tentativo di riassetto politico, sfidando la corte reale di Edimburgo, indifferenti al sangue in cui venivano soffocate le loro perenni rivolte, ma pronti ad allearsi e a schierarsi spalla a spalla al servizio del loro re, se c’era da menare le mani contro l’Inghilterra.
La corte scozzese, da parte sua, nei suoi bei castelli delle Lowlands, non viveva certo in un clima idilliaco, essendo simile agli Highlanders per turbolenza. Congiure e intrighi erano pane quotidiano e il regicidio veniva praticato con disinvoltura. Giacomo I Stuart fu assassinato dai propri oppositori politici, e se Giacomo II trovò la morte da valoroso battendosi contro gli inglesi, non se la cavò meglio Giacomo III, troppo morbido invece nei confronti dei vicini e per questo trucidato da una rivolta guidata dal suo stesso figlio, Giacomo IV. Costui, per togliersi dai piedi l’avida Inghilterra, riaprì le porte di Scozia alla Francia, tradizionale alleata nella lotta contro gli inglesi. Venne trucidato, insieme a gran parte della nobiltà scozzese, dalle truppe di Enrico VIII.
Giacomo V, cattolico e francofilo al punto da sposare la francese Maria di Guisa, oltre alla costante ribellione degli Highlanders e agli attacchi degli inglesi, dovette far fronte, come non bastasse, anche alle lotte religiose; traboccando dall’Europa il protestantesimo stava dilagando anche in Scozia: la corruzione delle gerarchie cattoliche aveva finito per indignare non pochi cattolicissimi scozzesi. Conventi, monasteri, abbazie erano destinati alla razzia e alla distruzione. La rovinosa sconfitta che Giacomo V, pochi giorni prima di morire, subì dagli inglesi a Solway Moss nel 1542, aggiunse devastazione a devastazione.
Era questo lo scenario storico in cui si trovava a vivere Bessie Dunlop negli anni in cui la nonna, famosa levatrice, la condusse con sé nelle zone montuose e nei boschi, per tentare di sottrarsi alle tragedie che stavano decimando la popolazione. Alle guerre e agli scontri religiosi si aggiungevano i briganti, che razziavano le campagne già provate dalle carestie e percorse da un esercito di straccioni affamati che non potevano più sperare in un piatto di minestra, fino allora offerto dai conventi. Gli scozzesi della Riforma non si occupavano dei mendicanti, troppo presi ad applaudire le vigorose prediche di John Knox, gran trascinatore di folle, teologo e seguace di Giovanni Calvino e ben deciso a riformare la Scozia intera.
Mentre alla corte di Edimburgo nel 1543 la figlia di Giacomo V, Maria Stuarda, veniva eletta regina degli scozzesi a soli undici mesi di vita, Bessie imparava dalla nonna che il trifoglio è pianticella sacra e prediletta dalle fate, e con le sue tre foglioline innestate sullo stelo simboleggia le tre fate che appaiono accanto alle culle per determinare il Destino del neonato. Imparava che il raro quadrifoglio, se posto sul capo, apre lo sguardo permettendo di vedere le fate. Di quadrifogli la nonna non ne aveva bisogno, perché possedeva la seconda vista, lei. Bessie non ancora. Avrebbe dovuto attendere Thomas Reid.
Imparava a venerare il secolare tasso che fra gli alberi è il più antico e può raggiungere anche ventimila anni di vita. È fra i più sacri perché portatore di morte e di vita: le sue foglie possono uccidere, tanto potente è lo spirito che le pervade, ma se usate accortamente guariscono i polmoni malati. Ben serve a procurare l’aborto, e sulle questioni che riguardano la fertilità delle donne – e degli animali – la nonna era grande esperta: a lei ricorrevano le donne in attesa di un figlio e coloro che di un figlio volevano disfarsi, non sapendo più dove battere la testa per procurare il cibo a quelli che già avevano.
Bessie imparava che i rossi fiori della digitale accolgono nelle corolle le fate assonnate, e che andavano raccolti con cautela per non disturbare le dormienti. Con la digitale imparava a ottenere infusi indicati per risolvere mal di cuore e per risanare le ferite; purché non si trattasse di mal d’amore.
Imparava a trattare con abilità i dolci semi dello stramonio, che procurano incubi e deliri, fiaccano la volontà, sciolgono la lingua inducendo a spiattellare i più gelosi segreti al primo venuto. Nelle notti senza luna attraversavano insieme i prati, nonna e nipote, per raccogliere i bianchi fiori dello stramonio che fioriscono solo nell’oscurità e con il loro lezzo acuto allontanano gli animali selvatici. Imparò che se lo stramonio avvelena è anche, in giusta dose, un magnifico aiuto per sedare il dolore fisico. Quello dell’anima lo rimettiamo al Signore Iddio.
Imparò dalla nonna che ungendosi il corpo con olio di stramonio si può alzarsi in volo e, come i magici uccelli della notte, a tutta velocità raggiungere qualsiasi parte del mondo conosciuto e sconosciuto. Compresa l’odiata Inghilterra.
Alla luce del fuoco nelle sere invernali, quando nessuno avrebbe più bussato alla porta per implorare una tazza di latte, Bessie imparò a decifrare i disegni che con mano sicura la nonna tracciava per illustrarle i segreti del corpo umano. Non che lei, Bessie, l’avesse mai vista in azione, ma sapeva che la nonna era assidua frequentatrice di cimiteri, i quali, come si sa, sono luogo d’incontro fra fate e defunti. Qui, protetta dalle fate e senza offendere gli spiriti dei defunti per evitare la loro ira, la nonna non esitava a dissotterrare i morti per studiarne gli organi interni. Non aveva paura della morte: la morte è tutt’uno con la vita, che genera morte che genera vita, in un continuo ciclo denso di misteriosa energia. Né la intimorivano le rigide membra dei cadaveri, troppo avvezza ormai a maneggiarne il corpo. Quanto all’anima, sa da sé come andarsene altrove, sia pure per appendersi ai rami di un salice se anima di omicida.
Assassini a loro volta assassinati ne morivano a schiere in quegli anni, sotto la reggenza di Maria di Guisa, la vedova francese di Giacomo V. In nome della figlia ancora bambina, Maria aveva assunto il governo di quel Paese povero, che mal si prestava a rimanere un protettorato francese. La Riforma appoggiò i nazionalisti; Maria tentò di fronteggiare l’opposizione riuscendo a comperare non pochi dei suoi membri e cercando di eliminare gli incorruttibili. In breve, le continue e sanguinose rivolte locali si trasformarono in rivoluzione.
Fu in questo periodo che Bessie conobbe Thomas Reid, l’uomo delle fate e da esse istruito sui segreti del loro mondo e su quelli della Natura, ma non per questo meno coinvolto da lotte religiose e politiche, divenute più violente da quando John Knox era addirittura riuscito a diventare ministro della Reggente, nel 1546. Thomas Reid, da uomo di fede e da focoso Highlander, non esitò a correre a Saint Andrews a fianco dei cattolici e dei francesi per difendere l’arcivescovo David Beaton, minacciato da una congiura di neoriformati.
Era il mese di giugno del 1547. L’assedio dell’abbazia fu rovinoso per Beaton, che venne assassinato dai cospiratori capeggiati da John Knox. Non fu però meno rovinoso per Knox e per i suoi, che finirono trucidati dagli avversari; ai sopravvissuti all’assalto fu riservata l’impiccagione. Knox cadde nelle mani dei suoi nemici, evitò il cappio, venne spedito in Francia e incatenato ai remi a far la vita del galeotto.
I cattolici seppellirono il loro buon arcivescovo e i morti. Intorno all’abbazia di Saint Andrews si riprese a giocare a golf come ormai da ben più di un secolo si giocava in tutto il Paese, nonostante il gioco fosse stato vietato con una legge specifica nel 1457. Tutti, cattolici e protestanti, contadini e re, Highlanders e cittadini, da veri scozzesi non rispettavano le leggi e tantomeno quelle che tentavano di proibire un gioco di immensa popolarità. Di esso anche il parricida Giacomo IV era stato appassionato e campione. Gioco proibito perché distraeva i soldati dalle esercitazioni militari, cosa più che probabile viste le tremende batoste che gli scozzesi continuavano a subire dai ben più diligenti inglesi. Fra queste, la rovinosa battaglia di Pinkie del 10 settembre di quello stesso anno, nella quale Thomas Reid perse la vita.
Alla corte d’Inghilterra, concluse le cerimonie funebri che spedirono Enrico VIII nell’aldilà, aveva preso le redini del governo il duca di Somerset, zio del giovanissimo Edoardo VI. Il duca istruì subito i suoi ambasciatori perché si recassero da Maria di Guisa, parendogli ovvio che per risolvere l’annoso conflitto e impadronirsi della Scozia, sarebbe bastato proporre agli scozzesi la programmazione di un matrimonio fra il nuovo re e la piccola Maria Stuarda. Il progetto, come era immaginabile, venne bocciato all’istante dagli scozzesi. Il duca armò subito l’esercito e dichiarò l’ennesima guerra alla Scozia: niente di più efficace di un’altra bella disfatta per indurre l’avversario a cedere. Facendo parte di quegli uomini convinti che ogni impresa non possa andare a buon fine se non è condotta personalmente, si mise egli stesso a capo delle truppe. Duca, soldati, cavalli, artiglieria puntarono a nord, marciando decisi verso Edimburgo.
Bessie Dunlop, dal canto suo, continuava nelle Highlands ad apprendere dalla nonna le virtù delle piante medicinali e le formule di guarigione. E amava il valoroso Thomas Reid, ormai pronto a sconfiggere gli inglesi.
Prima di partire per la guerra, Thomas le regalò un fiore. Fu quella l’ultima volta che Bessie lo vide in carne e ossa – come ebbe a dichiarare tanti anni dopo ai suoi giudici – in quella sera in cui la gente del villaggio, già perseguitata dalla fame e dalle sciagure e meno fiduciosa di Thomas Reid, si preparava ad accendere i fuochi della miseria per stornare dalle proprie vite le conseguenze di una ennesima disfatta scozzese.
Fin dai tempi antichissimi, i fuochi della miseria venivano accesi nelle Highlands sulle colline abitate dalle fate, per preservarsi dalle calamità; e quelle al seguito degli eserciti inglesi erano calamità da tutti ben conosciute.
Il rito dei fuochi della miseria – unitamente alla credenza nel potere delle fate – si era rivelato inestirpabile vanificando, almeno in questo senso, l’opera di cristianizzazione che aveva tentato di vietare le usanze ritenute pagane. Non potevano che essere sacrileghi, agli occhi dei cristiani, i fuochi accesi dagli Highlanders per ottenere protezione e soccorso dalle divinità della vegetazione, da quelle che presiedevano alla salute e alla fecondità del bestiame, dalle fate gran reggitrici del Destino di ognuno. Nel V capitolo delle Deliberazioni stilate dalla Chiesa di Roma nel primo Concilio Nazionale Tedesco tenuto nel 742 si legge: «Viene ordinato al popolo cristiano di non continuare a osservare usanze pagane. Non eserciti arti magiche e divinatorie. Non accenda fuochi sacrificali in vicinanza delle chiese provocando così la collera divina. E non si accendano i sacrileghi fuochi da queste genti chiamati nordfyr».
Da parte loro gli scozzesi se ne infischiavano se le chiese erano state imprudentemente erette in prossimità delle colline da sempre dimora delle loro fate. Non parevano neppure seriamente preoccupati che il Signore Iddio andasse su tutte le furie distruggendoli con la propria ira. Bastava e avanzava quella degli inglesi.
Nessun abitante delle Highlands dubitava dell’efficacia di quei riti che, pur senza aver annullato fame, miseria e guerre, avevano contribuito a tenerli in vita. Se il raccolto veniva devastato da truppe di invasori o da qualche implacabile insetto, se gli inglesi continuavano a mettere a ferro e fuoco città e campagne, se epidemie o, peggio ancora, morie di bestiame si propagavano di villaggio in villaggio, i fuochi della miseria che fiammeggiavano sulle colline delle fate valevano come rimedio assoluto. Si pregassero pure la Vergine e tutti i Santi, ma non si tralasciassero le usanze dei padri e dei padri dei padri, e così via fino alle generazioni più antiche che la Natura e i suoi incantesimi avevano preservato dall’estinzione, in tempi in cui del Dio dei cristiani nessuno aveva ancora sentito parlare.
Anche Bessie Dunlop continuava a partecipare al rito dei fuochi della miseria e ora più che mai, dopo la partenza per la guerra di Thomas. La rosa che lui le aveva donato era ben protetta fra le pagine del cristianissimo libro di preghiere; insieme a essa l’antico rito magico avrebbe contribuito a far sì che Thomas non fosse bersaglio dei proiettili inglesi.
A meno che le tre fate, chinate sulla sua culla, non avessero fin dall’inizio deciso diversamente la data della sua morte. La ragione per cui, poco dopo la nascita, Thomas fosse stato rapito dalle fatate dame – come tutti sapevano – rimaneva oscura nella mente di Bessie. Certo, Thomas possedeva la seconda vista, era scampato a risse e a battaglie, era campione di golf, era anche bello. Ma chi viene rapito dalle fate non potrebbe possedere anche il dono dell’ubiquità, come tanti eroi dei regni fatati? Non poteva essere a Pinkie e nello stesso tempo vicino a lei? Questo si chiedeva Bessie, mentre si affrettava a spegnere con cura il fuoco nel focolare e le candele sul tavolo. Infatti, perché andasse a buon fine l’incantesimo dei fuochi della miseria, prima dell’inizio del rito era obbligo spegnere tutte le fiamme del villaggio, dal focolare alle lucerne fino all’ultima candela, comprese quelle che ardevano in chiesa.
Se un solo lume avesse forato l’oscurità della notte, l’efficacia del rito sarebbe stata vanificata.
In quella notte di settembre del 1547 Bessie raggiunse la gente dei villaggi che si era radunata intorno alle colline delle fate, dove già gli uomini stavano piantando due pali nel terreno. Nel buio si udivano solo il fruscio dei passi, il richiamo di qualche civetta, lo stormire della foresta. I gesti degli uomini erano sicuri, perché gli occhi si stavano abituando all’oscurità e perché quegli stessi gesti si ripetevano da una vita e da generazioni. Collegarono i due pali a un terzo in forma di cilindro, la cui estremità venne infilata nel foro praticato in un ceppo, foderato di stoppa. Il cilindro, spalmato di bitume per essere più infiammabile, era in legno di quercia, poiché lo spirito della quercia è uno dei più potenti e assicura la sacralità del fuoco che ne scaturisce. Intorno al cilindro venne poi arrotolata una corda.
A questo punto si scatenò una violenta discussione: per accendere il fuoco non era forse più conveniente usare un vecchio arcolaio, come facevano ad Aberdeen, per meglio rappresentare le attività delle fate, grandi tessitrici di tessuti e di destini? Venne deciso alla fine di rinunciare all’arcolaio: non per questo le fate avrebbero rifiutato di proteggere i soldati scozzesi.
A turno, gli uomini – il rito esigeva che due di essi fossero fratelli – tirarono poi con forza avanti e indietro le estremità della corda arrotolata intorno al cilindro, fino a quando la fiamma non scaturì dalla frizione del legno sulla stoffa che foderava il foro.
Subito qualche donna scelta fra le sapienti del villaggio – la nonna di Bessie – si affrettò a cogliere le scintille infiammando la stoppa avvolta intorno a rametti di quercia e con questa appiccò le fiamme a un mucchio di paglia. Mentre le fiamme si stavano alzando alte nel buio sventagliando fra gli alberi bagliori sanguigni, sul fuoco venne buttata la legna.
Ecco il fuoco della miseria divampare alto, mentre la gente del villaggio si affrettava a raccogliere tizzoni ardenti. Di corsa ognuno se li portò in casa per accendere con essi il focolare. Poi si tornava al fuoco della miseria a inalare tutti insieme il fumo vivificante di quelle fiamme beneaugurali.
All’alba, quando il fuoco non più alimentato si era ormai spento, uomini, donne e bambini raccolsero le ceneri e andarono a spargerle nei campi, perché fossero fertili, e sulla soglia di casa, per tener lontane le sciagure. Ceneri magiche, quelle, pregne di poteri salutari per i corpi e per le anime. Sul focolare acceso con il fuoco della miseria si disponeva poi una pentola colma di acqua. Bastava berne qualche sorso per difendersi da malattie e da malefici.
Anche Bessie raccolse un tizzone dal fuoco della miseria, accese il focolare di casa e con l’acqua della pentola messa sul focolare spruzzò la rosa ricevuta da Thomas perché l’incantesimo della protezione lo raggiungesse a Pinkie. Tornò a inalare i fumi del fuoco, sparse le ceneri sulla soglia della porta di casa, e nel campo. In definitiva, seguì il rito con attenzione e minuzia.
Qualcuno quella notte, nelle contrade circostanti o nel villaggio, doveva però aver dimenticato una fiamma accesa, o non aver spento fino all’ultima favilla il fuoco di casa: la battaglia di Pinkie fu infatti una catastrofe. Vinsero gli inglesi del duca di Somerset.
Quasi tutti i soldati scozzesi vennero uccisi. Fra questi, Thomas Reid.
In un lampo la Scozia venne attraversata dalla notizia della disfatta di Pinkie. Si diceva che le acque del fiume Esk continuassero per giorni a scorrere rosse del sangue dei soldati uccisi.
La speranza è l’ultima a morire, anche in tempi di orrore, e non poche donne continuavano a tener d’occhio la strada di casa sicure di vedere tornare fratelli, figli, mariti e amanti, pronti a raccontare quale rito magico fosse valso a salvarli dalla carneficina, visto che per quanto riguarda la vittoria scozzese il fuoco della miseria aveva fallito. Fra queste donne c’era Bessie.
Tentava di leggere negli astri la data del ritorno di Thomas, poiché la nonna le stava insegnando il linguaggio e l’armonia delle stelle, e gli influssi della loro natura spirituale sulla vegetazione, sui ritmi stagionali, sugli esseri umani e sulle grandi feste annuali.
Quattro stelle decidevano le quattro grandi feste della Natura iscritte nell’anno celtico, il quale, sottolineava la nonna, non era regolato dal susseguirsi degli equinozi e dei solstizi, come accade per le altre genti.
Le quattro stelle si levavano nel pallido cielo dell’alba, prima che sorgesse il sole. Quando sull’orizzonte si levava Capella, la stella color oro situata nell’Auriga, ci si preparava a celebrare la festa di Imbolc, coincidente nel calendario gregoriano con il primo giorno di febbraio. Capella annunciava l’uscita dal letargo dei serpenti e del riccio – esseri magici e dedicati alla Grande Dea – e il primo brivido di un nuovo primaverile risveglio della Natura.
Il fulgore della rosseggiante Aldebaran, la più splendente stella della costellazione del Toro, in cui era situata la posizione del Sole all’equinozio di primavera, ammoniva che bisognava affrettare i preparativi per la grande festa di Beltane. Era questa la festa dell’antica divinità della Natura, il cui tempio non si concludeva in una chiesa, come usavano fare i cristiani per il loro Dio. La foresta, la radura, la collina, il cielo e, in breve, l’universo intero nel suo armonioso e perenne ruotare, erano tempio della Grande Dea.
Beltane era la festa dei fuochi il cui fulgore preannunziava il Sole estivo, e delle gemme ormai prossime alla fioritura. Festa celebrata in tutte le Highlands con grandi cerimonie, festa del primo giorno di maggio in cui, secondo gli antichi culti, di notte le colline delle fate venivano illuminate dai fuochi sacri, accesi da chi non fosse colpevole di omicidio, furto, menzogna, tradimento o altri delitti. Festa da cui la malvagità era bandita.
Le fate non tollerano la vicinanza di un animo malvagio e se così fosse stato, la loro ira – più temuta di quella del Dio cristiano – sarebbe stata nefasta. Intorno ai fuochi, disposti su ogni collina lungo il magico simbolo del cerchio, si mangiava, si cantava, si attraversavano le fiamme in un sol balzo, si danzava tutti insieme in tondo e in senso antiorario come avevano insegnato le fate. Ci si divideva l’immensa e rotonda focaccia di Beltane, ricoperta da una croccante pastella di uova sbattute con panna, spruzzata di farina e segnata in un punto da una impronta nera. Era quella la fetta che la sorte metteva nelle mani del consacrato alla divinità e destinato – in tempi remoti – a venir gettato in sacrificio nelle fiamme, al termine della cerimonia. Le ceneri dei fuochi di Beltane erano sacre e contrastavano sciagure e morie di bestiame, sterilità di donne e di mucche, malattie e malefici. Infelicità del corpo e dell’anima.
Passati tre mesi, ad Aldebaran si sostituiva Sirio, stella che si levava eliacamente nel cielo dell’alba al pieno dell’estate, nel Cane Maggiore. Come stella più luminosa del firmamento – in celtico lugh significa “brillante” – dava inizio ai preparativi per la festa di Lughnasa, il primo di agosto, preannunziando il raccolto e il culmine del sole estivo. In quei giorni nel cielo notturno si disegnava il triangolo formato dalle stelle più brillanti della Lira, del Cigno, dell’Aquila. Triangolo magico, questo, nei riti dedicati alla terra fertile e alla Grande Dea.
Infine, quando lo Scorpione trascorre nel firmamento, Antares, la rossa stella più luminosa di questa costellazione, preannunziava per i celti l’inizio di un nuovo anno, ed era la festa che i cristiani chiamano Ognissanti, e gli antichi popoli Trinox Samoni.
È questa, il primo giorno di novembre, la festa più importante dell’anno celtico, ancora più significativa di Beltane. Beltane apre le braccia al crescente vigore del Sole e alla vegetazione fiorente; Trinox Samoni annuncia la morte del dio maschile spirito della vegetazione. È questo il momento in cui la Grande Dea della Natura, reggitrice di vita e di morte, conclude il periodo delle messi per proseguire il controllo del ciclo vitale iniziando nel suo grembo i misteriosi preparativi della morte, della rigenerazione e del rinnovamento. Entrano in letargo serpente e riccio. Gli alberi lasciano cadere le foglie nell’umido ventre della terra.
L’aria si vela di nebbie mentre i fuochi di Trinox Samoni si rincorrono gioiosi sulle colline delle fate per annunciare il nuovo anno. Festa di spiriti dei defunti e di fate. Le aeree creature prediligevano le tre notti di Trinox Samoni per mescolarsi agli umani e per compiere sortilegi che i preti della cristianità, sostituendo alla festa il terrore, avrebbero indicato come opera di demoniache streghe, svolazzanti su una scopa donata loro dal Diavolo.
Festa di uomini mascherati da cervo per celebrare il dio della vegetazione, che è cervo o ariete, nato all’inizio della primavera, vigoroso in estate, e che muore alle soglie dell’inverno nelle notti di Trinox Samoni.
Maschere di cervi percorrevano tutto intorno le colline, da un falò all’altro, a testimonianza che nascita, crescita e morte appartengono a tutti i viventi: un’unica ciclicità di vita, morte e rigenerazione accomuna esseri umani, animali, piante, acque, pietre.
Il dio della vegetazione nato, morto e in attesa di rigenerarsi, veniva raffigurato da uomini avvolti in pelli di cervo e mascherati con muso e corna, poiché l’epifania del dio è il sacro cervo. Sarebbe stato demonizzato dai cristiani con il nome di Satana.
Le feste stagionali sarebbero divenute il Sabba. Soprattutto sarebbe stata demonizzata Trinox Samoni, festa di danze, di gioia, di sesso, di maschere di cervo e di travestimenti, festa in cui gli uomini indossavano vesti femminili in onore della Grande Dea, perché il primo di novembre affioravano prepotenti gli antichi riti della Natura, divenuti clandestini con la cristianità.
Festa della morte della vegetazione, quindi festa dei morti; e qui la Chiesa avrebbe trovato la sua vittoria riuscendo a stravolgere in lacrimante commiato e in lutto l’antica e sensuale promiscuità fra viventi e spiriti dei defunti.
I morti, nelle tre notti di Trinox Samoni, levitavano dalle loro tombe pur di non perdersi l’occasione di poter riapparire agli occhi di chi avevano amato o odiato. Apprezzavano le offerte di cibo e di bevande che ognuno preparava per loro, nel canto della finestra. Prodigandosi in suggerimenti e consigli, sostavano curiosi e attenti accanto a chi, in quelle magiche notti, si dedicasse alla divinazione intorno alle fiamme dei sacri falò. Vaticini e presagi si traevano cospargendo in cerchio le ceneri dei fuochi, e disponendovi al centro una pietra. Nel cerchio di cenere ognuno buttava un sassolino. La sua posizione avrebbe rivelato vicende future.
Nella terza notte di Trinox Samoni – buon ultimo nella schiera degli spettri – tornò Thomas Reid, crivellato dalle pallottole inglesi presso il fiume Esk, a Pinkie. Bessie Dunlop comprese che era morto nello stesso istante in cui se lo vide apparire davanti, in cucina – come avrebbe raccontato ai giudici – rivestito dalla divisa lacera e sporca di sangue, rivolgendole quello sguardo che proveniva dall’aldilà.
Thomas Reid era morto, dunque, e da valoroso. Si seppe in seguito che la battaglia di Pinkie era stata un disastro soprattutto perché, dopo il primo scontro con gli inglesi, gran parte degli scozzesi eluse gli ordini del conte di Arran per buttarsi a depredare i cadaveri; tanto poveri erano gli scozzesi, da ritenere che questa sinistra rapina potesse in ogni modo farli tornare a casa con qualcosa in tasca. Impedirono in tal modo al loro comandante di radunare l’esercito per opporsi all’offensiva inglese, scongiurare la carneficina e forse strappare la vittoria.
Gli scozzesi vennero decimati; il duca di Somerset gongolava. Già immaginava, fra la piccola Maria Stuarda e il nipote Edoardo, future nozze che gli avrebbero offerto la Scozia su un piatto d’argento. Era ignaro che la vergogna di quel fatidico “Black Saturday” non avrebbe turbato più di tanto la risoluta reggente: da quella lezione Maria di Guisa non imparò certo a pagare di più i suoi soldati e a gravare di minori tasse la popolazione affamata. A Maria di Guisa premeva vanificare del tutto il progetto di Somerset e ci riuscì con un colpo di mano: appoggiata dagli alleati francesi nascostamente fece portare la piccola Maria in Francia, dove la fidanzò in un battibaleno con Francesco, Delfino del re. Il matrimonio con Edoardo VI d’Inghilterra era stato scongiurato. Somerset se ne tornò a Londra con le pive nel sacco: la spedizione in Scozia si era rivelata del tutto inutile.
Inutile, quindi, anche la morte di Thomas che ebbe la vita stroncata dalle scelte di coloro che fanno la storia, come del resto accade in ogni epoca ai più. Inclusa Bessie Dunlop, la cui esistenza di guaritrice e donna sapiente sarebbe trascorsa durante il tumultuoso governo della cattolica Maria Stuarda, tornata anni dopo in Scozia per salire sul trono da cui – secondo le indicazioni della Chiesa di Roma – avrebbe promulgato fra l’altro le leggi contro le streghe. Non poteva valere di consolazione, o far tornare Thomas nel mondo dei vivi, il destino del duca di Somerset, vittima di una congiura nel 1553 e finito con la testa sotto l’ascia del boia. Stessa sorte sarebbe toccata in seguito a Maria Stuarda.
Quando i giudici calvinisti nel 1576 durante l’interrogatorio – nel tribunale di Aberdeen in cui era usanza processare le streghe – chiesero a Bessie Dunlop se l’apparizione dello spettro di Thomas Reid l’avesse spaventata, Bessie rispose di no, e precisò che aveva solo provato una gran pena.
Non si stupì che i giudici le chiedessero se si fosse impaurita. L’apparizione di uno spettro può anche terrorizzare. Non lei. Alcuni, nel villaggio, le avevano confidato di rimanere terrificati dall’apparizione di uno spettro ansioso di comunicare con il mondo dei vivi. Molti invece – e nelle Highlands erano i più – sapevano che i defunti, almeno per un certo tempo dopo la loro morte, continuano a far parte della quotidianità: li si può percepire e vedere mentre vagano intorno alla casa o vi entrano per rimanere in un angolo a osservare i vivi mentre mangiano, parlano, litigano, lavorano, ridono, piangono, dormono, fanno l’amore.
Non solo chi sogna vede i defunti: ciò può davvero capitare a chiunque. Essi appaiono. Appaiono nella landa, di notte, sotto le stelle o quando si alza la luna. Appaiono di giorno, quando il sole è alto. E specialmente in quelle quattro epoche dell’anno legate ai riti stagionali, quando anche le fate più facilmente si mostrano abbandonando le loro dimore nelle colline. Del resto, fate e defunti dividono un territorio comune, fra cielo e terra. In esso i defunti possono trattenersi prima di migrare verso il regno di Dio. Paradiso o Inferno che sia.
Quando apparve Thomas Reid, Bessie provò pena per lui, dunque. Non solo per quella divisa che gli era stata fatale e per le sue ferite, ma perché era morto giovane, interrompendo il proprio naturale ciclo vitale che avrebbe dovuto portarlo fino a tarda età. Come tutti coloro che morivano di morte prematura, era destinato a vagare sulla terra fino a quando non avesse raggiunto, sia pur in veste di spettro, il numero di anni di vita che gli sarebbero spettati. Nell’attesa era quindi tornato nei luoghi dove aveva amato Bessie fra una battaglia e l’altra, fra una partita di golf e l’altra.
«Ero angosciata e mi sentivo sola, in quei giorni, prima che mi apparisse Thomas», raccontò Bessie Dunlop ai suoi arcigni inquisitori.
Sola lo era davvero, avendo perso la sua maestra, la nonna, quella donna sapiente che come tutte, da generazioni, insegnava alle giovani della propria famiglia i segreti della conoscenza, da sempre scrupolosamente tramandati da madre in figlia. Una sera, poco dopo il crepuscolo, Bessie aveva trovato la nonna impiccata al ramo di un ontano, poco fuori dal villaggio. Alle streghe era destinato il rogo, ma in genere in Inghilterra e in Scozia era il cappio a ucciderle.
Per tutta la vita la nonna di Bessie aveva saputo guarire i malati, confortare corpi e anime, risanare il bestiame, assistere il parto di donne e animali, e salvare bambini, che in quell’epoca la fame e le epidemie riuscivano a portarsi via come niente. Vedeva le fate e da loro aveva appreso gran parte della propria sapienza. Decifrava il futuro nelle ceneri e nei fili di paglia, prevedeva piogge e grandine. Bastava e avanzava per impiccarla come strega ora che, anche nelle Highlands, dal pulpito delle chiese i preti dichiaravano che le donne sapienti erano in realtà creature di Satana e come tali andavano denunciate quali streghe. Avrebbero dovuto essere processate in tribunale, con tanto di giudici, notaio e testimoni. Ma c’era chi se ne infischiava delle procedure burocratiche e accadeva che fanatici cattolici o fanatici calvinisti acciuffassero una donna in fama di magia per bruciarla o impiccarla all’albero più vicino. E pazienza se si trattava di un ontano, albero germinante incantesimi, albero sacro il cui legno dopo il taglio si tinge di rosso e stilla sangue. Albero della resurrezione.
Si ignora per quale ragione dopo la sua morte la nonna non fosse apparsa a Bessie. Al suo posto tornò Thomas. Fu lui a riprendere quelle lezioni di sapienza che la morte aveva interrotte. Tornò – credeva Bessie – proprio per questo. L’angoscia che provava, il senso di solitudine – parole sue riportate negli atti del processo – scomparvero nel momento in cui Thomas le apparve. Si sentì di nuovo serena.
Si ignora anche per quale ragione Thomas, divenuto spettro, per prima cosa tentasse di forzare Bessie, ormai calvinista, a tornare al cattolicesimo. Forse nel suo cuore defunto ardeva ancora l’odio per i calvinisti e per l’Inghilterra – nemica da sempre e protestante – quell’odio tumultuoso da appassionato Highlander, quale Thomas fu, che lo aveva accompagnato per tutta la vita e che ne aveva determinato le decisioni. Fu comunque questa – disse Bessie ai giudici – la prima cosa che Thomas le chiese e che lei rifiutò, pur temendo che sottrarsi alla richiesta di un essere quale era Thomas, spettro e uomo delle fate, avrebbe potuto procurarle non pochi guai.
Nulla di male le accadde. Thomas le chiese in un secondo tempo se lei, Bessie, fosse sicura di trovarsi davanti al suo spettro e non davanti alla sua anima. Bessie sapeva – non per niente era figlia delle Highlands – che l’anima può allontanarsi dal corpo anche quando il corpo rimane ben vivo.
La nonna le aveva confidato che mediante unguenti fatati e formule magiche è possibile permettere all’anima di abbandonare il corpo e di vagare libera, mentre il corpo rimane inerte e avvolto in una quiete simile al sonno; o vigile e attivo e ben desto.
Se l’anima viene catturata, ferita, dilaniata, distrutta, uccisa, allora anche il corpo muore. Vista come metafora, questa credenza è a dir poco pregnante: se l’anima si corrompe, anche il corpo decade. Non si garantisce l’inverso.
È il sogno degli eroi – raccontava la nonna che conosceva ogni credenza delle Highlands – riuscire con un incantesimo ad allontanare l’anima dal corpo e a nasconderla in un rifugio dove nessuno possa farle del male. Solo così è possibile assicurarsi l’invulnerabilità e con essa l’immortalità.
Accade inevitabilmente che, per una qualche funesta ragione, chi ti odia riesca a scovare il nascondiglio della tua anima per ucciderla e farti così morire anche nel corpo. La passione dell’odio riesce in qualsiasi impresa, a differenza di quella dell’amore.
Era nota la vicenda di quella antica regina del più potente clan delle Highlands, che venne rapita e tenuta prigioniera da un gigante invulnerabile. Con mille angherie il gigante opprimeva la popolazione, ma vacillava davanti al fascino della regina, al punto da confidarle una notte di aver allontanato da sé e nascosto la propria anima; per questo se ne faceva un baffo delle frecce, delle lance e delle spade con cui i prodi Highlanders più volte avevano tentato di ucciderlo.
Era invulnerabile, lui. In quanto gigante pastore e cacciatore, aveva nascosto l’anima «nella pancia di un montone su cui ho deposto un’immensa lastra. Nella pancia del montone ho nascosto un’anatra, e nell’anatra un uovo, e nell’uovo la mia anima». La regina riuscì a sgattaiolare sotto la lastra di pietra, aprire la pancia del montone, acciuffare l’anatra prima che volasse via, sgozzarla per impadronirsi dell’uovo che schiacciò con un sasso. Il gigante morì di colpo e la regina fu libera di tornare al suo clan.
Thomas invece, disse Bessie ai suoi inquisitori, non era riuscito a nascondere la sua anima; forse non aveva voluto farlo, o forse le fate non gli avevano insegnato gli incantesimi necessari. Era morto anima e corpo. Le apparve dunque come spettro.
Gli inquisitori le chiesero come poteva distinguere un’anima vagante dallo spettro di un defunto. Bessie diede loro la stessa risposta che aveva dato a Thomas: le era bastato incrociare lo sguardo di Thomas per sapere il giorno della sua morte, corpo e anima.
Thomas, fin dalla sua prima apparizione, assicurò a Bessie che le sarebbe apparso altre volte per concludere ciò che la nonna non aveva fatto in tempo a insegnarle; vale a dire tutta la conoscenza necessaria a una grande guaritrice. Brava levatrice Bessie lo era già, famosa nei luoghi in cui era andata a vivere dopo la morte della nonna.
Thomas la ammonì che non bastava far nascere i bambini, bisognava anche aiutarli a vivere.
Bessie gli chiese di aprirle lo sguardo al regno delle fate, iniziandola alla chiaroveggenza, alla seconda vista, quella virtù diffusa fra la popolazione non solo delle Highlands, ma della Scozia, dell’Irlanda e dell’Inghilterra, e di cui poco per volta si stava perdendo il potere.
Thomas Reid qualche tempo dopo riapparve nella cucina di Bessie, come di consueto. Questa volta non era solo. Accanto a lui Bessie vide le dame vestite di bianco. Le fate.