4

DAL CAOS DELLE FATE AL CAOS DEI SANTI

Forse non fu un caso che in quel 1576 a Aberdeen, Bessie Dunlop se ne andasse a morire nel mese di novembre. Battezzata, prima cattolica poi calvinista, donna che aveva accolto la religione cristiana tanto da riflettere su di essa e all’interno di essa compiere scelte spirituali, Bessie Dunlop muore nel mese in cui nelle campagne e sui monti veniva celebrata fin dai tempi antichissimi la morte della vegetazione. Bessie Dunlop muore nel mese in cui le piante si spogliano delle loro foglie, in cui le messi raccolte lasciano i campi brulli, in cui il freddo raggela boschi e praterie e la neve protegge il letargo.

La Chiesa aveva trasformato le antiche feste di Trinox Samoni nel Giorno dei Defunti e in Ognissanti. Bessie sapeva che nei riti che lei stessa ancora onorava, accanto a quelli della Chiesa, nel mese di novembre – mese di morte – iniziava nel grembo della terra la rigenerazione. Le spirituali forze della trasformazione preparano nei mesi invernali il rifiorire dei germogli primaverili. Bessie stessa, in quanto creatura della Terra, si sentiva parte del potente e inesauribile ciclo vita-morte-vita, il ciclo unitario del cosmo in cui il percorso del tempo non è lineare, come insegna la religione cristiana, che alla morte fa seguire un aldilà senza ritorno. Il tempo della Natura ruota con il ruotare degli astri, delle stagioni, della Luna che appare nel cielo, cresce fino alla pienezza per poi svanire nel buio, pronta a ripresentarsi rinnovata nell’esile falce, che di nuovo si colma fino al suo massimo splendore e di nuovo svanisce. E così via, in un infinito nascere e rinascere, in una continuità che lega ogni essere all’altro, dove realtà sensibile e realtà soprasensibile si confondono.

Il tempo di Bessie era tempo circolare: vita, morte, rinascita ruotano nel grembo della Grande Dea che non usa la morte per punirti. Essa non usa la morte per assegnarti qualche ricompensa o infliggerti la dannazione, con la morte la Grande Madre ti accoglie nel ciclo della rigenerazione. Era questa la segreta religione di Bessie, questa la sua sapienza.

I signori inquisitori non potevano certo immaginare che la condanna non sarebbe riuscita a marchiare nella coscienza di Bessie la parola “fine”. Non potevano immaginare che le loro leggi non sarebbero riuscite a cancellare la spirituale percezione del ciclico movimento della Natura, cerchio, spirale, vortice, simboleggiato nelle spire del serpente, animale sacro alla Grande Dea della Natura.

La seconda vista permetteva a Bessie di vedere gli esseri elementari – quelli che lei chiamava fate – manifestazioni della potenza spirituale che dà forma a ogni essere, terra, piante, animali, cristalli, pietre, firmamento. Ancora un secolo dopo la morte di Bessie, Robert Kirk descriveva il mondo delle fate, ma sottovoce, cauto quanto bastava per non finire incriminato per stregoneria. La Chiesa continuava a condurre la sua asprissima persecuzione contro il regno delle antiche credenze mandando al rogo donne che onoravano entrambe le religioni: quella antica, precristiana, tramandata di madre in figlia da secoli, e quella di Cristo, della Vergine Maria e dei santi. Processate con l’accusa di onorare Satana, durante le torture invocavano, sincere e disperate, i santi e la Vergine, o la misericordia del Signore.

Delle loro antiche credenze, del loro rapporto con la Natura e i suoi esseri elementari, sappiamo quello che il notaio presente agli interrogatori pensava bene di trascrivere negli atti dei processi. Di se stesse, queste donne non poterono scrivere nulla.

Eppure ci fu un uomo, nato negli anni della scoperta dell’America e vissuto nell’Europa rovente della Riforma, che verso il 1530 indagò le credenze e i saperi delle donne, li assimilò inserendoli nel rapporto che egli stesso aveva con la Natura. Quest’uomo colse il potente senso spirituale degli esseri elementari e descrisse la loro natura nel suo Trattato delle ninfe silfi pigmei salamandre e altri esseri.

Si chiamava Filippo Bombasto ed era nato in Svizzera intorno al 1492, nel cantone di Schwitz. Venne soprannominato “Aureolus” da suo padre, “Eremita” da Erasmo da Rotterdam, ispirato dal luogo di nascita di Filippo Bombasto, lo sperduto villaggio svizzero Nostra Signora degli Eremiti. “Teofrasto Paracelso” è il soprannome che Filippo Bombasto diede a se stesso.

Quest’uomo dai tre soprannomi crebbe amatissimo dal padre che vedeva in lui un grande destino e ne aveva intuito la fama.

Bizzarro e straordinario personaggio, il padre di Paracelso conferma la teoria di alcuni secondo cui la linfa capace di far evolvere le capacità innate in una persona risiede per prima cosa nell’amore e nell’intuizione dei genitori. Se questa linfa manca, le cosiddette potenze dell’ostacolo riusciranno più facilmente a spegnere le doti naturali e sarà necessario lottare faticosamente per sviluppare e affermare il proprio pensiero o la propria arte. Ammesso di riuscirvi. Il medico Wilhelm von Hohenheim amava dunque quel suo figlio. Aggiunse al suo sapere di medico e di alchimista il suo amore di padre, lo chiamò, come detto, Aureolus, per testimoniare lo splendore spirituale che percepiva in lui, e fin da piccolo con pazienza e passione lo istruì nell’arte medica, nell’alchimia, nella magia.

Ben sapeva Wilhelm von Hohenheim che in breve tempo Aureolus avrebbe saputo percorrere da solo i sentieri che portavano alle dimore delle donne sapienti, nelle foreste, sulle montagne, nei boschi. Accanto a esse Aureolus sarebbe diventato Paracelso. Così avvenne.

Per lunghi anni Paracelso vagò per l’Europa. Apprendeva dalle guaritrici, dalle donne sapienti che vivevano nei boschi e nei villaggi sperduti, dalle maghe di città, dai barbieri/chirurghi delle città, dagli stregoni che vivevano isolati nelle campagne. Apprendeva, inoltre, da Tritemio, soprannome dell’abate benedettino e famoso occultista Johannes von Heidenberg, vissuto negli ultimi decenni del Quattrocento fra Treviri e Wuerzburg, negromante tanto potente da evocare nel 1482 davanti all’imperatore Massimiliano la moglie defunta Margherita di Borgogna; Tritemio morì nel 1516 a Wuerzburg, dopo aver assistito, impotente, al crescendo della persecuzione delle streghe, che in quelle regioni sarebbe stata particolarmente feroce. Da Johannes, Paracelso imparò ad approfondire i suoi saperi sulle scienze naturali e sulla magia.

Girovagava fra campagne e città, troppo spesso ammorbate dal fumo acre dei roghi su cui stavano bruciando le streghe, spettacolo tanto consueto da divenire parte del paesaggio.

Curava, guariva, leggeva la mano, prediceva il futuro, interrogava i defunti, scriveva oroscopi, assisteva le donne nel parto. Giunse fino nella lontana Boemia, studiò i minerali e i metalli lavorando nelle miniere. Fu medico militare assunto da questo o quell’esercito: guerre e corpi dilaniati dalle armi non ne mancavano neppure in quell’epoca.

Usava con disinvoltura il mercurio e l’oppio, sostanze entrambe universalmente temute dai medici, incapaci di dosarle. Con mercurio e oppio Paracelso sapeva invece guarire. Scuotendo le raganelle imposte dalla legge, a lui ricorrevano i lebbrosi, di cui Paracelso non temeva il tocco per altri fatale. Guariva il mal d’amore, e non stiamo parlando della passione – che quella non la guarisce nessuno se non forse il tempo – ma delle malattie veneree, importate dai viaggiatori in terre lontane. Morbo terribile la sifilide, che stava corrodendo il corpo e la mente delle corti rinascimentali.

Guariva la scabbia, l’idropisia e sapeva lenire la sofferenza fisica. Quella del cuore – ancora una volta – la rimettiamo a Dio.

Divenuto ormai famoso, veniva chiamato al capezzale di principi, re, vescovi, uomini di lettere e di scienza. Guarì da mali oscuri Erasmo da Rotterdam. Il grande umanista si affrettò a spedire Paracelso dall’amico Johannes Husschin – soprannominato Ecolampadio – pastore di Basilea, tanto malato da avere un piede nella fossa. Paracelso evitò a Ecolampadio di imboccare prematuramente la via dell’aldilà, Paradiso o Inferno che fosse, permettendogli di continuare a vivere, di collaborare con Erasmo alla traduzione del Nuovo Testamento dal greco al latino, e successivamente di aderire alla Riforma dando una vigorosa mano a Calvino nella condanna alla tortura e al rogo del medico, umanista e teologo Michele Serveto – che per primo osservò la circolazione sanguigna – colpevole di negare la Trinità. Ecolampadio consentì, fra l’altro, al re inglese Enrico VIII di sciogliere il suo matrimonio con Caterina d’Aragona.

Per aver restituito la salute al pastore di Basilea, uomo di così denso futuro, Paracelso, con l’appoggio di Erasmo, ottenne nel 1527 la cattedra di medicina e filosofia all’università della città.

La prima lezione venne inaugurata con il rogo di tutti i libri trovati da Paracelso nella biblioteca dell’università di Basilea. Alimentava le fiamme gettandovi un libro dopo l’altro, e intanto gridava agli studenti: «I peli della mia nuca e le stringhe delle mie scarpe sono più istruite di medicina e di filosofia di tutti i vostri Galeno e Avicenna [...] la mia barba ne sa di più di tutto quello che insegnano nelle università». I cittadini di Basilea, parsimoniosi quanto basta, sobbalzarono quando seppero che la biblioteca della loro università era finita in cenere, loro che non avrebbero fatto una piega davanti ai roghi delle streghe voluti da Calvino. Compresero inoltre che lo spettacolare evento rappresentava il manifesto di una nuova medicina, che scalzava i fondamenti della medicina scolastica.

Ancor più storsero la bocca, i bravi cittadini di Basilea – colpiti questa volta nel proprio codice comportamentale – quando videro le strade della città percorse dagli studenti che Paracelso trascinava fuori dalle aule, puntando diritto verso i boschi e le montagne, dove insegnare nella “grande farmacia” della Natura i segreti della guarigione appresi dalle donne sapienti.

La granitica gerarchia della città di Basilea si sentì infine minacciata oltre ogni limite quando Paracelso osò puntare ancora più in alto, facendo causa a un nobile canonico, il molto esimio dottor Lichtenfessius. Paracelso aveva guarito Lichtenfessius da un annoso disturbo allo stomaco, ricorrendo al laudano.

Il canonico, una volta risanato, rifiutò di separarsi per sempre dai 100 luigi d’oro concordati come onorario per quella strepitosa guarigione. Paracelso, non da pochi odiato per la sua turbolenta indole, perse la causa. Dovette lasciare la città precipitosamente, per non finire come il monaco Berthold Schwartz, inventore fra l’altro della polvere da sparo, che a Venezia poco più di un secolo prima venne condannato a morte e giustiziato per aver preteso dai Dogi, con insistenza, il pagamento delle artiglierie da lui costruite che la Serenissima Repubblica aveva impiegato nell’assedio di Chioggia.

Paracelso riprese a vagabondare per l’Europa, come medico nomade, e a risanare. Nel 1544, venne chiamato a Salisburgo: il vescovo invocava le sue cure.

In questa città, il 24 settembre di quello stesso anno, nei giorni dell’equinozio d’autunno, Paracelso morì nell’ospedale di Saint-Etienne.

All’ospedale lasciò i suoi averi, vale a dire quattro libri: la Bibbia, i Commentari della Bibbia, il Nuovo Testamento, i Commentari di san Girolamo sui Vangeli. Non possedeva altro.

Al mondo, Paracelso lasciò la sua scienza medica innovativa che aveva come fondamento la concezione unitaria della Natura: le forze spirituali del cosmo sono un tutt’uno con ogni organismo vivente e agiscono sull’essere umano, che quindi partecipa al ciclo vitale e spirituale del cosmo.

La medicina ufficiale si avviava a riconoscere solo nella chimica e nel corpo l’origine delle malattie. Paracelso prestava attenzione alla realtà spirituale che sta dietro a quella fisica e le dà vita e forme. Sentiva i nessi fra uomo, cosmo, processi della natura. Percepiva l’azione degli spiriti di natura nelle piante e nei metalli. Da ciò traeva la sua concezione medica e l’elaborazione alchemica originale dei suoi rimedi.

Unico fra i medici del suo tempo a dichiarare di aver appreso la propria scienza dalle “streghe”, in realtà condivideva con esse, ingiustamente definite tali, una forma di veggenza nei confronti della salute e della natura, che in lui non proveniva come un residuo dal passato, ma andava verso il futuro per nutrire una corrente medica più segreta e spirituale.

Paracelso apriva la strada alla dottrina dei farmaci specifici e alla chemiatria, all’approfondimento della patologia generale e dell’osservazione clinica.

Aria, acqua, fuoco, terra sono i quattro elementi fondamento della sua scienza medica. Quest’uomo eccezionale per l’autonomia di pensiero vivificata da riverente e appassionata curiosità per la Natura, scrisse di medicina, di chimica, di teologia, di astrologia.

Opera pubblicata per lo più postuma e parte degli Scritti alchemici e magici, il Trattato delle ninfe silfi pigmei salamandre e altri esseri si apre con queste parole:

«È mia intenzione parlarvi ora di quattro specie di esseri di natura spirituale e cioè ninfe, pigmei, silfi e salamandre [...] la loro origine non è quella degli uomini e degli animali [...] tuttavia si accoppiano all’uomo e da queste unioni nascono esseri di razza umana [...] i filosofi non ci hanno mai parlato di questi esseri e si sono ben guardati dal fornirci qualche dato su di loro, poiché credono solo a quello che personalmente vedono. Ciononostante mi sia permesso parlare di questo argomento [...]».

Poi Paracelso prosegue, riferendosi fra le righe ai rigori ecclesiastici:

«[...]perché il Vecchio e il Nuovo Testamento descrivono molte meraviglie che Dio oppone alla ragione. E dato che nessuno mi vieta di ammettere l’esistenza degli spiriti e del Diavolo, mi si permetta di studiare la natura di questi esseri [...]. Chi leggerà questo trattato per la prima volta, si affretterà a rileggerlo. Chi guarda, vede».

Esistono due specie di natura, scrive Paracelso. La natura di Adamo, formata di terra, afferrabile, compatta e quindi incapace di varcare un muro se non vi apre un varco. Natura di uomo formato da carne e sangue che genera, parla, mangia, beve, evacua. Alla seconda natura appartengono gli spiriti, non afferrabili, non formati di terra, sottili e quindi tali da poter passare fluidamente attraverso qualsiasi ostacolo. Sono esseri questi non fatti di carne e ossa, non generano, non mangiano, non bevono, non evacuano, non parlano.

A queste due nature se ne aggiunge una terza che partecipa di entrambe. Esseri che appartengono alla natura umana perché hanno carne e ossa e fanno tutto ciò che fa l’uomo. Non possono essere definiti umani perché volano alla maniera degli spiriti. A differenza dell’uomo che possiede un’anima essi non la possiedono, a differenza degli spiriti che non muoiono, essi muoiono ma sono superiori all’uomo perché inafferrabili come spiriti.

Paracelso raccomanda di non stupirsi e di non dubitare della loro esistenza, che ci induce ad ammirare ancora di più la varietà e la meraviglia dell’opera di Dio.

Questi esseri della terza natura partoriscono esseri simili a se stessi, hanno mente ingegnosa, pensiero penetrante, possono essere tristi o ricolmi di gioia, saggi o folli come accade agli uomini, virtuosi o non virtuosi, hanno gesti, costumi e linguaggio simile a quello degli uomini, vivono sotto una legge comune, lavorano, si governano con saggezza e con giustizia, hanno moralità e onestà. Svolgono il ruolo che Dio ha assegnato loro. Non temono acqua e fuoco, poiché hanno quattro tipi di dimore: acquatiche, aeree, terrestri e ignee, secondo i quattro elementi acqua, aria, terra e fuoco. A questi si aggiunga lo spirito.

Quelli che abitano nell’acqua si chiamano ondine o ninfe. Nell’aria abitano le fate, gli elfi o silfi. Nella terra gli gnomi o pigmei. Nel fuoco, le salamandre.

«Non penso», scrive Paracelso, «che siano questi i nomi con cui questi esseri si nominano, ma poiché tali sono i nomi a loro attribuiti dall’uomo, ne farò uso.»

«La saggezza di Dio», sottolinea Paracelso, «non ha lasciato alcun elemento vuoto o sterile. Si sa che gli elementi sono quattro, aria, acqua, terra, fuoco, e noi che discendiamo da Adamo siamo stati posti da Dio nell’elemento dell’aria, viviamo in essa e senza di essa moriamo. Per i pesci l’onda sostituisce l’aria. Per l’uomo l’aria sostituisce l’onda.»

Ogni creatura creata da Dio si è quindi appropriata dell’elemento in cui Dio l’ha destinata a vivere: le ondine sono state concepite per vivere nell’acqua, e sono sorprese nel vederci vivere nell’aria come noi ci stupiamo di vederle vivere nell’acqua. Nella terra, dove Dio ha posto gli gnomi, essi attraversano le rocce e le pietre senza alcuna difficoltà, proprio come noi attraversiamo l’aria. La terra, spiega Paracelso, è il loro caos, formato da rocce e da pietre, così come l’aria è il caos degli umani. Più il caos è denso e spesso, più questi esseri sono sottili: l’uomo, che abita in un caos sottile come l’aria, non può essere che spesso e gli gnomi sono necessariamente sottili. I silvestri, vale a dire le ninfe – le fate – vivono come noi nell’aria e quindi sono più simili a noi fra tutti gli esseri che appartengono agli altri tre elementi.

«Tutto questo», esorta nuovamente Paracelso, «non vi stupisca [...] Dio prova di essere Dio creando cose che noi non possiamo comprendere [...] se le potessimo comprendere saremmo noi stessi Dio.»

Ogni caos ha sopra di sé un cielo e ha sotto di sé una terra. Il nostro caos è fra cielo e terra, ed entrambi ci nutrono. Così è anche per gli abitanti delle acque e per quelli dell’aria. Gli gnomi hanno sotto di sé la terra sotto cui scorre l’acqua, poiché la terra riposa sull’acqua.

Questi esseri vestono alla loro maniera. Si danno governi e capi, come le api eleggono una regina. Il loro sonno e la loro veglia sono simili ai nostri, poiché noi e loro abbiamo sopra il capo il medesimo firmamento. Attraverso la terra gli gnomi vedono il sole, e le ondine attraverso le acque, e le salamandre lo vedono fecondare e riscaldare il loro infuocato caos. Le stagioni e il giorno e la notte ruotano intorno a essi come intorno a noi.

«Sul monte Etna», prosegue Paracelso, «si sente il grido delle salamandre, e lungo i fiumi e le sorgenti si scorgono ninfe, nell’aria si muovono gli spiriti silvestri – più facili a vedersi – mentre gli gnomi si nascondono nelle caverne e nelle montagne.»

È Dio, afferma Paracelso, che per indurci a credere all’esistenza di queste meravigliose creature ci permette a volte di vederle, così come permette ad alcuni di noi di vedere gli angeli suoi servitori.

Dio permette che le ninfe e le silfi – altrimenti chiamati fate o elfi – si congiungano all’uomo e con esso generino figli. Dagli gnomi o pigmei l’uomo può ricevere denaro, perché sono costoro i custodi dei tesori nascosti nelle viscere della Terra. I figli delle creature delle acque e dell’aria che hanno rapporti carnali con l’uomo da esso ricevono l’anima. Per somiglianza, poiché il simile cerca il suo simile, ninfe e silfi facilmente possono congiungersi all’uomo, cosa che non accade agli gnomi e alle salamandre, splendenti, luminosi come piccoli fuochi, agili e leggeri, gran conoscitori del presente, del passato e del futuro, capaci di rivelare all’uomo tutto ciò che è nascosto. Scienza e intelligenza visitano la loro mente, e sanno esercitare il potere della ragione.

Il Diavolo – poiché il male esiste – a volte si insinua nei corpi delle ninfe e dei silfi. Così violentate esse partoriranno feti colpiti da lebbra, scabbia o tigne incurabili.

L’uomo che ha rapporti con una ninfa si guardi bene dal trattarla male vicino all’acqua: essa si affretta a sparire. Così lo gnomo, insultato accanto a una caverna, sa dileguarsi in un batter di ciglio.

È bene che l’uomo mantenga le promesse fatte a questi esseri spirituali. La loro indole pura non ammette tradimenti o menzogne, né che si cancelli la parola data. Se manteniamo le nostre promesse, essi manterranno le loro.

Gli gnomi che lavorano e estraggono l’oro sono disposti a donarcelo a un’unica condizione: che l’uomo non tenga la ricchezza per se stesso ma la faccia circolare. Mantenere l’impegno di non accumulare denaro ma di farlo circolare è cosa tanto difficile per l’avida indole umana, che ben raramente sarà possibile ricevere dagli gnomi questo dono.

Quanto all’unione di ninfe e fate con l’uomo, sarà bene che costui tenga presenta che l’unione è indissolubile, come lo dovrebbe essere l’unione con una donna. Se accade che l’uomo si stanchi e voglia abbandonare la sua sposa spirituale, gli esseri spirituali reagiscono diversamente dalle donne mortali. La sposa spirituale abbandonata scompare. L’uomo ne rimane privo e si crede libero e vive dimentico di lei. Ed ecco che un giorno, quando meno se lo aspetta – o avvertito di questo fatale ritorno da un crescente senso di smarrimento e disagio – la sposa spirituale ritorna e l’uomo perde se stesso.

Solo se entrambi, la creatura soprannaturale e l’uomo, decideranno di buon accordo di separarsi, allora la ninfa o fata si ritirerà nel suo regno senza creare alcun danno. Ma guai se l’uomo prende un’altra sposa senza il suo permesso. Dio ha creato altre creature simili alle ninfe e agli gnomi, e sono i giganti, come Ildebrando, e i nani, come Laurino. Possono essere buoni o terribili, sono di indole generosa, ostile se offesi nelle loro leggi e nelle loro norme morali.

Come le comete non generano altre comete, giganti e nani, nati da ninfe e gnomi, non possono generare.

Il Trattato delle ninfe silfi pigmei salamandre e altri esseri, prosegue con queste parole:

«Questi esseri, manifestazioni dello spirituale della Natura, sono stati messi da Dio a guardia delle sue creazioni. Così, i tesori della terra, i metalli e i cristalli, sono sorvegliati dagli gnomi, che impediscono ai loro tesori di vedere la luce prima del tempo fissato. Oro, argento, ferro, diamanti non dovranno essere trovati tutti nello stesso giorno, ma dovranno essere distribuiti lungo il tempo. Non dovranno essere trovati tutti da un solo uomo ma sono tesoro comune a tutta l’umanità: non esistono ricchi e poveri nella mente degli gnomi. Le salamandre sorvegliano allo stesso modo e secondo gli stessi principi i tesori generati dalle regioni sotterranee del fuoco. Le ondine sorvegliano i tesori delle acque e i silfi – fate o elfi – quelli sospesi nell’aria e portati dai venti. Ogni elemento della natura ha il suo spirito guardiano, che ne cura l’evoluzione. Lo scopo di questi esseri spirituali è anche aver cura dell’uomo, di informarlo quando gravi eventi stanno per accadere».

La mente umana non può comprendere la causa iniziale dell’Universo. La sostanza spirituale del cosmo genera in un ciclo continuo la vita, che nella materia assume la sua forma.

L’uomo, continua Paracelso, alla fine dei secoli riuscirà a comprendere l’utilità di ogni cosa insita nel mondo che lo circonda e di cui è parte. La sua mente sarà illuminata sulla finalità di ogni evento, sul profondo significato spirituale dell’esistenza. Ciascuno riceverà una ricompensa per i suoi sforzi nella ricerca della sua verità.

Non ci sarà medico o professore che tenga, o magistrato o uomo di potere, che imponga le sue leggi e neghi la verità altrui. Nessuno potrà più negare l’esistenza di ciò che non vede e non tocca con mano.

Verrà quel giorno: Dio permetterà che tutto sia conosciuto e nulla ignorato. Saranno felici coloro che hanno cercato di vedere oltre le apparenze.

Il Trattato delle ninfe silfi pigmei salamandre e altri esseri, che Paracelso aveva scritto scrutando il mondo e ascoltando donne sapienti, guaritrici, “streghe”, saggi, veggenti, maghi, scienziati, teologi, eremiti, si conclude con queste parole: «E si vedrà [...] se, descrivendo gli esseri spirituali della Natura, io ho mentito».

Con sguardo audace, ma non spavaldo, Paracelso continua a indagare il mondo dal sontuoso ritratto che di lui eseguì il pittore fiammingo Rubens. Nato trent’anni e più dopo la morte di Paracelso, Rubens fissò sulla tela le linee del volto di Paracelso basandosi sui bozzetti di un oscuro ritrattista ferrarese. Pose un libro in mano al grande medico. Alle sue spalle un paesaggio: uno scorcio della Natura, da entrambi tanto amata, in cui irrompe la luce.

«Si vedrà se ho mentito.» Parole, queste di Paracelso, che in quella prima metà del Cinquecento cadevano in un mondo in cui alla credenza negli esseri elementari, ai saperi, ai gesti, alle formule di guarigione, alla magia si contrapponevano e si sovrapponevano le devozioni e le credenze del mondo cristiano.

Alla verità, ai simboli, ai riti, alle antiche tradizioni che avevano come tempio la Natura, la cristianità, che aveva come tempio la Chiesa, oppose, in un crescendo durato secoli, i propri riti, i propri culti, le proprie verità.

Le donne sapienti erano figlie del regno della Natura, figlie di antiche credenze, tradizioni, superstizioni. Esse divennero figlie del mondo della cristianità, che con il suo irresistibile apparato raggiunse le donne fin nel più sperduto villaggio di montagna.

Antiche credenze e antichi saperi connotavano la cultura delle donne accusate di stregoneria, sia che vivessero nelle Highlands o nelle valli delle nostre Alpi. Là e qui, queste stesse donne frequentavano le chiese, battezzavano i propri figli, pregavano davanti al crocefisso, accendevano ceri davanti alle immagini della Madonna e dei Santi, spegnevano la propria sessualità e sensualità nelle norme della castità cristiana.

Fate, gnomi, esseri elementari, divinità degli alberi e delle piante, divinità delle sorgenti, potere delle pietre, vennero assediati da un vero e proprio esercito di preti, santi, beati, devoti, predicatori, eremiti, esorcisti. Il regno delle fate e della Natura e il regno della Chiesa confusero, nell’immaginario popolare, i propri territori.

Eppure nel regno delle fate e della Natura giorno e notte, caldo e freddo, vita e morte, bene e male erano parte di un ciclo unitario in trasformazione perenne e in movimento continuo, definendo relazioni e nessi. Nessun dio aveva impugnato una spada per separare, dividere, sconnettere. Nel regno della Natura non ci sono addii.

Il regno della Chiesa si ergeva, potente, per separare. Separò il Bene dal Male. Dio da Satana. La purezza dagli istinti naturali e sessuali. Il corpo dall’anima. Ciò che venne definito Bene, la purezza, la rettitudine morale cadevano sotto il potere della Chiesa. Il Male, gli istinti, l’offesa alle leggi divine e umane cadevano sotto il potere di Satana.

Se il regno della Natura apparteneva a una sfera personale e intima, profonda, libera, il regno della Chiesa configurava le norme e la struttura della vita di tutti i giorni, controllandola fin nel letto matrimoniale. Le donne sapienti, le guaritrici, le levatrici, tutto il mondo femminile che viveva nelle campagne, fra i boschi e sulle montagne, nei villaggi e nelle città, viveva ogni ora della sua giornata e della notte all’ombra del campanile delle chiese.

Nella frattura sotterranea, segreta, insanabile, che continuava a opporre il mondo delle antiche credenze a quello della cristianità, vennero accesi i roghi delle donne accusate di essere streghe.

Nel male punito dalla Chiesa e dalle leggi, si innestava la crudeltà che definiva la punizione. Fu questa, tanto ampiamente diffusa, a marchiare tutti i processi per stregoneria, essa che da sempre pervadeva la mentalità dell’uomo proseguendo anche nei territori della Chiesa il suo sanguinoso percorso nel Medioevo e nel Rinascimento. E oltre.

Per secoli, nelle città recintate da torri, nelle campagne dove il silenzio era interrotto solo dal suono delle campane e dove la notte non aveva altro lume che quello delle stelle, con ininterrotta frequenza si assisteva alle esecuzioni capitali. Si punivano briganti, contadini rivoltosi, malfattori di ogni genere, eretici, “streghe”. Chiunque trasgredisse la legge, fosse essa di Dio o dell’imperatore, veniva punito con una ferocia che mandava popolo e signori in visibilio. Al condannato veniva rifiutata la confessione prima dell’esecuzione, per accrescere le pene della sua anima rifiutata da Dio. Si puniva oltre la vita, oltre la morte. Così accadde a quel giovane brigante condannato all’impiccagione in una piazza di Parigi nel 1427. Il tesoriere del re scese a grandi passi dal suo podio, inseguì il condannato su per le scale del patibolo prendendolo a bastonate per impedirgli di pregare, bastonò anche il boia per impedirgli di esortare il condannato ad affidare la sua anima a Dio.

Una gran folla accorreva puntualmente ad assistere alle esecuzioni, la cui ferocia avrebbe dovuto valere da monito. A essa, imposta dai giudici laici o ecclesiastici, si accompagnava lo scherno che la folla rivolgeva a chi stava per essere giustiziato. Il cronista francese Pierre de Fenin, intorno all’anno 1470 descrive nella sua Cronaca l’esecuzione di una banda di mendicanti, colpevoli di aver trasformato la questua in rapina. Commenta l’evento narrando che la folla si torceva dalle risa assistendo alle torture e alla morte dei condannati: un gruppetto di straccioni straziati sul patibolo produceva spettacolo di irrefrenabile effetto comico.

La Chiesa nelle torture, negli strazi, nei roghi che riservava agli eretici e alle streghe, fu esempio di crudeltà, la quale – non finiremo di ripeterlo – non venne definita peccato dalla cristianità. La frase: «Non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso», non venne dalla Chiesa eletta a norma. La crudeltà non è uno dei sette peccati capitali.

Scherno e crudeltà andavano spesso sottobraccio: quattro ciechi, rinchiusi in un recinto e rivestiti da una corazza neanche fossero cavalieri di chissà quale ordine, che tentavano di acciuffare un maialino sentendoselo correre fra le gambe, costituivano uno spettacolo da non perdersi. I nani e le nane venduti a corte erano stati resi tali perché costretti, fin dalla nascita, in gabbie che torcevano e deformavano i loro corpi impossibilitati a crescere.

Le “streghe” denudate fino alla cintola, condotte al rogo a cavalcioni di un asino e con il viso rivolto verso la coda dell’animale, passavano fra la folla bersagliate da insulti, risate e da lanci di verdura guasta.

I processi alle streghe di Arras intorno alla metà del 1400 richiamavano moltitudini anche dalle campagne, facendo la fortuna di una infinità di bancarelle di bibite e frittelle e di prodotti della campagna. La stessa folla esultò quando i roghi vennero aboliti, e celebrò l’avvenimento con un festa a premi: il primo un giglio d’argento, capponi arrosto dal secondo premio in poi.

Il mondo in cui vivevano le donne accusate di stregoneria, quello che apparteneva alla Chiesa e in cui il Bene era stato tanto rigidamente diviso dal Male, si rivelava essere un mondo di sentimenti e di azioni estreme.

Si passava dall’odio alla risata. Dalla ferocia alla compassione. Dalla rinuncia totale ai beni del mondo, alla cupidigia sfrenata. Dalla devozione alla bestemmia. Dallo scapolare al talismano. Dalle reliquie agli amuleti.

Dall’orgoglio, peccato dell’epoca feudale – come viene definito dallo storico Johan Huizinga – si passava all’avarizia, peccato di un’epoca che sfociò nella Riforma e nella Controriforma, epoca che si sarebbe rivolta all’accumulo della ricchezza, alla valutazione contabile della dignità umana, al lusso insopportabile e vanitoso delle feste di corte. L’oro (quelle monete che si potevano palpare, di cui si poteva ascoltare il tintinnio nella propria borsa, e dal colore fascinante) aveva conquistato i mercanti e i re, i proprietari terrieri e le gerarchie ecclesiastiche. Nel 1441, il vescovo di Parigi, Dionigi di Moulins, per ben quattro mesi svuotò di defunti il cimitero degli Innocenti, avendo richiesto cifre da capogiro per sepolture e cerimonie funebri. I cittadini si videro obbligati a seppellire i propri morti altrove, per evitare di andare in rovina.

Il Rinascimento e la Riforma avrebbero insignito l’avarizia con il titolo di “utile fattore di prosperità”: la ricchezza divenne merito elargito dalle mani stesse di Dio. Di pari passo crebbe il disprezzo per il povero, per l’umile, per l’ignorante. Soprattutto per la donna, insignificante figura sociale. Figuriamoci per la “strega”.

Carestie, guerre, malgoverno, pestilenza, saccheggi, miseria, catastrofi naturali si susseguivano con ritmo incalzante, mentre principi e re e vescovi e papi si circondavano di corti sfarzose.

Predicatori popolari, rispondendo alla serpeggiante richiesta di un rinnovato senso religioso, venivano accolti nelle città da folle in festa. Dal pulpito della cattedrale essi enumeravano i tormenti dell’Inferno, non tralasciavano particolari orripilanti degli strazi che i diavoli avrebbero inflitto ai peccatori, illustravano a forti tinte le malefatte delle streghe facendo accapponare la pelle ai fedeli, descrivevano lussuria e orrori che le serve di Satana compivano insieme ai demoni, strappavano lacrime e lamenti alla folla impaurita implorando la grazia di Dio o la protezione di Maria Vergine. Apprezzatissime, le lacrime versate per devota paura dell’aldilà. Le lacrime versate copiosamente avevano indotto gli inquisitori a considerare prova di stregoneria l’occhio asciutto di quelle donne che messe in tortura non piangevano: chi non piange appartiene a Satana.

L’autorevolezza dei predicatori non di rado s’inoltrava nel terreno dei miracoli. Nella chiesa dove stava predicando un celebre monaco, il pianto generale di predicatori e fedeli, contriti per i propri peccati si interruppe al passaggio di due condannati a morte. Il monaco ottenne dai carnefici di poter alloggiare per un momento i due condannati sotto l’altare; predicò sui loro peccati; dopo la predica, al posto dei condannati si trovarono solo alcune ossa annerite: con il fuoco della fede il santo monaco aveva arso i condannati purificandoli e ne aveva inviato l’anima al Cielo.

Devozione e superstizione confondevano i loro rami, deformando le radici della fede. Voti e fioretti uscivano dall’ambito strettamente religioso, per diventare pratiche mondane. Si faceva voto durante i banchetti, giurando sulle pernici, sui fagiani, sui capponi con cui era imbandita la tavola. I voti venivano fatti nel nome di Dio, della Madonna, della dama che si aveva al fianco, nel nome del volatile pronto per essere mangiato. Ci si bendava un occhio facendo voto di non voler più vedere con quello fino a quando il voto non fosse stato sciolto dall’azione compiuta. Non si tagliavano barba e capelli per lo stesso motivo. Si faceva voto di non dormire nel letto nella notte del sabato, di rinunciare al cibo, al vino, alla donna.

Devoti cattolici ancora nel Rinascimento non indossavano gli stessi vestiti indossati in un giorno funestato da qualche brutta notizia, lasciavano nell’armadio quelli con cui avevano partecipato a un funerale, vedevano i simboli del divino riflessi in ogni cosa e soprattutto nei numeri: i dodici mesi evocavano i dodici apostoli, le quattro stagioni i quattro evangelisti, l’anno rappresentava Cristo. Dodici sono i peccati del peccatore: si lega con il Diavolo, acceca se stesso, si vende per niente, disprezza la virtù, pone fine alla propria vita, abbandona Dio che lo ama, sfida Dio, serve il Diavolo, si procura angosce, si apre l’ingresso all’Inferno, si chiude la strada al cielo, induce altri a peccare. Le donne accusate di stregoneria ammisero sotto tortura di essersi macchiate di questi peccati, tutti e dodici.

Sette erano le virtù (tre teologali e quattro cardinali), sette i peccati capitali, sette le preghiere del Pater noster, sette i doni dello Spirito Santo, sette le beatitudini e i salmi penitenziali. Non dimentichiamo i sette momenti della Passione di Cristo, i sette sacramenti e ovviamente i sette giorni della Creazione, quindi della settimana. Tre era il numero della Trinità e delle virtù teologali, che con le quattro cardinali e i sette peccati capitali fa quattordici che è anche il numero dei quattordici Santi ausiliatori, autorizzati da Dio a salvare la vita di qualsiasi persona li invocasse nel momento del pericolo. Soppressi successivamente dal Concilio di Trento, fino al 1546 i Santi ausiliatori bastava guardarli per uscire dai guai: sant’Acacio con la sua corona di spine, sant’Egidio stretto al fianco di una cerva bianca, san Giorgio con la lancia nel cuore del dragone, san Biagio seduto fra le sue belve, san Cristoforo gigante al remo, san Ciriaco con un Diavolo incatenato alla caviglia, san Dionigi con la propria testa stretta sotto il braccio destro, sant’Erasmo con gli intestini strappati da un argano, san Pantaleone con il suo bel leone al fianco, santa Barbara con la sua torre, santa Caterina munita di ruota e spada e santa Margherita in compagnia del dragone, sant’Eustachio con il cervo e san Vito.

Se le parole che componevano le formule usate dalle guaritrici per accompagnare la somministrazione di un farmaco – parole ispirate dal pensiero magico – vennero definite diaboliche dagli inquisitori, ogni parola dell’Ave Maria era ritenuta in grado di scacciare una malattia o un peccato, ed era nel contempo foglia di un albero ricco di frutti sui cui rami siedono, simili alle fate, i beati. La parola Maria significava “sapienza” e scacciava l’invidia, la cui epifania è un cane nero.

Quanto ai colori, Maria era nera come le ali del corvo, nella sua umiltà, rossa come il sangue, nelle sue sofferenze e bianca come la neve, nella sua grazia.

Come dimenticare poi che nelle antiche credenze le nozze erano ritenute un rito sacro unificante il mistero dell’accoppiamento e la festa nuziale? E che, dopo il passaggio dei preti missionari, la Chiesa separò il senso spirituale delle nozze dalla festa nuziale dell’accoppiamento, costringendo il primo in un sacramento, e chiudendo le porte alla seconda? Privata del carattere sacro la festa nuziale degradò in baldoria, i riferimenti alla “prima notte” divennero oggetto di lazzi licenziosi e di scherno. La gioia di vivere se ne andava così poco per volta in esilio.

Andavano in esilio le cerimonie funebri delle antiche credenze, occasione di festa – Trinox Samoni – perché inizio della rigenerazione nel vitale ciclo vita-morte-vita.

La morte, non più inserita nel ciclo spirituale della Natura, fece il suo ingresso nel mondo materiale, impugnò la falce e indossò la maschera del teschio ghignante di sotto al cappuccio monacale. Oppure sfoggiò il volto sfigurato della strega, che si abbatte sull’uomo calando dalle tenebre con ali di pipistrello.

Non c’era predicatore che non ammonisse i fedeli illustrando a tinte fosche la caducità della vita: ognuno di voi è destinato al sudario, ricchi e poveri.

Il livellamento operato dalla Grande Falciatrice non consolava i miserabili e stizziva i ricchi e i potenti. L’iconografia, dal Medioevo in poi, dette man forte all’idea terrorizzante della morte insegnata ai fedeli dai predicatori, rappresentando con iperrealismo l’agonia, il distacco dell’anima dal corpo e la successiva putrefazione del medesimo. Ognuno divenne consapevole di assicurare un pasto ai vermi prima di disfarsi in polvere.

Le antiche credenze secondo cui il grembo della Grande Dea accoglie ogni essere per rigenerarlo nel proprio ciclo venivano cancellate dall’orrore. Con la cristianità, il tempo si fece lineare: a un inizio corrispondeva bruscamente la fine del percorso; il disprezzo per la vita manifestazione di un progressivo disfacimento fisico generò il disprezzo per la malattia e la vecchiaia, privando la prima delle cure e la seconda del rispetto.

Al disprezzo per la vita si aggiungeva quello, già fin troppo diffuso, per la donna e per il suo corpo e per ciò che essa rappresenta. Già intorno al 1200 papa Innocenzo III scriveva nel trattato De contemptu mundi: «La donna concepisce fra odori disgustosi, partorisce urlando di dolore, alleva i figli oppressa dalla paura [...]». Veniva fatta così piazza pulita dei festosi e misteriosi riti antichi della maternità. Se la bellezza maschile sembrava sfuggire alle ingiurie del tempo e non veniva messa in discussione, la bellezza della donna, quando non veniva demonizzata perché induceva al peccato della lussuria, veniva considerata tanto effimera da svelare il greve materialismo dello sguardo maschile che la scruta. Alla contemplazione spirituale della bellezza come espressione di una grazia interiore, che permane e si evolve nel ciclo della vita, lo sguardo materialista – e non solo in quell’epoca – sostituisce il freddo esame che valuta la compattezza della pelle, del seno, delle carni femminili, caricandosi di disprezzo davanti a un corpo di donna se appena segnato dal tempo e consegnando al Demonio la “strega” perché vecchia, rappresentata con naso adunco, capelli irsuti, mani ad artiglio e gobba. La figura della erbaria – di età avanzata tanto maggiore è il suo sapere – viene rappresentata gobba stravolgendo il senso della sua abituale posizione, che è quella di chi si curva per distinguere le piante medicamentose fra l’erbe dei prati e nelle macchie. Di chi si curva per raccoglierle.

Il materialismo era ossessionato dall’idea del disfacimento del corpo, che nella malattia e nella vecchiaia e nella morte trovava la sua dannazione.

Ad Avignone, nel convento dei Celestini, un dipinto medioevale raffigurava il corpo di una donna giovane e bella; ma il velo con cui è ricoperta, scostato sconciamente, mostra il groviglio di vermi brulicanti nel ventre già disfatto dell’incantevole fanciulla, quel ventre che nella religione della Grande Dea della Natura veniva invece benedetto come fonte di piacere e di vita.

Si teneva in massima considerazione quella particolare “marcia in più” di certi santi che avevano la dote di essere, dopo morte, incorruttibili. Santa Rosa di Viterbo, che mostrava il corpo intatto anni dopo la morte, era oggetto di profonda venerazione e di sollievo della mente. Si conservavano i cadaveri degli eretici nella calce per poterli bruciare intatti insieme alla prima strega di passaggio. Si bollivano i corpi dei personaggi illustri, morti lontano dalle loro dimore, per spedire le ossa in un baule nel luogo in cui si poteva continuare a glorificarli con monumenti, iscrizioni e coro di angeli.

Alla fine del Medioevo, apparve all’orizzonte la danza macabra. Prima timidamente, per irrompere poi sulle pareti delle chiese, nei dipinti, nei bassorilievi, immagine irresistibile nel suo grottesco orrore. La morte avanzava con passo fatale e tirandosi dietro il papa, l’imperatore, il nobile, il contadino, il monaco, il bambino, il buffone, la donna, tutti per mano, tutti insieme danzando sulle colline testimoni della vanità delle cose terrene. La danza macabra riguardava in un primo tempo solo gli uomini e vi venivano raffigurati i rappresentanti delle varie professioni e dei vari ceti sociali. Che nessuno credesse, per rango, di sfuggire. Poco per volta, ignoti pittori utilizzarono i pennelli per dedicare la danza macabra anche alle donne (che non si dimentichino di essere mortali, le donne).

Vediamo scheletri in fuga con rade chiome ricadenti intorno al teschio, oppure regina, gentildonna, badessa, monaca, contadina, che si danno la mano per danzare al suono di raganella delle loro ossa. A esse, con il tempo, si aggiungono la fanciullina, l’innamorata, la fidanzata, la sposa, la donna incinta, tutte a danzare dietro alla morte, tutte a rappresentare gli stadi della vita femminile definiti dal rapporto con l’uomo, non potendo rappresentarne le professioni da cui la donna è esclusa. A meno che non si tratti di streghe e di roghi.

La paura dell’Inferno dilagò, levò il sonno, tormentò ogni istante della giornata. La paura del Diavolo fece lievitare quella delle streghe, argomento fra i più tenebrosi nelle prediche ascoltate in chiesa. Il popolo pendeva dalle labbra del predicatore di turno. Gli animi si rattrappivano. Le donne sapienti del villaggio, già venerate come sagge e guaritrici, venivano denunciate all’Inquisizione. Il predicatore non aveva forse dichiarato che se riuscivano a guarire è perché sono aiutate da Satana?

Per contrastare la paura non bastava denunciare le streghe. Ci si aggirava fra i simboli, ci si stordiva con riti minimi, pur di scampare l’Inferno, pur di appellarsi in ogni istante a Dio, alla Madonna, ai santi. L’autenticità del sentimento religioso spariva nei rivoli di una gestualità superstiziosa almeno quanto quella ritenuta pagana.

Era in uso seguire l’esempio di sant’Enrico Suso che tagliava la mela in quattro: mangiava tre spicchi in nome della Trinità e il quarto in onore della Madonna. Beveva l’acqua in cinque sorsi per volta per ricordare le cinque ferite di Cristo, e così via. Si moltiplicarono chiese, cerimonie, santi, festività, preghiere, modi di recitare il rosario, inni e pratiche religiose.

Si riteneva che nei giorni in cui si ascoltava la messa non si potesse diventare ciechi o esser colpiti da apoplessia. Non si invecchiava, questa era la credenza ancora nel Rinascimento, per tutta la durata della messa: in chiesa il tempo si arresta. Neanche fosse il tempo immobile del regno delle fate. Circolavano statuette della Madonna, riccamente decorate e dal ventre apribile come il coperchio di un cofanetto: nel grembo della Vergine era collocato il simbolo della Trinità.

Le indulgenze, quel mezzo di salvazione di cui la Chiesa tanto abusò, vennero associate alle più umili faccende quotidiane: pulire una pentola, mungere, sellare il cavallo, raccogliere il fieno. Nel 1518, durante una lotteria a Bosco Ducale, si potevano vincere sia premi che indulgenze, a scelta.

Jean Gerson, il teologo francese del Quattrocento, che tanto severamente si espresse contro la struttura autoritaria e gerarchica della Chiesa, riteneva che gli angeli custodi protettori dei principi, e dei nobili in genere, fossero gerarchicamente di grado più elevato degli angeli custodi dei contadini e delle donne.

Si paragonavano le nozze dei principi a quelle fra Cristo e la Chiesa. Certe Madonne raffigurate nelle chiese avevano il volto delle amanti del signore locale. Le nozze mistiche dell’anima con lo sposo celeste venivano spesso narrate con i termini usati per i matrimoni dei borghesi. In un’opera del Quattrocento, Gesù, lo sposo, chiede al Padre di benedire la sua unione con la sposa – l’anima – una etiope. Dio esita, nonostante l’allusione al Cantico dei Cantici. Un angelo intercede, loda la sposa enumerandone le bellezze del corpo, una per una. Dio finirà per benedire le nozze.

Una simile irruzione del profano nel sacro rese automatico il gesto svuotato dalla spiritualità, al quale si accompagnava una crescente indifferenza per i culti religiosi e per l’autorità della Chiesa.

Le chiese si svuotavano progressivamente e chi le frequentava se ne andava prima della fine della messa. Forse nascondevano un monito al popolo, i racconti dei chierici, ripresi dai predicatori, in cui le fate rivelavano la propria natura diabolica slanciandosi verso il soffitto della chiesa e sfondandolo, se richieste di assistere a tutta la messa?

Chi entrava in chiesa per la messa, si accontentava di un frettoloso segno della croce, di un bacio ai piedi di qualche statua della Madonna.

Le feste più sacre, compreso il Natale, erano occasione di bagordi e giochi d’azzardo a cui partecipavano anche i preti. Nella Strasburgo della fine del Medioevo, per un certo periodo il Consiglio della città si vide obbligato dal vescovo a distribuire 1.100 litri di vino all’anno per convincere la popolazione a frequentare la cattedrale partecipando così alla messa del santo patrono. La messa divenne uno degli appuntamenti più importanti della vita sociale, occasione per sfoggiare gli abiti migliori, per mettersi in vista; le donne esibivano abiti scollati, gli uomini armi e copricapi alla moda. Luogo di convegno, la chiesa veniva percorsa avanti e indietro, durante la messa, per incontrare conoscenti, soci in affari, amanti. Sguardi e biglietti venivano scambiati con disinvoltura, il “bacio della pace” diventava bacio sulla bocca impudico. Le prostitute si aggiravano cercando clienti.

Durante le feste, Natale compreso, si giocava a soldi buttando carte e dadi sui pavimenti istoriati da scritte latine, si bestemmiava quando la sorte voltava le spalle, e accadeva che si fornicasse negli angoli e sullo stesso altare. Si vendevano opuscoli con immagini oscene. Non pochi predicatori tentavano di sgolarsi dal pulpito per restituire al luogo santo la sua sacralità, inascoltati dal popolo, da prelati e nobili.

Dionigi di Ryckel, teologo e mistico dei Paesi Bassi morto nel 1471, soprannominato “il Certosino” e Doctor Exstaticus e autore, fra l’altro, di 690 sermoni, confortava quotidianamente i vescovi e i prelati che lamentavano la partecipazione scomposta della folla alle processioni delle sante reliquie. Le processioni si trasformavano in baldoria, le città venivano invase da una variegata moltitudine tutt’altro che devota, desiderosa soprattutto di gozzovigliare, ubriacarsi e fornicare. Le strade delle città che tanto spesso sarebbero state percorse dalle “streghe” condotte ai roghi, in occasione delle processioni per il santo patrono si affollavano di rivenditori di ogni genere, mentre le locande straripavano di stranieri. I magistrati non muovevano un dito per arginare l’affollamento, ben contenti che la processione della santa reliquia si trasformasse in opportunità di profitto. Durante le processioni si chiacchierava, si sghignazzava, si sbeffeggiavano i fedeli in atteggiamento devoto. L’urna con il corpo del santo, portata dai notabili della città, veniva piantata in asso davanti all’ingresso delle osterie e poi risollevata per proseguire ondeggiando fino alla prossima bevuta. Alle porte della cattedrale, l’ubriacatura collettiva era al suo massimo.

I pellegrinaggi nei luoghi santi, che avevano portato in terre lontane schiere di devoti e di furfanti, erano divenuti consuetudine e non raramente venivano presi a pretesto per sfuggire alla piatta monotonia della via coniugale. Una moglie che si svegliasse al mattino sicura di doversi immediatamente recare a un qualche santuario su indicazione di un sogno ammonitore, godeva del rispetto dei famigliari che assistevano alla sua partenza e dell’intimità con l’amante a cui aveva dato appuntamento lungo il percorso. I mariti tagliavano la corda quando ne avevano voglia dopo aver messo nella bisaccia il libro di preghiere e agguantato la spada: l’avventura era a portata di mano. L’uso improprio dei santi percorsi pesava sulle coscienze meno del tradimento.

Johan Huizinga, lo storico olandese del Novecento che nelle sue opere analizza i costumi religiosi del tardo Medioevo, attribuisce la corruzione dello spirito religioso non a paganizzazione collettiva, ma all’irriverenza e alla familiarità che si aveva con il sacro. Jean Gerson stesso non individuava la presenza di Satana in simili comportamenti irriguardosi verso Dio, pur esprimendosi con addolorata severità anche verso quei chierici e quei teologi fra i quali stava andando di moda farsi gioco della devozione. Costoro schernivano gli assidui frequentatori della messa, chi più di altri esagerava in genuflessioni, chi aveva le visioni, chi se ne andava in giro con fama di mistico, chi arringava la folla esortando alla penitenza.

Verso la fine del 1400 si levarono con più robusta veemenza, e non solo dal popolo, le richieste di un ritorno a una fede pura, allo spirito dei Vangeli, a un esercizio del culto non ridotto a pratica esteriore, alla condanna della vendita delle indulgenze. La Chiesa doveva ritrovare la sua autorevolezza, arginare la propria corruzione, riacquistare credibilità agli occhi della popolazione. Il rinnovato spirito religioso e l’aspirazione a nuove forme ecclesiastiche si rivolse da una parte a Dio, moltiplicando scritti e racconti edificanti, meditazioni di massa sui testi sacri, confraternite per la preghiera comune e donazioni, visioni, miracoli. Dall’altra parte aggiunse potere a Satana. Satana si impossessò dell’Europa con il suo esercito di demoni, diffondendo catastrofi collettive e disgrazie individuali attraverso le sue serve: le streghe. Sull’onda della lotta alle eresie, ebbero inizio la caccia alle streghe e le grandi persecuzioni.

Alle donne che sapevano guarire, alle levatrici, a coloro che praticavano la magia curativa recitando formule, alle veggenti, alle emarginate si attribuirono animo malvagio e intesa con il Demonio. Se riuscivano a guarire, erano i demoni a dar loro questo potere, se fallivano e il paziente moriva, erano i demoni a spingerle all’omicidio. Erano loro, le streghe, a coagulare enfatizzandolo il corrente disprezzo per la Chiesa e per le pratiche religiose, calpestando l’ostia, il crocefisso, il rosario, i libri di preghiera, nei loro raduni sotto le stelle che avevano il nome di sabba. Non erano forse proprio questi gli orrori che le donne accusate di stregoneria finivano per confessare sotto tortura? Come non demonizzare la solidarietà che correva fra le donne, definendo tante di loro streghe riunite in una congrega internazionale per distruggere la cristianità intera?

Come non spedirle al rogo, le “streghe”, loro che mescolavano il sacro e il profano, usando olio santo sottratto nascostamente in chiesa quale filtro amoroso? E consigliavano alle donne che per far innamorare un uomo bastava ungersi le labbra con quello prima di farsi baciare, come fece Benvenuta Mangialoca processata a Modena nel 1370. Come non spedirle al rogo, perché sotto la tovaglietta dell’altare nascondevano senza esser viste qualche loro polvere per far passare i dolori alle ossa, lasciandocela tre giorni perché si impregnasse di ulteriori poteri soprannaturali prima di portarla come ineguagliabile farmaco ai loro malati? O che per invocare gli spiriti aiutanti recitavano tre Pater e due Ave Maria, camminando in cerchio in un prato sotto la luna, confondendo così antiche credenze e superstizioni con la fede cristiana a cui erano devote? Come non mandare al rogo quelle guaritrici come Maria, detta la Medica, condannata da un frate inquisitore nel 1480 per aver ammesso sotto tortura che le sue cure le venivano suggerite da Satana in persona? O Benvegnuda, detta la Pincinella, processata in Valcamonica nel 1518 perché nelle invocazioni magiche sulle sue erbe curative impiegava i nomi di alcuni santi o addirittura quello del Cristo? Si potrebbe continuare – purtroppo – all’infinito.

Sul palcoscenico dei culti della cristianità, i santi erano intanto avanzati in schiera compatta, lasciando troppo spesso dietro le quinte Dio, Cristo, la Trinità, e anche la Vergine Maria.

I santi, raffigurati in immagini che si potevano vedere e toccare, reali e direttamente venerabili, alla mano – per così dire – ben più della Croce, con guance bonarie rigate da lacrime o labbra atteggiate a un sorriso familiare, con occhi posati affettuosi o severi su chi li pregava, o rivolti al soffitto in perenne contemplazione dei cieli, i santi, dunque, godevano presso la popolazione di strepitoso successo. Coccolati, adornati, riveriti, incensati, portati in processione, ricoperti di fiori, di gemme, di sete, di raso, simboli magici con i quali venivano giocate paure, speranze, disgrazie, i ritratti e le statue dei santi si moltiplicavano sugli altari delle chiese, nelle cappellette di campagna, ai crocicchi, vicino alle fontane, alle sorgenti, sugli altarini casalinghi. Raffigurati in statue o dipinti, i santi eludevano il primo comandamento forti della definizione data da uomini come Nicolas de Clémanges – il teologo francese segretario dell’antipapa Benedetto XIII nel primo decennio del 1400 – che affermava: «Le immagini sono il libro degli ignoranti».

Nelle immagini dei santi, spesso rappresentati goffamente e con abiti poveri, il popolo riconosceva se stesso. Nelle raffigurazioni del martirio dei santi vedeva il simbolo delle proprie disgrazie e della propria sofferenza, della miseria, della fame, della malattia.

Distribuiti a piene mani dalla Chiesa evangelizzatrice, i santi ben si erano adattati a sostituire le antiche credenze: la betulla, albero sciamanico per eccellenza, onorata insieme agli alberi sacri dei popoli nordici perché capace di allontanare il Male, si vide rimpiazzata da san Giorgio, magnificamente attrezzato per scacciare il male uccidendo la sua rappresentazione, il dragone. E se le pietre nelle antiche credenze furono ritenute sacre perché seggio della Grande Dea e sede di spiritualità, ecco san Benedetto circondato dai suoi monaci mentre con successo sta scacciando un demone da un masso, come lo raffigura Luca Signorelli nel 1498, negli affreschi del Chiostro Grande dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore. Alle ninfe, alle manifestazioni silvestri della Grande Dea della Natura che proteggevano le sorgenti, le acque termali, venne sostituita la Vergine, figura femminile della cristianità che a essa collega l’acqua, le sorgenti curative, o fonti divenute sacre in virtù di una locale apparizione della Madonna. Fra le più recenti, la famosa apparizione a Lourdes nel 1858. Le cappelle votive nei boschi o le grandi basiliche nei luoghi santi della Vergine sostituiscono i culti alla Dea della Natura.

Ogni santo – nelle antiche credenze ogni pietra, ogni pianta, ogni erba – aveva la sua funzione terapeutica: uno proteggeva dalla gotta avendo avuto strappati i piedi durante il martirio; l’altro proteggeva dal mal di denti, avendo avuto strappati i denti; il terzo proteggeva dalle ustioni, essendo stato posto sulla graticola. E così via.

Si finiva per attribuire una malattia o un qualsiasi malanno al santo preposto: in tal caso, la malattia era considerata manifestazione dell’indignazione del santo, offeso da qualche peccato particolare. San Fiacrio infliggeva miriadi di pustole, san Giovanni stravolgeva la digestione ammorbandoti l’alito, san Damiano rendeva difficile e doloroso l’orinare, sant’Antonio riempiva di ustioni, a tal punto che, intorno al 1130, a Parigi per ben quattro anni infuriò l’epidemia del fuoco di sant’Antonio; questo perché il santo era irritato – assicuravano i predicatori dal pulpito – per l’immoralità degli uomini che badavano troppo ad agghindarsi, portavano i capelli lunghi, si abbigliavano con lunghe vesti simili a quelle delle donne e infine avevano allungato spropositatamente la punta delle scarpe per essere più che mai alla moda; eccola la punizione, dichiararono i predicatori: un bel fuoco che brucia la carne.

Preghiere e penitenze avrebbero riportato la salute, non certo le guaritrici di città e delle campagne, a cui tutti ricorrevano. Per fermare l’epidemia si poteva tentare invece di rivolgersi a santa Genoveffa – ipotizzarono i predicatori – la patrona di Parigi, che ancora una volta, come già tante altre, sarebbe riuscita a mettere la parola fine alla calamità. Un’imponente processione dalla chiesa sulla collina, dove si trovavano, portò nella cattedrale di Nôtre-Dame le reliquie della santa, unica in grado di placare l’ira di sant’Antonio. Genoveffa riuscì nell’impresa: sant’Antonio venne rabbonito, Parigi si risanò.

Indubbiamente, i santi dovevano la propria fama alla diffusione del culto delle loro reliquie.

Questa delle reliquie è materia che avrebbe dovuto insegnare agli inquisitori a non accanirsi contro la donna di campagna accusata di stregoneria per l’abitudine di portare al collo sacchettini contenenti certe erbe e certi semi da essa ritenuti magici, o rametti di qualche pianta benefica. Ma tant’è: dei poteri della Natura gli inquisitori non sapevano nulla, e se qualcosa sapevano, le virtù terapeutiche delle piante venivano da loro attribuite all’influsso del Demonio.

Le reliquie erano invece ambite al punto che certi santi uomini ed eremiti, placidamente raccolti in preghiera in monasteri ed eremitaggi, appena vedevano apparire in fondo al viottolo una folla di pellegrini, dovevano darsela a gambe per non essere inseguiti dai devoti, decisi ad appropriarsi di una parte del loro corpo così da porre se stessi e i propri congiunti sotto una sacra protezione.

San Romualdo correva a rinchiudersi nella sua cella, difeso dai confratelli, per sfuggire ai fedeli disposti a ucciderlo per portarsi via un dito, una gamba, un ciuffo di capelli. Il corpo di san Tommaso d’Aquino, dopo la sua morte, venne bollito e rapidamente suddiviso in sacchettini dai confratelli di Fossanova, decisi a impedire che ordini religiosi avversi si impadronissero di così significativa reliquia.

I devoti si accapigliavano per entrare in possesso di unghie, dita, orecchie e via dicendo, purché appartenute a uomini e donne in odore di santità. Come doni, i sovrani regalavano sacre reliquie che venivano divise fra coloro che ricevevano il presente. Così fecero quei prelati che, dopo un pranzo tenuto a corte, tagliarono a pezzi una gamba di san Luigi ricevuta in dono in quella occasione dal re di Francia Carlo VI. Ognuno se ne tornò a casa contento, con un pezzetto della santa gamba bene al sicuro nella propria bisaccia.

La strega che conservava i sassolini anneriti dal fuoco di un qualche antico rito veniva condannata al rogo o all’impiccagione, ritenendo gli inquisitori che quelli fossero amuleti diabolici.

Veniva condannata al rogo o all’impiccagione la strega che affermava di avere visioni, di ubbidire a certi sogni, di dialogare con apparizioni, con defunti, con fantasmi.

Con i defunti, o qualsivoglia spirito dell’aldilà, erano autorizzati a parlare liberamente i santi uomini, i grandi visionari, gli eremiti, personaggi riveriti dalla Chiesa e di tempra simile a quella di san Francesco di Paola, le cui virtù guaritrici indussero Luigi XI, re di Francia, gravemente malato, a far rapire dai suoi notabili il santo eremita, strappandolo ai suoi boschi, per farselo portare a corte così com’era, barba e capelli mai tagliati, sant’uomo che dormiva in piedi o appoggiato a un muro, che non aveva mai toccato una donna o una moneta, che si nutriva con radici, che bastava imponesse le mani su un infermo per ridargli salute.

Parlava con i defunti il già ricordato Dionigi il Certosino, visionario di spaventevole energia, visitato da estasi, visioni, apparizioni, spettri, fantasmi, demoni, capace oltretutto di vegliare per giorni, intento a scrivere migliaia di pagine con la sua fitta calligrafia di teologo dottissimo. Uomo che per scelta mistica si nutriva esclusivamente di cibi guasti, di mele marce, di lardo ricoperto di vermi. Consigliere di prelati e di principi, sostenitore della Riforma, si schierò al fianco dei persecutori di streghe.

Predicatore robusto ben si meritò il soprannome di Doctor Exstaticus, affermando di intrattenere quotidiana relazione con i defunti che apparivano e sparivano in continuazione davanti a lui. Nessun inquisitore si sognò di incriminarlo per stregoneria.

I santi, da parte loro, difficilmente apparivano nelle visioni. Perché ne avrebbero avuto bisogno? Quali solide immagini erano giorno e notte più che presenti nella vita del popolo.

Nella quotidianità, i santi raramente davano segni di vita, a parte alcuni, come san Bernolfo di Gand, che per avvertire la popolazione di un qualche pericolo tutt’a un tratto si metteva a sferrare violenti colpi alle pareti della cassa che ne conteneva le spoglie. Questa sua propensione ad agitarsi ogni volta che una grandinata minacciava di annerire il cielo, impauriva la popolazione: l’immobilità visibile della statua di un santo valeva da rassicurazione e conforto.

Grazie all’incessante opera dei predicatori, che efficacemente avevano fatto leva sull’insicurezza sociale e su timori di ogni sorta, ciò che apparteneva al sovrannaturale, all’inatteso, allo straordinario, al mondo dell’invisibile, non era più connesso con la quotidianità, ma divenne oscura fonte di terrore. Si poteva forse ancora parlare di fate, nascostamente, ma figurarsi a sentir parlare di diavoli, a parlar di streghe, capaci – come non credere a quanto assicuravano predicatori? – di volarsene via la notte ai loro stregoneschi convegni con Satana, capaci di fulminarti con lo sguardo, di scatenare tempeste e di altre misteriose quanto mortali magie, fra cui, inevitabile, quella di mangiarsi i bambini.

Quanto più le immagini dei santi placavano ogni timore con la loro bella consistenza statuaria, tanto più l’impalpabile presenza, reclamizzata dai pulpiti, di demoni e spiriti e fantasmi esacerbava la paura e soprattutto quella della stregoneria.

Insieme alla confessione, la Riforma avrebbe eliminato il culto dei santi e quello della Madonna, lasciando che la paura delle streghe e del Diavolo dilagasse fra i riformati, orfani di immagini sacre, orfani di intermediari con Dio, o privati del sollievo della confessione, di fioretti, di voti, del pietoso sguardo della Vergine Maria. Nudo e terrificato, davanti a un Dio severo se non perennemente irato, colui che aveva abbracciato la Riforma si trovava esposto più che mai agli attacchi di Satana. Martin Lutero li sentiva volare a mezz’aria, i diavoli, intorno alla sua testa, e non ne faceva mistero. Come non tentare di tener lontano Satana, intensificando la caccia alle streghe?

Dei diavoli e del loro padrone continuò a tener gran conto la Controriforma, pur ridimensionando lo strapotere dei santi, pur combattendo la superstizione, bruciando pubblicamente talismani e mandragole, togliendo l’altare di sotto ai piedi dei Santi ausiliatori, vietando voti sui capponi e volatili arrosto in genere.

Per lottare contro Satana, Riforma e Controriforma facevano a gara nello sguinzagliare i loro giudici inquisitori. Mentre le guaritrici impiegavano il tempo cercando nei campi e nei boschi le erbe mediche, insigni giuristi e teologi cattolici e riformati producevano un numero impressionante di testi per illustrare al meglio le malefatte di Satana e delle sue serve, le streghe. Nel Cinquecento e nel Seicento, il Malleus maleficarum, opera dei due teologi tedeschi Sprenger e Institor e pubblicato nel 1489, ebbe diffusione pari a quella della Bibbia. Per due secoli, fu manuale indispensabile per i giudici e gli inquisitori, che in quelle pagine lessero tutto ciò che dovevano sapere sul mondo delle streghe. I roghi si moltiplicarono. Si fece strage di donne sapienti, guaritrici, levatrici, visionarie, veggenti, indovine, fattucchiere di città, maghe. Vicine di casa detestate. Mogli non più tollerate. Amanti divenute scomode.

Calviniste o cattoliche che fossero, figlie nel contempo del regno delle fate e del regno della cristianità, donne delle montagne, delle lande e delle vallate, donne dei boschi e delle foreste, donne che mescolavano ai loro antichi saperi le formule della religione di Cristo, donne che come Bessie Dunlop vedevano gli esseri elementari e passavano dal cattolicesimo al calvinismo, o che come Benvenuta Benincasa parlavano con gli spiriti aiutanti e pregavano la Madonna, donne che, come le streghe delle valli alpine, dopo aver seguito la messa lasciavano nel vano della finestra un pezzo di pane per i folletti, per i defunti, per le fate, tutte venivano accusate indiscriminatamente di stregoneria, tutte finivano in tortura e in cenere.

Fu strage nelle regioni celebri per l’affollamento di streghe ed erano regioni di montagna, non solo lontane dai centri del potere ecclesiastico e laico ma ancora nutrite dalle antiche credenze legate alla Natura. Fu strage in Germania, nell’Italia Settentrionale, in Savoia, in Lorena, nei Paesi Baschi, in Scozia. E in Svizzera, dove per le stragi compiute nelle valli ticinesi rimasero famosi gli attrezzi di tortura applicati ai corpi delle donne.

Eppure maghi e negromanti, astrologhi e indovini continuarono, e più che mai nell’orizzonte del Rinascimento, a venir consultati dai re, dai principi, dai prelati, dai borghesi. Venivano protetti nella segreta convinzione che la magia agisse più concretamente sulla realtà dell’aiuto di Dio, come già accadeva nel Medioevo.

I documenti del Comune di Siena – si parla del 1200 – riportano i compensi pattuiti con gli esperti di magia – fra essi allora anche donne – che la notte precedente alle battaglie si introducevano nel campo degli eserciti nemici per compiere incantesimi capaci di indebolire i soldati.

Si riteneva che, per eliminare un oppositore politico o un avversario, prima di ricorrere al sicario, fosse sufficiente modellare statuette di cera nominate e maledette: per vedere il nemico accasciarsi e morire fra atroci spasimi bastava infilzare con uno spillone la statuetta, trapassandola nei punti vitali.

La Chiesa di Roma aveva cancellato l’usanza antica di guarire un ammalato nominandolo in una statuetta di cera, di cui si pungevano con un ago i corrispondenti punti malati. Pratica antichissima diffusa fra le guaritrici, questa, che si vide stravolta in rito pagano non più risanatore ma mortale.

Si offrivano somme da capogiro ai maghi richiamati alle corti, salvo denunciarli come stregoni se la magia si fosse rivelata inefficace. Si accusavano di stregoneria gli uomini di scienza – Copernico, Galileo, Bruno – il cui genio minacciava le fondamenta del pensiero della Chiesa. Si bruciavano le streghe, donne che vivevano nel popolo e che ne rappresentavano le inquietudini, le ribellioni, l’insofferenza al potere costituito.

Che valessero da monito, i roghi delle streghe, a chi fra il popolo non frequentava le chiese. A chi riteneva di poter aver a che fare liberamente con esseri soprannaturali, privi del lasciapassare della Chiesa. A chi afferrava forconi e zappe con l’intenzione di assaltare i castelli di principi e principi-vescovi, col chiaro intento di sottrarsi una volta per tutte a tasse spropositate e alla miseria.

Che valessero da monito, quei roghi, a chi osasse alzare la testa.