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TRIORA, 1588
«E diranno che rido.»
Se è prodigio che in certi attimi il sole contenda agli acquazzoni quell’angolo dell’entroterra intorno ad Albenga, folto di boschi e di magie, il folclore popolare ligure assicura che in quel prodigioso istante, quando pioggia e sole sgomitano intorno all’arcobaleno, la strega fa l’amore.
Franchetta Borelli doveva conoscere bene quei giorni estivi di cielo incerto e piogge improvvise, giorni d’amore per la strega, creatura di confini. Il suo regno è zona ambigua dunque, in forse eterno fra realtà e sogno, donna e maga, giorno e notte, pioggia e sole, creatura di un mondo stravolto eletto a regno degli amori. Ben altri amori rispetto ai fetidi amplessi con Satana di cui fu accusata dall’inquisitore, colpa mai ammessa nella tortura e nei tormenti.
Dicevano della Borelli che fu puttana. Gran meretrice. Vai a sapere che questa sarebbe stata la sua fama, e ancor peggio quella di strega, quando, intorno al 1530, appena nata (e purtroppo per lei, femmina), innocente al fonte battesimale, fra gran svolazzare di cherubini sulla volta della chiesa di Triora, le venne dato il nome di Franchetta. Nome comune da quelle parti non distanti dalla terra di Francia, come fu per quell’altra Franchetta della famiglia dei Ferrandino, straziata negli attrezzi della tortura, come accadde alla nostra e dallo stesso inquisitore, Giulio Scribani. Subì per trentadue ore il tormento del cavalletto, muta e tenace, come Franchetta Borelli, nel non voler confessare d’essere strega. Piuttosto morire. Piuttosto venir arsa. Meglio bruciare, che almeno in tutto quello sfavillare di tizzoni il corpo se ne va e se ne vanno tormenti e tortura, ormai insopportabili per la vittima, mai intollerabili per l’inquisitore.
Da Triora al Buranco
Ma questa del processo, che vi fu nel 1588, è storia ancora lontana per le donne di Triora quando Franchetta Borelli vide la luce in quel paese della diocesi di Albenga, arroccato in alto, al limite della valle Argentina. Paese di marinai e di streghe, Triora, ultimo lembo verso ovest della repubblica di Genova, ghiotto boccone per gli appetiti dei Savoia che già insidiavano Ventimiglia. Genova, ricca di filatoi di seta e di velieri, cocciutamente indipendente, non venne mai conquistata dall’infaticabile Emanuele Filiberto duca di Savoia, detto “Testa di Ferro” per l’elmo del guerriero tanto avvitato sul collo da non levarselo, a quanto si diceva, neppure di notte. Insonne per furore militare nell’edificare il suo regno: la Savoia, nella quale, peraltro, fu accanita la caccia alle streghe, e con gran moltitudine di roghi.
Ma torniamo a quei giorni di Liguria fra pioggia e sole. Giorni d’amore stregoneschi. In quelle sue estati giovani, Franchetta Borelli faceva cenno all’amante.
Usciva dal paese sola, bella e lenta, l’amore non aveva fretta per lei, indifferente alla maldicenza. Si lasciava alle spalle poderi e pascoli di cui era proprietaria, figlia, e quindi erede, del ricco Giovanni Battistino Borelli di Triora, morto non si sa quando, ma ormai con entrambi i piedi saldamente piantati nell’aldilà nell’anno in cui Franchetta venne trascinata davanti all’inquisitore per essere giudicata strega.
Ancora ignara del suo destino, Franchetta camminava nei boschi, un occhio da guaritrice alle erbe mediche di cui conosceva segreti di vita e di morte, e l’altro ai castagni. Ed era occhio da padrona, questo, che valuta se belle, grosse e sane da vermi sarebbero maturate quell’anno le castagne, calcolando quantità del raccolto e ricavato. L’attendevano beatissime lussurie in quei pomeriggi di moscerini a mezz’aria quando la pioggia ti sorprende improvvisa e nubi rapide si alzano gonfie dal mare e serrano il cielo e lo svelano, lasciando spazio breve al sole.
Franchetta faceva l’amore fra pioggia e sole accanto ai cespugli irti, a un passo dagli strapiombi, tane di diavoli.
E quale, fra i tanti, se non anche l’orrido del Buranco? Crepaccio visitato da Satana di cui annusavi nell’aria, anche di giorno, il fiato mefitico, capace di stravolgere l’anima di chiunque ma non quella di Franchetta, grande strega, e da Satana quindi altamente protetta. Il Buranco dei suicidi, perché di suicidi si parla fin dal Medioevo, uomini resi malinconici dalle streghe. Ma buttarsi in quel vuoto è nulla quando il cuore è disperato. Neppure il salto in quel burrone d’inferno sembra gran cosa rispetto ai colpi della vita. Altro che streghe. A quei tempi i disperati assommavano carestie, fame e miseria, guerre, peste e figli morti, e amori infelici che neppure una strega come Franchetta riusciva a risanare con qualche sua pozione. Il Buranco, detto anche “salto del lupo”, dal giorno in cui, uscendo dai boschi alti sulla costa, un lupo imparò da una strega la strada degli ovili e delle culle. Sbranò pecore e neonati. Fino a quando, fuggendo inseguito da contadini armati di forche e di scongiuri, si trovò il passo sbarrato dal Buranco, e saltò da una parte all’altra. Di miracolo si sarebbe parlato se non fosse stato lampante che fu volontà non degli angeli, ma del Demonio, che un lupo volasse con un solo balzo oltre l’infernale baratro, salvando così la pellaccia. E poi via nel folto dei boschi. Per l’affronto di quella fuga ignominiosa, e per spregio, tornò solo in certe notti, quel lupo-strega, pronto a divorare i cristiani non abbastanza rapidi nel farsi il segno della croce. Se ne fuggiva poi, incatturabile, lungo la strada che da quel lembo della Liguria porta diritto all’inferno.
Da Triora al Buranco il passo è lungo, anche se di streghe si tratta, a meno che non si alzasse nell’aria sul serio Franchetta, come un corvo o un pipistrello, ma chissà. L’amante poteva giungerci a cavallo, lui, o essere del luogo e già pronto all’attesa.
E certo, si sussurrava, del tutto pazzo di desiderio, lui e tutti gli altri che se la portarono fra pioggia e sole, quella Franchetta Borelli maestra di filtri potenti, magie d’amore incluse. Tanto strega da conoscerli tutti, se no perché lei – si domandavano le donne di Triora – lei e non me avrebbero amato gli uomini del paese e del circondario? Fu questa domanda, fra l’altro, che indusse non poche delle donne finite come streghe fra le quattro mura della camera dei supplizi ad accusare di stregoneria Franchetta Borelli. Accusa germogliata dall’invidia. Dalla gelosia. O dalla tortura. Ma verità sacrosanta, secondo gli inquisitori.
Filtri d’amore e antidoti
Filtri d’amore non ne mancavano all’epoca, anzi, se ne conoscevano una sfilza, ma bisognava essere streghe come Franchetta e le altre perché andassero a buon fine. Che cosa serviva se no sapere che basta raccogliere i fiori della pervinca che inzurrano i bordi dei fossati, e cercare lombrichi da fare bollire insieme a quei fiori? Dell’intruglio disseccato se ne faccia una polvere, infallibile nel suscitare desiderio sessuale in un uomo e solo per colei che questa polvere è capace di «somministrargli nella carne». Resta da capire se «nella carne» significhi cospargere di pervinca e lombrico una ferita aperta nel corpo dell’amato. O, approfittando dell’accenno di un bacio, attendere che l’uomo dischiuda le labbra, fra cui rapida infilare le dita prima nascostamente impolverate con il magico intruglio.
O raccogliere la saliva di lui, o strappargli un ciuffo di capelli e sottrargli una calza da unire poi alla propria saliva o capelli o calza. Così congiunti, i due elementi del corpo di uomo e donna vanno avvolti in un nastro o lembo di stoffa, ma che sia rossa, e su tutto quel rosso occorre scrivere, con il sangue, il nome dell’uomo e il proprio. Non è che l’inizio della magia, questo, perché è indispensabile poi un passero da acciuffare destramente dopo averlo adescato con qualche briciola davanti alla porta di casa. E subito tirargli il collo e svuotarlo dei visceri e imbottirlo di quel fagottino di stoffa rossa di cui si diceva. Così farcito, il passero va posto sotto l’ascella, quella sinistra. Qui va tenuto ben stretto, giorno e notte. Fino a quando imputridisca, quel corpicino, e fa niente il fetore progressivo: chi potrebbe mai badarci quando il pensiero dominante è la passione? Accendere un bel fuoco nel camino, anche se è agosto e di caldo si soffoca, e davanti al fuoco togliere da sotto l’ascella il passero ormai corrotto, deporlo davanti alle fiamme e lasciar che asciughi e secchi ben bene. Adesso sì che si può uscire di casa e in fretta a cercare l’amato; adesso che la malia è compiuta saranno baci, abbracci e amore eterno, da fare di quell’uomo quel che si vuole.
E ancora: con due coltelli, nuovi e soprattutto mai usati per tagliare aglio, uscire di casa all’alba di venerdì, giorno magico. Nei prati molli d’umidità, e meglio se la giornata è nebbiosa, cercare lombrichi e cavarne con i coltelli fuori dalla loro tana terrosa due, non di più e non di meno. Tagliare testa e coda, tenendo entrambi i coltelli uniti – e qui il numero due, simbolo di coppia, si spreca –, raccogliere il corpo verminoso e tornare a casa. Chiuse porte e finestre, ciò che rimane dei lombrichi va cosparso di sperma. Va da sé che quest’ultimo ingrediente bisognerà ingegnarsi per procurarselo fresco, ma in ogni caso si dissecchi il tutto per farne una polvere. Espedienti non ne mancheranno a una donna, da sempre preposta a preparare cibo, per far ingoiare all’uomo desiderato la magia, mescolandola a qualche intingolo. Dopo il pasto, fosse anche frugale, l’uomo verrà folgorato dalla passione. E per sempre, come nelle favole.
Volumi e volumi raccontano di filtri d’amore, magie e formule da pronunciare in un sussurro fissando negli occhi chi si vuole sedurre. Sortilegi da far perdere il senno a chiunque, compreso l’inquisitore, e alcuni ce ne furono, di inquisitori maleficati, che per le nude membra di una strega in tortura si giocarono il cuore.
Veleni
Non perse il senno per filtro o magia d’amore Giulio Scribani, inquisitore civile inviato da Genova a Triora, l’8 luglio del 1588, per mettere ordine nel processo alle donne streghe. E neppure, prima di lui, quel Girolamo Del Pozzo, protetto dalla tonaca nera e bianca del domenicano, che a quel processo dette inizio nell’ottobre del 1587.
Un veleno che odorava di morte saturava le menti di Scribani e Del Pozzo, e quelle dell’infinita schiera di inquisitori che dal 1300, per quattro secoli, accese l’Europa di roghi e la cosparse di cenere.
Fu il veleno del pregiudizio, del dogma, del principio inderogabile. Fu la paralisi della ragione che si accoppiava a un disprezzo mortale per le donne. Fu un rigore cadaverico che nella donna vedeva la strega.
Nell’Europa cristiana dal 1300 a tutto il 1600 fu la donna ad ardere per stregoneria. La sua persecuzione veniva incoraggiata, motivata, articolata nei testi – e sono migliaia – che teologi e giuristi, vale a dire uomini di fede e uomini di legge, si ingegnarono a scrivere per dimostrare che la strega non poteva essere che donna, e in quanto tale serva del Diavolo: la sentenza ovunque prevedeva il rogo, poiché solo il fuoco garantiva la distruzione delle malefiche. Gli stregoni furono pochi, e bruciati più per eresia o ribellione al potere costituito che per essere maghi.
Nella strega l’inquisitore uccideva le proprie tentazioni e la propria paura. In un mondo che stava attraversando un vertiginoso mutamento – dalla scoperta dell’America a Galileo, al pensiero rinascimentale – meno l’inquisitore si sentiva protetto da Dio e più si accaniva a stanare il Diavolo nascosto nel grembo femminile.
Maneggiava un’arma infallibile: la tortura. Con la tortura l’inquisitore spogliava la donna della sua innocenza per consegnarla, colpevole confessa, nelle mani del boia. Contro ogni evidenza dei fatti l’inquisitore giudicava verità le confessioni estorte nella sofferenza e nel supplizio.
Jules Michelet – lo scrittore ottocentesco che degli inquisitori di ogni epoca detestò la feroce stupidità e l’imbecillità crudele – narra di una strega che in tortura confessò di aver tolto dalla bara un bambino e di aver usato per le proprie stregonesche pozioni quel cadaverino. Il marito della donna convinse i giudici a recarsi al cimitero: nella bara venne trovato il cadavere del bimbo, non dissepolto da alcuna mano sacrilega. «Ma il giudice» scrive Michelet «decise, contro la testimonianza dei propri occhi, che quel cadavere era una apparenza, un’illusione diabolica. Egli antepose la confessione della donna al fatto stesso. E così essa venne bruciata.»
Se ne infischia Michelet delle giustificazioni con cui una mirabolante schiera di studiosi e di storici, spulciando i processi per stregoneria – e il processo alle donne di Triora ne è un esempio che vale per tutti –, assolse da ogni responsabilità i giudici e gli inquisitori, che torturarono e arsero milioni di donne in tutta Europa. Uomini del loro tempo, assicurano gli studiosi, mentalità specifiche che esigono comprensione: per giudicare i giudici bisogna pur mettersi nei loro panni, anche se di ottima e dignitosa lana o cotone rispetto ai camicioni di tela con cui venivano ricoperti a malapena i femminili corpi nudi da avvitare negli attrezzi di tortura; bisogna pur interpretare, ammoniscono gli studiosi, le convinzioni di un uomo nato in epoche torve, prima di dargli dell’asino, come fa Michelet, o del sadico fanatico.
Michelet, da parte sua, disprezza le dotte analisi e si schiera dalla parte delle donne torturate e condannate. E scrive: «...furon trovati supplizi apposta per loro; inventati dolori a loro strazio. Venivano giudicate in massa, condannate per una parola». E da uomini che furono giuristi, filosofi, progressisti in politica, gran dottori di ingegno e di sapere. Eppure tutti, appena nell’aria si fiutava la strega, svuotavano il cranio e il cuore per imboccare arroganti, maledettamente fieri e del tutto imperterriti la strada dell’ottusità e della ferocia. Instancabili nella caccia alle streghe. Soddisfatti per le torture inflitte. Orgogliosi di quel fetore di carne bruciata che ammorbava l’aria nelle piazze in cui si ardeva viva una donna dopo l’altra, una donna insieme alle altre. Per citare solo alcuni casi, vennero bruciate vive settemila streghe a Treviri; cinquecento a Ginerva nel 1513; ottocento a Wirzburg e millecinquecento a Bamberg in quegli stessi anni; e il Parlamento di Tolosa mandò al rogo contemporaneamente quattrocento streghe.
Vanitosi, per di più, gli inquisitori. Come il giudice della Lorena, quel Nicholas Remy che, nella stessa epoca, arse ottocento streghe e scrisse: «La mia giustizia è così eccellente che molte in carcere riescono a uccidersi per strangolamento – cioè si impiccarono – ritenendo ormai inutile il mio verdetto». Convinto che una donna accusata di stregoneria riuscisse a impiccarsi fra le pietre del carcere per sollevare generosa il proprio giudice dalla fatica di un interrogatorio cruento: toglie il disturbo lei, dice Remy, ben sapendosi strega, e tanti saluti.
Carestia e paura
Leggendo gli atti del processo «istruito nell’agosto del 1588 contro la supposta strega Franchetta Borelli appartenente a una delle più distinte famiglie del luogo» – e si parla di Triora – ci si addentra in una vicenda simile a infinite altre che in quegli stessi anni, in Italia e soprattutto negli altri Paesi, eleggevano le donne a colpevoli di stregoneria. Una sorta di globalizzazione dell’accusa si aggirava in quegli anni per l’Europa, dall’Inghilterra alla Sicilia, dalla Spagna alla Polonia: ovunque con assoluta certezza si ritenevano le streghe grandi facitrici di carestie, malattie, peste, inondazioni, siccità, estati devastanti e gelidi inverni, calamità inspiegabili se è vero che esiste il Signore. Poiché nessun dubbio che il Signore esista, chi se non la strega, e in lei il Demonio, poteva esser causa di tante disgrazie?
Fin dai tempi di Carlo Magno, intorno all’anno 1000, ogni tipo di magia veniva condannata dalle leggi dello Stato. E per magia gli editti del re di Francia intendevano: fabbricare filtri amorosi, scatenare venti e tempeste, scagliare malefici, far marcire l’uva sulla vite e il grano nei campi, inaridire le sorgenti e le mammelle delle vacche, rendere sterili animali domestici e uomini, trasformarsi in animali quali gatti, corvi, pipistrelli, gufi o civette. Chi pratica la magia è strega o stregone, ma su dieci persone accusate di far sortilegi, una era uomo e donne le altre nove, perché ben più facilmente le donne, come si sa, hanno commercio con Satana, serpente che indusse la prima donna al peccato.
Se Michelet afferma che «la strega è un prodotto della disperazione del popolo» e l’antropologo Bronislaw Malinowski ritiene che ogni atto magico sia imbevuto di scoramento e di frustrazione, nella nostra angosciosa ricerca di una giustificazione allo sterminio delle streghe si potrebbe ipotizzare che la stregoneria e la credenza nelle streghe travolgono gli uomini quando la loro mente è annebbiata dalle catastrofi collettive. Ma forse neppure questo giustifica l’entità dell’orrore.
La fame a Triora
Fu così a Triora, anche se prima di quella carestia che per ben due anni affamò la costa ligure, processi alle streghe, torture e roghi già ce ne furono, in quell’ultimo scorcio del 1500, da Ventimiglia a Genova, fin nella lugubre Savoia.
Quando la carestia distrusse i raccolti, fu la morte a mietere in quella tarda estate del 1587. Vittime furono soprattutto i più poveri, e dai tempi di Adamo non sarà gran novità, questa.
Chi, ci si domandava, se non le streghe, poteva aver fatto marcire il grano e le sementi e le vigne e i semi della frutta e degli ortaggi? Le streghe erano loro, le donne del paese e dei dintorni, quelle che si radunavano nelle stalle a filare, quelle che la sapevano lunga sulle erbe medicinali e sul malocchio, e che di notte volavano – lo sapevano tutti – fino all’isola Gallinara per darsi convegno una con l’altra e baciare il deretano a Satana.
Tutti i cittadini di Triora si riunirono in Parlamento affollando la grande stanza del comune e richiesero, vociando infuriati, la presenza del podestà, tale Stefano Carrega, di Imperia, che in quanto forestiero, secondo l’usanza, avrebbe dovuto essere al di sopra delle parti. Che intervenisse lui per stanare le maledette bagiure e incarcerarle, e che si rivolgesse al reverendissimo vescovo di Albenga e all’Inquisizione di Genova. Ma subito, perché le malefiche bisognava al più presto processarle e gettarle fra le fiamme, e con la loro morte metter la parola fine ai malefici che devastavano i raccolti. E che quei corpi bruciati valessero da ammonimento a tutte quelle altre streghe occulte, quelle di cui non si conoscevano pubblicamente fatture e malocchio.
Il Parlamento votò all’unanimità di stanziare ben 500 scudi per pagare le spese del processo che avrebbe distrutto le streghe e salvato la vita dei cittadini.
Il podestà si armò di penna e calamaio e scrisse al doge di Genova: il popolo di Triora era impaurito e affamato e «tutti in Parlamento radunati ad alta voce e con acceso animo hanno gridato e gridano che si estirpino cotali malefiche».
Ai primi di ottobre, Girolamo Del Pozzo, vicario domenicano del vescovo di Albenga, e un vicario dell’inquisitore di Genova di cui nei documenti del processo non viene detto il nome, si inerpicarono lungo la valle Argentina fino a giungere a Triora, dove si installarono. I trioresi raccolsero con fatica quei 500 scudi promessi, gran cifra che un comune difficilmente poteva permettersi di spendere, sia pure per difendersi dalle streghe.
Le donne, loro, quelle in odor di strega, compresa la più potente di tutte, Franchetta Borelli, parevano non preoccuparsi delle frenetiche manovre che impegnavano gli uomini del paese, e neppure dell’arrivo dei due inquisitori. Nessuna di loro fuggì, come se tutta quella faccenda non le riguardasse.
Non si preoccuparono neppure quando Girolamo Del Pozzo radunò in chiesa tutti i cittadini.
Una predica illuminante
Salito sul pulpito, nero e bianco nella sua tonaca da domenicano, fra candele fiammeggianti davanti alle immagini di santi e misericordiose madonne, l’inquisitore – come usavano fare in ogni luogo di Europa tutti gli inquisitori prima di iniziare un processo per stregoneria – tenne una predica memorabile, ogni parola della quale si impresse nella mente dei fedeli. Se già i trioresi, uomini e donne, avevano paura delle streghe ora, dopo le parole del domenicano, vociante sul pulpito sopra le loro teste, ne ebbero terrore.
Già sapevano che le streghe di Triora ne combinavano di tutti i colori, e, a parte la faccenda della carestia su cui nessuno aveva dubbi, erano capaci di trasformarsi in gatto; per non parlare dei bambini appena nati con cui le malefiche giocavano a palla buttandoseli fra sghignazzate oscene dall’una all’altra, arrampicate sui noci intorno alla Cabotina, poco fuori dal paese. Ma di quello che Del Pozzo stava sciorinando dal pulpito, i più non sapevano nulla e solo ora, in chiesa, ingobbiti sulle panche in quell’ottobre umido e già freddo, conobbero tutto quello che c’era da conoscere sulle nefandezze delle streghe.
Del Pozzo spiegò con ricchezza di particolari orripilanti che le streghe erano capaci di far rivivere i morti ed entrare nei loro corpi putrefatti, e disseppellendo i cadaveri dal cimitero preparavano filtri d’amore o di odio; fingevano di guarire dalle malattie senza niente sapere di medicina, volavano per aria con la velocità del lampo inforcando scope o caproni unti con l’unguento diabolico ricevuto dalle grinfie di Satana in persona; e non basta: mangiavano i bambini, come da sempre accade che facciano i nemici di fede o di fazione politica, e dalle loro vulve facevano uscire bruchi e cavallette micidiali per i raccolti e le vigne, e topi e lupi famelici che ciascuno dei presenti in chiesa poteva ritrovarsi sul letto, di notte, magicamente piombati giù dalla cappa del camino. Le streghe rinnegavano la fede, orinavano sull’ostia sacra, scoprivano tesori, vale a dire casse colme di monete d’oro. E forse qui più di uno dei presenti rizzò le orecchie, ancorché spaventato: i ricchi Borelli dovevano forse la loro fortuna a quella Franchetta, famosa malefica?
Del Pozzo continuò la predica aprendo l’orizzonte sui luoghi in cui le streghe si incontravano con Satana, convincente nel dichiarare che proprio lì, svoltato l’angolo, si tenevano osceni convegni, di danze e di accoppiamenti lussuriosi e contro natura, quando Satana vestito di seta e dai piedi biforcuti lì appariva contornato da uno stuolo di rospi in livrea e donne nude. Ma quei convegni diabolici erano soprattutto ricchi di succulenti banchetti, e parlar di cibo a sazietà, un cibo permesso solo alle streghe, in quella accolita di trioresi morti di fame, fu forse il colpo da maestro con cui Del Pozzo convinse i più a puntare il dito contro ogni donna sospetta, senza pensarci due volte. Loro mangiano mentre noi ci ischeletriamo? Bene, che brucino.
Manuali e denunce
Del Pozzo non se le era inventate, quelle mostruosità di cui le streghe erano colpevoli. Lui, come tutti i giudici dell’epoca, le aveva imparate dai testi degli stregologhi e dei teologi che tutto sapevano delle streghe. Erano uomini come Jacob Sprenger e Heinrich Krämer (latinizzato in Institor o Institoris), i due domenicani che nel 1489 pubblicarono il Malleus maleficarum (Il martello delle streghe), vangelo dei magistrati ecclesiastici e dei giudici civili, manuale indispensabile da tener sempre a portata di mano nei processi contro le streghe e che raccoglieva puntigliosamente tutto lo scibile stregonesco. O come il domenicano Bernardo Rategno da Como, famoso per la sua Lucerna inquisitorum haeriticae pravitatis, e per lo sterminio delle streghe comasche seguito al terribile 1485, anno fiammeggiante di roghi. O come il geniale giudice francese Jean Bodin, che nella sua Démonomanie des sorciers raccomandava nel 1580 che le streghe fossero bruciate vive. Tanto per citarne solo alcuni.
Nonostante la predica di Del Pozzo, le streghe di Triora continuarono tranquille a snocciolare formule magiche sui loro abominevoli intrugli, chiuse nelle loro cucine. A uscire nei campi per raccogliere erbe; a guarire qualche audace che sfidando pettegolezzi e occhiate da spia continuava a recarsi dalle bagiure per cercare sollievo da qualche malanno. Franchetta Borelli, ormai sessantenne, continuava a vivere nella sua casa, agiatamente, insieme al fratello, si occupava dei suoi beni e della raccolta di erbe e di castagne, sicuramente indifferente alla fama di gran meretrice che le era rimasta cucita addosso.
Intanto, dopo la formidabile predica, i trioresi si recarono alla spicciolata da Del Pozzo e dall’inquisitore di Genova a far nomi su nomi.
Forse fu con sorpresa che molte donne di Triora si ritrovarono di fronte la polizia inviata dal podestà, e gridarono quando vennero acchiappate fra la casa e l’orto desolato dalla siccità. Sta di fatto che furono una ventina queste donne supposte streghe – ma non ancora Franchetta – prontamente rinchiuse nel carcere di fortuna allestito in una casa di Triora, con tanto di camera dei supplizi. Per l’esattezza furono tredici donne, tre ragazze e un ragazzino.
Si prevedeva un processo con tortura, una sentenza con condanna al rogo, e la confisca dei beni, che tanto ingolosì in ogni tempo il potere laico e quello ecclesiastico. Se si calcola che furono milioni le donne inquisite e incenerite in tutta Europa nell’arco di quattro secoli, di cui una percentuale non certo bassa possedeva terre o case, si suppone che il rigore del giudice non fosse disgiunto da interesse materiale.
Torture e proteste
Le torture applicate da Girolamo Del Pozzo e dall’inquisitore di Genova per far confessare alle tredici donne di essere streghe furono la corda, il cavalletto, gli aghi, la tortura della veglia e anche lo schiacciapollici, che da sé dice a che cosa servisse mai l’ingegnoso strumento. E la tortura del fuoco ai piedi. Torture fra le più comuni, queste, di semplice applicazione, che a voler vedere quelle di Germania e di Spagna, Paesi quanto mai fantasiosi nell’ingegno della repressione e dello sterminio, si ha più di un motivo per inorridire davanti ad arzigogolati e complessi strumenti del supplizio, dalla cosiddetta “vergine di Norimberga” al “minotauro”.
Fra le torture di carattere quasi artigianale applicate a Triora, il cavalletto consisteva in una tavola triangolare di legno, fissata su quattro lunghe “gambe”. Sulla tavola veniva stesa la strega. Il suo corpo veniva legato e immobilizzato. Le si stiravano le membra con una fune, fissata a polsi e caviglie, avvolta intorno a un rullo girevole a mano. O si legavano alle membra dei pesi. Un colpo di rullo o un aumento dei pesi slogava progressivamente le membra. La strega torturata con la corda veniva invece appesa per i polsi, legati dietro alla schiena a una fune fissata al soffitto; ai piedi le venivano applicati pesi da aumentare a volontà del giudice. Per operare la tortura della veglia l’inquisitore ordinava al carnefice di legare la strega su un tavolaccio, le braccia andavano incatenate al muro, in alto, così da sollevarla, ma non di molto, e ai piedi andavano fissati dei pesi; fatto ciò era necessario impedirle di dormire anche per quarantadue ore di fila, caso mai fosse possibile rifugiarsi nel sonno in tanto strazio. Per la tortura del fuoco ai piedi il carnefice poteva usare carboni ardenti, o pinze infuocate, o semplicemente un fuoco acceso sotto i piedi della strega appesa al soffitto. Quanto agli aghi, era con essi che l’inquisitore affondava nelle membra della strega, legata e nuda, per cercare il segno del Diavolo, che poteva essere ovunque, nelle orecchie come nella vagina. Quando, perforando la carne, l’ago non produceva dolore, là era la prova che l’accusata apparteneva a Satana. Pare esserci una contraddizione in questa tortura, se si tiene conto che il tenace intento dell’inquisitore era mandare al rogo la donna come strega e che un ago infilato nel corpo procura immediato dolore. Nonostante ciò, i verbali di tutti i processi europei tenutisi tra il 1400 e il 1600, assicurano che molti erano i punti insensibili nei corpi stregoneschi, perché «punti di Satana». Tant’è vero che grazie all’ago la maggior parte delle donne che negavano di essere streghe risultarono tali.
Girolamo Del Pozzo non fu avaro di torture. Dalle bocche delle torturate cavò tutte le confessioni che aveva deciso di cavare e, quel che più importava – per stanare al completo la malefica setta –, i nomi di molte altre streghe. Ancora una volta, il nome di Franchetta Borelli non venne pronunciato.
Due incidenti, diciamo così, di percorso avrebbero procurato non pochi grattacapi a Girolamo Del Pozzo, e si parla di quella Isotta Stella morta in tortura, e di un’altra donna, di cui non si conosce il nome, che, similmente alle vittime del lorenese Remy, si buttò dalla finestra per sfuggire ai suoi carnefici. Le guardie minacciarono di bastonarla nella piazza dove l’aspirante suicida era atterrata e la obbligarono a strisciare verso la Curia. Tre giorni più tardi la supposta strega si affrettò a rendere l’anima al Signore.
Quando nel carcere di Triora ebbe fra le mani più di una trentina di donne e ben duecento denunce contro altre abitanti di Triora, Del Pozzo si ritrovò, disorientato, a dover fare i conti con la crescente ostilità dei cittadini trioresi più in vista. Indignati, costoro, che le streghe in tortura accusassero, fra le altre, anche le donne della loro famiglia. Del Pozzo stava colpendo gli aristocratici e i benestanti di Triora, che in tutta fretta radunarono il Consiglio degli Anziani, di cui solo loro facevano parte, ben più autorevoli del popolino che costituiva il Parlamento.
Il Consiglio degli Anziani si rivolse al podestà perché inviasse al doge di Genova una protesta. Pare che il podestà si fosse sottratto all’incarico, perché il governo di Genova ricevette direttamente dagli Anziani una lettera di vibranti proteste, in quel gelido 13 gennaio del 1588.
Proteste e giustificazioni
Nella lettera gli Anziani, forti del loro potere in beni e in rango, e forti anche delle tensioni politiche fra Genova e le città circostanti, che il doge certo non teneva a inasprire, esposero senza mezzi termini al governo genovese le ragioni della loro indignazione.
Il loro scopo era salvare le donne di famiglia dalle spire dell’Inquisizione, perché dalla bocca di una donna in tortura può davvero uscire di tutto, compresi i segreti riguardanti l’entità delle ricchezze e la loro origine, o le alleanze politiche che dovevano rimanere occulte. In poche parole, salvando le loro donne, gli Anziani mettevano al sicuro se stessi. Imbevvero quella lettera dei toni accesi della pietà offesa, dell’umanità oltraggiata dai metodi dell’Inquisizione, dell’indignazione del cittadino che ha a cuore le sorti della comunità in cui vive. Recriminarono su tutto l’operato di Del Pozzo – e ce n’erano di ragioni! – per ottenere dal doge l’immediata sospensione del processo.
Nella lettera gli Anziani di Triora scrissero che le donne in tortura erano state arrestate per dubbi indizi, pettegolezzo o maldicenza che fossero; che erano mal custodite nelle carceri e quindi influenzabili da chiunque fosse entrato a trovarle; che torturate dichiaravano come propria colpa quello che avevano sentito dire in chiesa, dall’inquisitore stesso. Si dissero sdegnati per la morte in tortura di Isotta Stella, che non aveva retto ai supplizi dopo aver denunciato come streghe tutte quelle che le venivano in mente in quelle ore terribili, e che era morta senza essersi potuta confessare. Protestarono contro la ferocia delle torture – quella della veglia poteva durare anche quarantacinque ore –, tanto che le torturate avevano il corpo distrutto e i piedi consumati dal fuoco. Si scandalizzarono perché l’inquisitore aveva denudato le donne, prima di torturarle; e aveva fatto radere loro tutti i peli del corpo, ignorando forse gli Anziani che questa pratica depilatoria veniva eseguita perché i peli del corpo, protetti da Satana stesso così come si legge nel Malleus, tutelavano le streghe dal dolore se torturate. Scrissero ancora che erano inorriditi dalla tragica fine di colei che si buttò dal balcone. Terminarono affermando che di questo passo le povere torturate avrebbero denunciato tutta Triora come luogo di streghe, nella folle speranza di sfuggire alla ferocia del Del Pozzo. E che per Triora sarebbe stata la fine.
Il doge di Genova, con la lettera degli Anziani sotto il naso – e messa a confronto con l’entità dei danari in imposte, tasse e gabelle che Genova raccoglieva dai ricchi trioresi – si rivolse subito al vescovo di Albenga.
Del Pozzo fu invitato a giustificarsi. Per prima cosa – capita l’antifona – l’inquisitore si affrettò a non procedere contro le donne legate alle famiglie degli Anziani. Subito soddisfatti del pronto esito della loro protesta, gli Anziani considerarono con benevola indulgenza la lettera di giustificazioni che Del Pozzo scrisse il 21 gennaio di quello stesso anno, neppure dieci giorni dopo aver ricevuto la lavata di capo da parte del proprio vescovo.
Del Pozzo nella sua lettera di scuse afferma che Isotta Stella non era poi così anziana, sessant’anni sono pochi e l’età dipende dalla complessione fisica. Come inquisitore sapeva benissimo che anche i vecchi decrepiti possono essere sottoposti alla tortura, quando si tratta di cercare la verità. Se Isotta era morta senza sacramenti, colpa sua, che si era rifiutata di esigerli perché posseduta dal Diavolo. Aggiunse che i peli del corpo furono rasati alla giovane figlia di Isotta Stella – strega come la madre – perché, torturata una prima volta, non aveva aperto bocca; ma dopo esser stata «rapata», diventata docile, senz’altra necessità di torture aveva spontaneamente confessato di far parte della «scellerata schiera di streghe». Aggiunse ancora che il fuoco sotto i piedi era stato dato a «quattro gagliardissime», che ben tollerarono l’abbrustolimento e non ne ebbero danni rilevanti. Quanto alla suicida, cioè colei che si era buttata dalla finestra, Del Pozzo ricorre a una scusa del tutto abituale fra i giudici implicati in simili accuse, e sostiene che la poveretta era caduta dalla finestra, per essersi sporta troppo. Del Pozzo conclude assicurando di avere fra le mani non più di tredici donne, di aver lasciato libere le ragazze e il fanciullo, e di non aver alcuna intenzione di procedere contro le trenta o quaranta donne di famiglia ragguardevole.
Stefano Carrega, il podestà di Triora, dal canto suo prontamente spalleggia Del Pozzo scrivendo in quello stesso 21 gennaio una lettera in difesa dell’inquisitore: la suicida si gettò dalla finestra per istigazione di Satana; quanto a Isotta Stella, tutti l’avevano sentita invocare il Diavolo, urlando, chiusa nella sua cella dopo la tortura: come pretendere quindi che desiderasse i Sacramenti?
Del Pozzo e l’inquisitore di Genova, che con lui aveva condotto il processo, lasciarono Triora quello stesso gennaio. Da questo momento il processo si fece confuso: doge, vescovo, inquisitori, podestà, si accapigliarono sulle reciproche competenze, divisi da sotterranee ostilità politiche. Gli Anziani si disinteressarono del tutto della vicenda per loro ormai conclusa con la salvezza delle donne di famiglia.
Carcere e inverno
Rimasero in carcere tredici malefiche storpiate dalle torture, colpevoli di aver generato bruchi, cavallette e carestia e mille altri malefici. Imprigionate e sorvegliate a vista, cercarono di curarsi come potevano il corpo disfatto e i piedi corrosi dal tormento del fuoco. Chiuse nelle loro celle, le tredici donne sopravvissero in attesa che il processo venisse riaperto, mentre passavano i mesi di quel gelido inverno.
E che fosse gelido quell’inverno, nessun dubbio, come tutti gli inverni della seconda metà del 1500, che vedono le temperature scendere a livelli insostenibili e i fiumi gelare. Come accadde per il Rodano, nella vicina Provenza, che gelò fin quasi alle foci, e il vino ghiacciò nelle botti. Si narrava che chi andava a comperare il vino se lo vedeva tagliare a colpi d’accetta e con quei ghiaccioli color sangue nel cappello si affrettava a rintanarsi in casa. Inverni gelidi in tutta Europa, mentre i ghiacciai avanzano, gelate improvvise a primavera disfanno le sementi, il grano non germoglia e le radici delle viti si incancreniscono, i prati non buttano più erba, e il gran freddo brucia gli alberi da frutta. Altro che streghe! In quell’inverno dunque, simile ai trenta inverni precedenti, le streghe di Triora rinchiuse in carcere supplicavano per avere un po’ di fuoco, ma questa volta per riscaldarsi. Erano sopravvissute alle torture, rischiavano di morire di freddo.
Giungevano a loro, nelle celle, notizie terrificanti di quelle altre streghe che poco distante – per loro che volavano – a Baiardo, in provincia di Ventimiglia, in quello stesso inverno erano state catturate per denuncia dei compaesani. Il vicario del vescovo di Ventimiglia e un inquisitore di Genova le stavano torturando.
Le tredici rimasero in carcere a Triora in attesa di processo fino a maggio. Forse in quei lunghi mesi videro in sogno la sorte di altre donne che nel secolo successivo e a Mentone, più di trent’anni dopo, nel settembre del 1622, finirono davanti agli inquisitori di Francia. Confessarono in tortura di aver mangiato bambini, di andare al sabba trasformate in gatte, di aver copulato con il Diavolo vestito di rosso. Una di loro, ferocemente suppliziata, confidò ai giudici di aver ottenuto unguenti malefici con ossa di morto, sangue di drago e rospo bollito. Venne arsa dopo esser stata strangolata, contrariamente a quanto aveva raccomandato l’ormai defunto Jean Bodin: «Ardetele vive!». E si tratta di quello stesso Jean Bodin che aveva teorizzato lo Stato assoluto: in quel 1622, in anni sconvolti da guerre religiose, Luigi XIII stava già affermando in Francia l’assoluta sovranità del re, per decreto divino.
Franchetta Borelli incontra il nuovo inquisitore
Fu a maggio che il processo di Triora riprese, con l’arrivo da Genova di un nuovo inquisitore, Giulio Scribani, o De Scribanis, come amava firmarsi.
In quella giornata dell’8 giugno 1588, Scribani si stabilì a Triora in tempo per vedere il nuovo podestà, tale G.B. Lerice, ordinare alla polizia di prelevare dal carcere le tredici streghe ancora incarcerate e portarle a Genova per ordine del Padre inquisitore genovese, che si era improvvisamente deciso a rivedere personalmente il processo lasciato inconcluso da Del Pozzo.
Scribani si affrettò a ripopolare il carcere raccogliendo nel sensibile orecchio le voci e i sussurri dei trioresi, che pur essendosi riuniti in Parlamento l’anno precedente, pur avendo pagato ben 500 scudi di tasca propria, non avevano ancora avuto la soddisfazione di veder punite le colpevoli della carestia.
Mise le donne arrestate in tortura. Fra loro, Caterina Capponi e le tre sorelle Vivaldi-Scarella, Bianchina, Battistina e Antonina. Le quattro erano di Andagna, che rientrava nella circoscrizione di Triora. Tutte fra di loro si conoscevano e di ognuna del circondario – compresa Franchetta Borelli – conoscevano vita, morte e malefici.
Scribani incaricò il capo della polizia triorese di cercare nella casa di Caterina Capponi l’unguento diabolico che permetteva il volo stregonesco. Caterina aveva ammesso, dopo ore di cavalletto, di volarsene via di notte al sabba, mentre Matteo, suo marito, dormiva. L’unguento diabolico fu cercato, vennero trovati in cortile vari barattolini colmi di grasso; il ciabattino che qui aveva la sua bottega cercò inutilmente di convincere Scribani che di quel grasso era lui a servirsene, per il suo lavoro. Il marito di Caterina e il ciabattino vennero prontamente rinchiusi in carcere.
Le altre tre donne di Andagna, torturate, e a lungo, confessarono atroci delitti: avevano ucciso bambini e adulti con le loro diaboliche pozioni composte da cervello di gatto e «sangue de homo rosso».
Scribani trovò la prova di queste confessioni nella morte inspiegabile di un cappellaio di Savona, del vignaiolo Antonio Musso di Finale, e di un certo numero di bambini, nonostante il parroco del paese avesse affermato che erano tutti morti per malattie sconosciute.
L’infaticabile Scribani continuò ad arrestare e torturare un’altra ventina di streghe denunciate da quelle in carcere. Fra queste una certa Luchina Rossi, di Badalucco, che nel supplizio in un primo tempo ammise d’esser strega e di avere fatturato fanciulli, per poi negare tutto, nonostante Scribani insistesse con la tortura. Anzi, senz’altro per beffarlo, Luchina se ne morì durante il tormento del cavalletto. Cosa che fece arrabbiare lo Scribani, che il 22 luglio 1588 nella sua relazione al governo di Genova scriveva: «Non si capisce come mai sia morta, questa Luchina, dato che donne più vecchie di lei e più deboli avevano resistito egregiamente anche a trentadue ore di cavalletto senza sognarsi di morire».
Franchetta viene arrestata
Scribani, da intenditore, è sicuro che Luchina sia riuscita ad andarsene da questo mondo con l’aiuto del Diavolo, al solo intento di nascondere la verità. Nella relazione lo Scribani aggiunse che una vedova, tale Gentile, dopo aver taciuto il primo giorno, benché torturata, minacciata di nuovo di tortura aveva spontaneamente confessato di aver ucciso venticinque bambini, una donna, molte mucche e pecore. Scribani conclude la sua relazione dicendosi convinto, grazie alle confessioni delle streghe, che tutte costoro facessero parte di quella «malefica setta»; corporalmente si recavano tutte insieme ai sabba a compiere le loro scelleratezze, secondo le descrizioni già fatte da santi e grandi teologi, quali gli autori del Malleus, Bernardo da Como e Paulo Grillando, giurista di Castiglion Fiorentino. Di costui lo Scribani sembra prediligere il trattato di stregologia De sortilegis, in cui il Grillando scrive di evocazione di diavoli, di convegni notturni, di cani parlanti, di filtri d’amore, di pratiche amatorie in genere e in specifico quelle per abortire.
Nell’agosto, dopo aver terminato interrogatori e torture, Scribani propone alla revisione e all’approvazione del governo di Genova la sentenza da lui emessa contro le streghe: impiccagione e rogo. Revisionò il processo il giudice Petrozzi di Genova, cui vennero successivamente aggiunti tale Giuseppe Torre e soprattutto Pietro Allaria Caracciolo, che con tanto furore si scaglierà, poche settimane più tardi, contro Franchetta Borelli.
I giudici di Genova diedero il loro benestare alle condanne, ma ecco che da Genova arriva un improvviso ordine del padre inquisitore: si accompagnino le condannate nei carceri genovesi, perché spetta all’Inquisizione di Genova, sottoposta a quella di Roma, di concludere il processo e le condanne. Scribani ubbidisce prontamente. Le condannate vennero trasportate a Genova, dove ancora erano imprigionate e senza processo le precedenti tredici trioresi torturate da Del Pozzo.
Queste tredici e le vittime dello Scribani, insieme rinchiuse nelle prigioni genovesi, rimasero in attesa del nuovo processo. Fra esse le donne di Andagna.
Furono, fra altri, le donne di Andagna, torturate dallo Scribani che da loro voleva il nome di altre streghe e se possibile delle più potenti, a rantolare fra i supplizi che la più potente di tutte era, senza dubbio alcuno, Franchetta Borelli.
Immediatamente Giulio Scribani inviò la polizia a casa dei Borelli. Franchetta fu arrestata e rinchiusa in carcere. E questo nonostante i Borelli fossero fra le famiglie benestanti, presenti nel Consiglio degli Anziani. Non risulta dai documenti per quale ragione, se altre «matrone del luogo» scamparono agli inquisitori difese dalle influenti famiglie, Franchetta finì invece in carcere e in tortura, pronta per il rogo.
Franchetta e la prima tortura
Nell’agosto del 1588 dunque, Franchetta Borelli venne arrestata. Fu detto a Scribani che in gioventù era stata «gran meretrice», vale a dire puttana e lussuriosa. Tutti sapevano che «hora che è vecchia è tenuta una delle principali streghe che vi siano».
Appena la ebbe fra le mani, Scribani ordinò al carnefice di mettere subito Franchetta al cavalletto. Era notte. Straziata dal dolore Franchetta non tardò a urlare di essere strega.
Quando giunse l’alba e Franchetta venne sciolta dalla tortura, negò davanti a Scribani tutto quanto aveva confessato. Scribani la fece di nuovo torturare, ma questa volta Franchetta rifiutò, pur nel tormento, di dichiararsi strega e di ammettere per vere le colpe che lo Scribani le attribuiva. Riuscì a tacere.
L’accusavano le quattro donne di Andagna: una dopo l’altra le avevano gridato in faccia «di averla veduta alli balli et tripudii notturni diabolici», vale a dire al sabba. L’accusavano undici testimoni. Scribani era arcisicuro di trovarsi davanti a una potentissima strega, protetta da Satana con cui infinite volte la malefica si era incontrata ai sabba.
Che importava se la famiglia di Franchetta, perché ricca, era riuscita ad affiancarle un avvocato, circostanza impossibile per tutte le altre streghe giudicate dall’inquisitore genovese? Lo Scribani ben si guardò dal prendere in considerazione le timide proteste dell’avvocato: Franchetta – affermò l’avvocato – è stata denunciata da streghe e, in quanto tali, donne malefiche intenzionate a far del male; le loro testimonianze quindi dovevano essere nulle. E ancora: Franchetta non poteva aver partecipato ai sabba, che altro non sono che sogni e illusioni di povere pazze.
Scribani invocò i fondamentali testi di stregologia, in primis il Malleus maleficarum, respinse la difesa e si sbarazzò dell’avvocato.
Non si stancò di torturare Franchetta. Franchetta non pianse durante la tortura e questo confermò a Scribani la sua stregonesca natura, perché aveva imparato, lui, dal Malleus e dagli altri testi di demonologia, che una torturata rivela di essere strega quando le è impossibile spargere lacrime. Affermano illustrissimi teologi che lacrime e Satana non possono coesistere. Non pianse, anzi rise, Franchetta, durante i tormenti. Scribani si stupì, si dichiarò esterrefatto, sbalordito per quelle risate che scuotevano Franchetta Borelli straziata alla corda o al cavalletto. È evidente che con quelle risate diaboliche Franchetta firmò la propria condanna: chi se non Satana che è in lei può ridersela dell’inquisitore?
Intervenne la famiglia, decisa a riprendersi Franchetta ormai distrutta dai tormenti del cavalletto e del fuoco ai piedi. Il fratello di Franchetta, Quilico, propose allo Scribani una cauzione di mille scudi, esattamente il doppio della cifra versata dal comune di Triora per tutto il processo, fin dall’inizio. Scribani accettò. Rilasciò Franchetta.
Qualche giorno dopo, Franchetta fuggì. La polizia, con Scribani alle costole, la cercò inutilmente nei boschi intorno a Triora. Lo Scribani fece arrestare i suoi garanti, cioè il fratello e tale Buzzacarino.
Poco tempo dopo Franchetta ritornò a Triora, chissà da dove, e si presentò al giudice: che lasciasse libero suo fratello. Cosa che lo Scribani eseguì immediatamente.
Franchetta venne nuovamente rinchiusa in carcere.
Quello straziante 19 settembre
Era ormai settembre. Il giorno 19 di quell’anno 1588 l’interrogatorio di Franchetta venne messo a verbale. La firma è del notaio Giovanni Antonio Valdelechia. Nell’intestazione del documento si legge: «Costituto dei tormenti dati a Franchetta Borelli supposta strega, il 19 settembre 1588».
Mentre l’autunno arrossava i boschi intorno a Triora e faceva maturare le castagne, Franchetta rispose come poteva alle domande di Giulio Scribani, interrogata una prima volta senza tortura, ma nella camera dei tormenti.
Le viene chiesto se finalmente si è decisa, con tutto il tempo avuto a disposizione per pensare, a dir la verità.
Franchetta risponde che la verità l’ha sempre detta. Scribani le ricorda che aveva cominciata a dirla la verità, poi si era fermata. Che continui, adesso.
Franchetta risponde: «Allora avevo la febbre e non sapevo che cosa stavo dicendo».
Vista l’ostinazione dell’imputata Scribani ordina che sia spogliata, rasata dei capelli e di tutti i peli del corpo.
Dopo esser stata rivestita con un largo camicione di tela bianca, Franchetta viene sollevata da terra e collocata sul cavalletto. La tortura ha inizio.
Nel supplizio del cavalletto, Franchetta dice queste parole: «Aiutami signore Iddio, dammi aiuto e conforto... calatemi, la verità l’ho detta... tu sai chi sono, Iddio, che i giudici non possono saperlo... stringo i denti e diranno che rido. Ahi, le mie braccia! Aiutami Signore e non mi abbandonare che non ho altro conforto che Dio!».
Poi Franchetta supplica: «Calatemi, che se io non ho detto la verità Dio non mi accetterà mai in paradiso».
Viene lasciata sul cavalletto. La tortura continua. Franchetta dice: «Il cuore mi manca. Signore mandami l’angelo del cielo che mi guardi e che mi difenda. Calatemi che la verità l’ho detta. Se non mi calate adesso mi calerete morta. Mi manca il fiato. Signore mandami l’angelo del cielo. Cristo che potete più di chi mi ha falsamente accusata, traetemi l’anima dal corpo e mandatela dove deve andare».
E tace. Poi dice: «Il cuore mi si schiatta. Il Signore non mi lascerà fino a giorno perché manderà a pigliare la mia anima».
Implora l’inquisitore: «Signor commissario, fatemi dare un poco di aceto di vino».
Le viene dato un bicchierino di vino e dice: «Misericordia vi domando, misericordia. Mandatemi giù e datemi un poco da bere».
Le viene dato un altro bicchierino di vino. Chiede un uovo, le viene dato un uovo.
Continua la tortura per cinque ore, durante le quali non dice nulla. E ancora non dice nulla e non si lamenta se non dopo undici ore di tortura quando Scribani le chiede di dire la verità, che poi sarebbe stata deposta dal cavalletto.
Allora dice: «Ah, il mio cuore, ah, la mia testa! Mi volete fare calare, signor commissario?».
Scribani la esorta a dire la verità. Franchetta dice: «Ah, signore, l’ho detta».
Poi tace e dopo altre dodici ore di tortura dice: «Io sono scorticata. Ah, Dio, il mio collo!».
E dopo tredici ore di tortura dice: «Datemi un poco d’acqua che muoio di sete».
Scribani le chiede se voglia del vino e lei risponde di no. Le viene data dell’acqua e tace.
Poi dice: «Non vedo più chiaro, tanto che sono storpiata negli occhi e nelle mani, e il mio corpo se ne è tutto andato!».
Scribani ribatte: «Non è tempo di aggiustare il corpo, ma di dire la verità e aver cura dell’anima».
Franchetta risponde: «L’anima è la prima. Di grazia fatemi slegare».
Scribani dice: «Di’ la verità e ti farò slegare e deporre».
Franchetta risponde: «Io l’ho detta. Non riesco più a trattenere l’orina. La verità, la verità l’ho detta. Se poteste vedere l’animo mio!».
Dopo quattordici ore di cavalletto, le vengono date, senza slegarla dal supplizio, delle uova fresche mandate da suo fratello, Quirico.
Le beve e dice: «Le braccia non le potrò più aggiustare. Guardatemi come ho la lingua. Per amor di Dio fatemi calare per farmi un po’ respirare».
Scribani la esorta a dire la verità e allora avrebbe potuto essere calata e respirare a suo piacere.
Franchetta risponde: «Signore fatemi calare, ché io l’ho detta. Mi sento schiattare il cuore. Lasciatemi dare aiuto, che la verità l’ho detta. Ahi, qualcuno mi aiuti un poco! Siete ben crudeli tutti. È possibile che nessuno mi voglia dare un cucchiaio che mi possa cacciare nella gola? Signore datemi fuoco ai piedi e levatemi di qui».
Scribani la ammonisce di dire la verità, che se non dice la verità fino a quando è sul cavalletto «ben si ponerà al fuoco».
Franchetta risponde: «Fatemi bruciare, che quanto a me la verità l’ho detta. Fatemi levare di qui che non ci posso più stare. Non fatemi più disperare. Prendete una mazza e datemela sulla testa. Levatemi dagli affanni. La verità l’ho detta. Vergine Maria, fatemi slegare e fatemi dare un poco di aiuto».
Scribani le ripete di dire la verità che poi la farà non solo slegare, ma anche deporre dal cavalletto.
Franchetta risponde: «La verità l’ho detta. Ahi, Madre, il cuore mi si schiatta! Fatemi calare, che la verità l’ho detta. Misericordia, il cuore mi manca. Ahi, che a Roma il cavalletto non dura se non otto ore! E io ci sono sul cavalletto da una notte e non so quante ore del giorno».
Chiede ancora, Franchetta, di non venir più tormentata, ripete per l’ennesima volta di aver detto la verità. Dice che le si gelano i piedi e Scribani ordina di porle sotto i piedi della brace.
Franchetta dice di aver visto un topo, ma nessuno dei presenti lo vede. Poi si rivolge al commissario e ai suoi assistenti, come se stesse conversando seduta comodamente in un salotto e parla delle belle castagne marroni dei boschi di Triora.
Uno degli uomini che assistono alla tortura si sta rattoppando le scarpe e Franchetta si rivolge a lui: «Per i servigi che mi state facendo conviene bene che se potrò uscire di qui vi accomodi le calze».
Continua a chiacchierare del più e del meno per oltre un’ora, sempre in tortura. Poi tace, e dopo diciannove ore e mezzo dice: «Questo vento non è molto buono per le castagne». Uno degli assistenti le risponde che ormai a lei non può più venirne gran danno. Franchetta ripete che gliene può venire di danno, eccome.
Chiede una minestra di pangrattato. Gliela danno, imboccandola, senza slegarla.
E quando uno degli assistenti guarda l’orologio, lo deride: «Cosa state a guardare l’orologio, cosa importa un’ora più, un’ora meno?».
Dopo ventitré ore di tortura, Scribani le dice: «Franchetta, da starvi due o tre ore più o meno, non vi importa, vero?».
Lei risponde ridendo che avrebbero dovuto calarla due ore prima e se ne sarebbero accorti se le importava.
Scribani si rende conto che la tortura era stata applicata inutilmente, poiché poco o nulla Franchetta se ne preoccupa. Si decide a ordinare che la torturata sia slegata, deposta dal cavalletto e ricondotta dalla camera del supplizio nella sua cella.
La fine senza fine
Franchetta Borelli non confessò mai di essere strega. Il notaio Giovanni Antonio Valdelecchia sottoscrisse il verbale dell’interrogatorio, che Scribani mandò al governo genovese.
Il giudice Pietro Allaria-Caracciolo redasse a sua volta il suo parere, il 26 settembre, cioè sette giorni dopo l’inizio della tortura di Franchetta Borelli.
Nella sua relazione, fra l’altro si legge: «...fosse per me castigherei tutti i delitti che ogni giorno nel mondo si commettono. Sottoporrei chiunque a tormenti, frugando nel corpo umano, fino a quando non riuscisse a cavarne una confessione. È mia convinzione, infatti, che ogni persona, in un modo o nell’altro, commette delitti da castigare e reprimere».
Alludendo a Giulio Scribani, inquisitore incapace, Caracciolo deplora che le torture applicate a Franchetta Borelli non l’abbiano indotta a confessare di essere strega. Esorta a usare nuovi tormenti «squisiti e inusitati» per strapparle la verità.
Conclude infine: «La ragione di questo mio scritto tanto severo è di aver visto che ella si fa beffe e ride dei tormenti, né patisce; il che mi induce a credere che ciò proceda da malie e arte magica». E suggerisce di esorcizzare Franchetta Borelli prima di metterla di nuovo in tortura. Secondo Caracciolo, l’esorcismo sottrarrebbe la strega alla demoniaca potenza anestetica di Satana.
Non sappiamo se Franchetta Borelli sia stata di nuovo torturata, secondo il consiglio del Caracciolo.
Di Franchetta Borelli non si parla più. Alcuni storici ritengono che sia stata messa in libertà, altri che sia stata mandata al rogo come strega. Ma queste sono supposizioni, mancando i documenti relativi. Analogamente non si sa più nulla neppure delle donne di Triora che vennero rinchiuse come streghe nel carcere di Genova.
Ma per Franchetta e per queste donne il destino inevitabile sembra essere stato quello del rogo.