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DA ERBAIOLE A STREGHE, 1370-1428
«Io ti scongiuro, o stella...»
Il 19 settembre, giorno di fine estate in cui Franchetta Borelli iniziò il suo supplizio nella camera delle torture in Liguria, fu bizzarramente un lugubre anniversario: a Parigi in quello stesso giorno ma centonovant’anni prima, e cioè il 19 settembre del 1398, uomini dotti e di chiesa affollarono la facoltà di Teologia, dove si erano dati convegno.
Una sacrosanta preoccupazione segnava i loro volti e oscurava le loro menti, già tanto impegnate a metter freno alle eresie che stavano sconciando la Chiesa. Ognuno di loro sapeva che gli eretici non sono altro che strumento del Diavolo, che all’antico patto fra il Signore e l’uomo avevano sostituito un patto osceno con Satana, con cui peraltro copulavano.
Che di eretici, fino a quel giorno, se ne fossero bruciati sul rogo già a migliaia, nella devota Spagna come negli altri paesi europei, compresa la Francia, era un fatto. Come giudicare adesso la magia, si chiedevano i teologi a convegno, la magia che è altra lebbra dello spirito e da un paese all’altro stava dilagando non solo fra il popolo ma anche nelle corti? Non era anch’essa eresia, come già aveva predicato nel lontano 1235 papa Gregorio IX, dichiarando che le arti magiche – e con esse i riti pagani legati alla terra e alla natura – non potevano che essere ispirati da Satana? E nel 1318 non aveva forse il papa Giovanni XXII ordinato ai giudici di Carcassonne, covo di eretici, di estirpare con la massima severità anche la razza maledetta dei maghi «che in questi tempi moderni ormai pullulano»? Appollaiati sui loro scranni, alcuni teologi obiettarono che quello stesso papa si era fatto prestare, a ogni buon conto, un talismano magico dalla contessa Margherita di Foix, potentissimo antidoto – a quanto assicurava un famoso mago – contro i veleni. Altri teologi zittirono i maliziosi e ricordarono che al venerabile papa si doveva la bolla Super illius specula, che nel 1326 indicava nella magia la presenza indubbia del Diavolo.
Non conosciamo già – si dissero tutti insieme i teologi di Parigi, approvandosi l’un con l’altro – il Diavolo dei sabba ereticali, con le sue zampe da caprone, la coda ritta per farsi baciare le parti immonde dai suoi adepti? Non è lui, sempre quello, ad assoggettare maghi e streghe perché sottraggano potere alla Chiesa convincendo i più che solo con la magia, e non con la preghiera, è possibile sfuggire al mare di guai di questa valle di lacrime?
Dopo lunghe accanite e accorate discussioni, i teologi riuniti a Parigi stilarono una particolareggiata “determinazione”, di ben ventotto articoli. La sostanza del loro pensiero fu che tutti i riti sottratti alle pie mani degli uomini di chiesa implicavano un patto con Satana; bestemmiava chi invocava il Diavolo, ne cercava l’amicizia e l’aiuto, e tentava di avere i demoni al proprio servizio mediante formule magiche, incantesimi od oggetti maleficati; ed era errore e bestemmia servirsi della magia sia pur per scopi non malvagi o per combattere altre magie; ed era in errore e bestemmiava chi avesse affermato che magie e incantesimi sono tutte frottole, perché avrebbe così negato sacrilegamente l’esistenza di Satana e i suoi straordinari poteri. Satana esiste, eccome. E se l’eretico è il suo adoratore, la strega è la sua serva.
Fu così che a Parigi, in quel 19 settembre 1398, i teologi fecero della guaritrice la strega. Indicarono agli inquisitori gli attrezzi della tortura. Approntarono l’acciarino che avrebbe dato alle fiamme le fascine di innumerevoli roghi.
Le guaritrici a cui il popolo si rivolgeva per aver sollievo dei suoi mali – nel corpo e nel cuore – vennero bollate come strumenti del Demonio; le erbe mediche diventarono artifici del Diavolo; la conoscenza millenaria che queste sagge donne possedevano su quanto la natura offre per sanare l’uomo venne degradata a insegnamento di Satana.
L’idea che la donna manipolatrice della medicina avesse stretto con il Diavolo un patto di sangue mise radici sempre più profonde nel cervello degli inquisitori. E se fin dai tempi antichi la strega era ferocemente punita dalle leggi dello Stato, ancor più straziata fu dall’inquisitore e per più di tre secoli da quel giorno di settembre, a Parigi.
Fra quel Giovanni papa – che affidava a un talismano la speranza di scampare ai cibi avvelenati dai suoi oppositori – e i teologi del 19 settembre scorrono circa sessant’anni in cui la distanza fra eretico e strega si accorciò vertiginosamente fino a fondere agli occhi della Chiesa una figura con l’altra.
La confusione era comunque ancora grande nel cielo dell’Inquisizione se nel 1363 i giudici piemontesi, senza sognarsi di invocare eresia o patto con il Diavolo, si limitarono a multare con la bella cifra di 40 fiorini un tal Antonio Carlavario che studiando un libro magico era riuscito a scatenare una tempesta di grandine su Pinerolo; e a Orta, intorno al 1350, il vescovo di Novara Giovanni de Plotis dovendo giudicare una strega non sapeva che pesci prendere, al punto da rivolgersi a Bartolo di Sassoferrato, il famoso giureconsulto e consigliere dell’imperatore Carlo IV. La strega aveva confessato di aver calpestato la croce, di aver adorato il Demonio, di aver fatto morire alcuni bambini solo toccandoli, di guarire con erbe malefiche; andava giudicata in quanto eretica – chiedeva il vescovo – o in quanto strega? Se eretica, visto che era pentita, non andava forse assolta? Ma come cavarsela se si fosse pentita anche in quanto strega? E che farsene soprattutto, a questo punto, della faccenda del patto con il Diavolo, che a quanto avevano assicurato i teologi veniva stipulato con Satana sia dall’eretico sia dalla strega?
Tre processi esemplari si susseguirono a Modena, a Reggio Emilia e infine a Todi, e avrebbero schiarito non poco le menti di chi si sarebbe trovato a giudicare le streghe.
Benvenuta Benincasa, 1370: «... ispirata dal Demonio»
Soprattutto le donne si rivolgevano a lei, in quella Modena della metà del 1300. Benvenuta detta la Mangialoca, grande guaritrice, fra i modenesi era più nota e ammirata dello stesso Dante Alighieri, che nel 1321 moriva a Pomposa, non lontano da Modena, esattamente dieci anni dopo la nascita di Benvenuta; o di Giotto, che in quel secolo angelicava le chiese con i suoi affreschi e Firenze con il campanile; o di Petrarca e Boccaccio, immortali poeti trecenteschi.
Se l’immortalità su questa terra è la futura memoria di un nome e di un destino, immortale sarebbe diventata anche Benvenuta Benincasa, conosciuta come Mangialoca, dal nome del suo primo marito. A Benvenuta non accadde di trapassare i secoli per la sua fama di guaritrice, come forse le sue straordinarie capacità avrebbero potuto far sperare. Non diventò famosa per ciò che sapeva e faceva, come fu per tanti uomini del suo tempo. Fu secolo di genialità, quello, e di lotte all’interno della Chiesa già corrosa dalle eresie. Di guerre fra i sovrani, le cui sanguinose ostilità fecero strage fra i popoli di tutta Europa. E secolo di peste, infine, la “morte nera”, che nel 1348 assediò in Italia città e campagne cavando l’anima a poveri e ricchi.
Tragicamente, Benvenuta continuò a vivere fino a oggi nei documenti dell’Inquisizione che riportano il suo nome in data 1370, conservati negli archivi di Stato a Modena. Accusata dalla Chiesa in quanto colpevole di «magia ereticale», due parole che si sarebbero ben presto fuse in quell’unica e terribile: strega. E il suo è un processo esemplare.
Se gli eretici venivano bruciati a misura dei loro crimini da quella Inquisizione fondata dalla Chiesa di Roma intorno al 1300, se le streghe vennero perseguitate dalle leggi dello Stato e quindi dai giudici civili fin dai tempi più antichi, in Benvenuta l’Inquisizione colpì la guaritrice, dichiarandola creatura di Satana. Fece di lei un monito. Fu lei la prima – per i documenti che ci sono pervenuti – di quella sterminata schiera di donne alla quale sarebbero appartenute anche le streghe di Triora.
Ignara della fama sinistra che avrebbe accompagnato il suo nome, ignara del colpo che l’Inquisizione avrebbe inferto al suo destino, Benvenuta attraversava la Modena estense, serena e schiva, percorrendo nelle sue belle vesti la strada dalla sua grande casa di donna benestante fino alla chiesa di San Felice. Qui accendeva ceri ai santi che la proteggevano e alla Vergine Maria, di cui era devota. Se si levava qualche sussurro al suo passaggio non si trattava di pettegolezzi – come fu per Franchetta Borelli –, ma di parole ammirate; camminava circondata da un luminoso alone di stima e di rispetto; era stata lei a guarire donna Agnese che non poteva più alzarsi dal letto folgorata da paralisi, lei a salvare quel bimbo reso muto da un eretico scomunicato, lei a ricongiungere con le sue straordinarie pozioni mariti e mogli lacerati da dissidi che parevano insanabili. Era lei, in definitiva, a guarire anime e corpi.
Non badavano, Benvenuta e neppure coloro che da lei erano stati risanati, alla crescente indignazione che stava ribollendo fra i medici, evitati ormai anche dalle ricche famiglie: chi di loro avrebbe mai potuto eguagliare quell’arte della guarigione in cui Benvenuta era assoluta maestra? Lo si conosceva, in Modena, il coraggio con cui una dama dell’alta società aveva sfidato don Lazzaro di Predassolo, il severo mansionario del duomo. Confessandosi da don Lazzaro, la dama aveva elogiato Benvenuta per aver risanato suo figlio con il suo potente sapere.
Don Lazzaro, che sarebbe poi divenuto uno dei più tenaci testimoni contro Benvenuta, in quel processo che ancora aveva da venire, sobbalzò nel confessionale, e ammonì la donna: sapeva o non sapeva che era spaventoso peccato, contro Dio e tutti i santi, rivolgersi a chi compiva incantesimi? La guaritrice Mangialoca non poteva che essere ispirata da Satana per compiere le sue mirabolanti guarigioni! Venne rimbeccato prontamente: non si trattava – assicurò la dama – di incantesimi, né di diavolerie, andassero a quel paese coloro che in donne come Benvenuta vedevano la maga! Quanto a lei, se don Lazzaro esigeva la promessa di non rivolgersi più alla Mangialoca, faceva volentieri a meno dell’assoluzione, e pazienza se non avesse più potuto comunicarsi: per niente al mondo avrebbe rinunciato a Benvenuta se qualche altra malattia avesse colpito lei o la famiglia, e mai e poi mai avrebbe preferito correre da un medico che non arrivava neppure alla caviglia di Benvenuta, lui e tutti quelli della sua genia. La donna interruppe la confessione e se ne andò, piantando in asso don Lazzaro.
Si ignora se l’audace interlocutrice del sacerdote abbia pagato per quella sua ribellione a favore di Benvenuta e contro la Chiesa, tanto simile a quella di tanti cittadini che insorsero contro i frati della chiesa di San Domenico, nella Bologna della fine del Duecento, dopo aver assistito impotenti e commossi ai roghi di eretici, donne e uomini, fra cui Bompetro, amatissimo e venerato dal popolo.
Quanto a don Lazzaro, raccolse un’altra sconvolgente confessione da una donna che aveva sofferto gravi pene d’amore perché tradita dal marito. Di nuovo il buon sacerdote inorridì perché la donna gli confidò la sua riconoscenza per Benvenuta, che le aveva restituito marito e passione, e quindi la felicità. Benvenuta le aveva consigliato un semplice rito: prendere una foglia di salvia e la penna di un’oca giovane con cui scrivere sulla foglia il nome del marito, ma intingendo la penna nel sangue del dito anulare; poi porre la foglia sotto la pietra consacrata dell’altare; infine ridurre la foglia in polvere e darla da mangiare all’uomo.
Altre guarigioni
Benvenuta aveva avuto due mariti, il primo morto non si sa come. Poiché la sua fama di guaritrice fu straordinaria, si crede sia morto per incidente, caduto da cavallo o folgorato dal fulmine. Non fosse stato così, Benvenuta lo avrebbe risanato, come risanò tutti gli altri, a Modena e dintorni.
Era guidata dal suo sguardo, Benvenuta. Uno sguardo fatato che le permetteva di vedere oltre la materia, un magico sguardo penetrante che leggeva in ciascuno le vicende della sua vita, gioie e dolori compresi, e i suoi mali. Sguardo caritatevole e affettuoso, di chi sa risanare. Davanti a Benvenuta ognuno sapeva di essere guardato realmente e nel profondo, sia che fosse stato affatturato, sia che avesse vissuto esperienze di quelle che segnano per sempre, come quell’uomo di Bologna che per tutta la vita si portò addosso il terrore provato attraversando un fiume. Benvenuta con il suo sguardo “vide” quel terrore, come “vedeva” nell’affatturato il colpevole della fattura.
Diagnosticò, con quello sguardo, che donna Agnese di Modena, figlia di tale De Pisce, giaceva paralizzata perché vittima di una fattura. Come sapeva di dover fare per sua intima e antica conoscenza, si preparò devotamente a risanare la sua paziente.
Per prima cosa Benvenuta accese candele benedette davanti alle immagini dei santi, che teneva in un angolo della sua stanza. Recitò dieci Pater e dieci Ave Maria. Si stese poi sul letto – la procedura era identica ogni volta che si preparava a risanare – e cadde in una sorta di sonno popolato di sogni. Nei sogni si fece strada la figura del mezzadro di donna Agnese, mentre poneva sotto il letto della donna un osso dal potere malefico, «messo a sedere» come spiegò al processo «al modo in cui siedono gli esseri umani».
Al risveglio Benvenuta si affrettò ad avvertire donna Agnese. L’ancella trovò l’osso sotto il letto della malata, e per l’orrore che ne emanava quasi svenne, quando lo prese per buttarlo via, secondo l’ordine di Benvenuta. Donna Agnese migliorò ma non guarì del tutto: la parte destra del corpo restò paralizzata. Benvenuta ripeté per sei giorni il suo rito, accese candele, pregò, sdraiandosi poi sul fianco destro prima di sprofondare nei sogni. Al sesto giorno sognò di nuovo il mezzadro e lo vide porgere alla sua padrona la metà di una moneta. E fu la metà di una moneta che Benvenuta trovò nel letto della paziente, nascosta sul lato destro. La gettò via. Donna Agnese guarì completamente.
Non solo dallo sguardo Benvenuta viene guidata nell’arte di guaritrice, ma anche da una stella che la tutelava, fin dal giorno della nascita. Una buona stella che irradia su di lei una luce splendente e salvifica, per proteggerla dai demoni e per aiutarla a comunicare con gli spiriti, i defunti, al solo scopo di rendere la salute e, se possibile, anche la felicità ai malati e ai sofferenti, a chi ama e non è riamato, a chi viene maltrattato, a chi patisce nella ragnatela di rapporti umani brutali e avvilenti.
Con formule devote o magiche, con pozioni o infusi di quelle erbe di cui conosceva ogni segreto, preceduti dal rito iniziale delle candele benedette, delle preghiere e del sonno visitato da sogni veritieri, Benvenuta continuò a guarire per anni i suoi pazienti.
Invocava san Geminiano, patrono di Modena e grande esorcista. Non poteva immaginare che la devozione al santo patrono sarebbe stata un’altra delle fondate ragioni che avrebbero indotto l’inquisitore a condannarla.
Quando Pietro Todeschini – uno dei tanti uomini che divennero pazienti di Benvenuta – cominciò a smaniare e andar fuori di senno, Benvenuta incaricò sua moglie, donna Todesca, di mandare tre donne nell’orto a estrarre ognuna un finocchio facendosi il segno della croce e recitando tre Pater e tre Ave Maria. Sotto ogni gambo di finocchio ognuna delle tre trovò un pezzetto di carbone, come aveva previsto Benvenuta. Secondo le sue indicazioni i finocchi tagliati in tre parti vennero posti in una pentola senza acqua, insieme ai tre pezzi di carbone. Mescolando lentamente andava mormorata tre volte una formula magica.
Pietro Todeschini non si ristabilì: anche a eccelse guaritrici come Benvenuta può accadere di fallire. Non per questo la sua fama ne fu intaccata. I familiari di Pietro non ricorsero a un medico ma si rivolsero al mago modenese Giovanni Navi. Giovanni invocava demoni dall’aspetto spaventoso – ben diversi da quelli miti e solari di Benvenuta – e simili nel loro terrorizzante aspetto a quelli cui si rivolgeva quell’altra maga, Maddalena Lapi, dopo essersi seduta, con i capelli sciolti, in un cerchio tracciato sul terreno. Altri maghi, streghe e stregoni popolavano Modena, non abili e rinomati come Benvenuta, ma che avevano ciascuno la propria specialità.
Confidente e guaritrice di donne
A quanto risulta dai documenti del processo contro Benvenuta Benincasa, erano soprattutto le donne a rivolgersi a lei. Donne di città e di campagna, umili o altolocate, tutte a lei ricorrevano per invocare guarigione dalle malattie proprie, dei figli o dei mariti, per trovare non solo conforto, ma senz’altro rimedio a quelle pene che la vita infligge nel corpo e soprattutto nei sentimenti.
Avevano tutte fiducia in lei, donna di campagna e di città, essendo figlia di Corradino Benincasa, proprietario di edifici nel contado di Modena ma anche di terreni, e non pochi, che dava a mezzadria. Aveva fratelli notai e colti, fra cui quel Pietro legato addirittura alla famiglia estense che reggeva la città. Nota quindi, per nascita, alle famiglie modenesi più abbienti e in vista, ma nota anche in campagna, dove aveva vissuto da bambina e dove era tornata a vivere con il primo marito, quel Giovanni Mangialoca, notaio, anch’egli proprietario di molte terre. E da signora viveva Benvenuta, non esigendo mai danari per le guarigioni che operava: risanava per buon cuore, per generosità, per compassione del sofferente. Guariva perché il Signore le aveva donato doti prodigiose e perché aveva imparato ogni arte magica e delle erbe dal suocero. Era notaio, costui, e capace di «cose mirabili», chino la notte a consultare certi libri magici, e non importa se venne sepolto in terra sconsacrata, avendo, oltre alla magia, praticato l’usura.
Le donne ricorrevano a Benvenuta perché era esperta della vita, lei che dopo la morte di Giovanni – pur non sapendo leggere e scrivere – era riuscita a difendersi dall’avidità della suocera e a rientrare in possesso di averi che quest’ultima aveva tentato di sottrarle. E di uomini e di faccende d’amore doveva ben saperla lunga, avendo avuto due mariti; e il secondo fu Francesco figlio di ser Vandino de’ Orti, ricco di beni immobili, che la sposò nel 1346, in maggio, e la portò a vivere di nuovo in città nella elegante zona della Pioppa. Forse perché, per qualche sua virtù di cui non sappiamo, il primo marito Giovanni Mangialoca era famoso, con il nome di Mangialoca Benvenuta visse la sua arte di guaritrice.
Le donne si curavano da lei e con lei si confidavano fino a rivelarle eventi intimi, come fece Olivia, moglie di Ugolino Magnanini, che venne a piangere da Benvenuta quando padre Paolo Zamboni tentò di violentarla e, non riuscendoci, la affatturò facendola ammalare. Benvenuta la confortò e la guarì con certe sue erbe, che raccoglieva in campagna.
Nei documenti del processo si legge anche il nome di Benvenuta da Nirano. Con una zuppa di cavolo venne fatturata da una cognata litigiosa, e da quel momento vagò del tutto impazzita per i boschi, resa muta dal maleficio. Benvenuta guaritrice intervenne, individuò la responsabile della fattura, ricondusse la donna impazzita a casa, la risanò usando anche erbe medicinali, e le rese la parola.
Benvenuta raccoglieva le pene di quelle che vivevano in continua rissa con il marito, di quelle innamorate ma rifiutate e di quelle trascurate, tradite o picchiate dai mariti. Benvenuta insegnava loro come far innamorare un uomo, come legarlo a sé, come riconquistare il marito o l’amante, e come farsi amare dall’indifferente.
Gli accusatori
Fu di nuovo don Lazzaro di Predassolo, della chiesa maggiore, uno dei testimoni contro Benvenuta al processo, a riferire all’inquisitore le pratiche che queste stesse donne gli avevano raccontato nel confessionale. Benvenuta le aveva rese di nuovo felici in amore suggerendo questo rimedio: ungersi labbra e lingua con l’olio santo e così unte baciare l’uomo amato. Il piccolo rito amoroso era stato accompagnato da preghiere prima di dare e ricevere quel bacio fatale. Benvenuta richiedeva anche alle infelici in amore che le portassero qualche oggetto comunemente usato dall’uomo amato, una cintura, un indumento, che lei esaminava con cura e su cui recitava certe sue formule magiche.
Inoltre, riferì don Lazzaro all’inquisitore, la Mangialoca insegnava alle sue clienti una pozione infallibile per riaccendere l’amore dell’uomo, ed era un miscuglio di sangue mestruale, e meglio se mescolato con uguale porzione di sperma, in aggiunta a una certa erba curativa. Il tutto doveva venir dato da mangiare all’uomo amato in una pietanza abituale. Ogni volta il rimedio si dimostrò efficace: le donne che da don Lazzaro si confessavano riferirono di essere finalmente e di nuovo amate dai loro uomini e questo – dicevano – non certo per le decine di candele accese in chiesa, ma grazie alla Mangialoca e alla sua pozione. Non dimostrava forse Benvenuta di non credere, e arrogantemente, che il sangue mestruale avesse poteri sinistri o malefici come era comunemente noto, o inaridisse le piante, facesse morire le api, arrugginisse i metalli e mandasse in caglio il latte appena munto e facesse ammalare il bestiame, cosa accertata dai tempi più antichi? Benvenuta, al contrario, riteneva che il sangue mestruale fosse sì potente ma benefico, almeno quanto lo sperma, e con esso mescolato desse risultati più che sicuri per far battere un cuore disamorato di rinnovata passione. Come giungere a tanto se non con qualche incantesimo o magia?
Don Lazzaro di Predassolo e quell’altro ecclesiastico testimone contro Benvenuta che fu il rettore della chiesa di San Barnaba a Modena riferirono all’inquisitore di aver raccolto numerosissime se non sterminate confessioni di donne grate e profondamente riconoscenti alla guaritrice Mangialoca, che a ognuna aveva restituito l’amore. Per non parlare di tutte quelle madri che da lei, disperate, avevano portato i figli. Furono risanati tutti dalla Mangialoca con i suoi riti, di cui don Lazzaro riferisce. La Mangialoca consigliò a una di loro di andare a prendere dell’acqua di sorgente e di portarla a casa guardandosi bene dal parlare con qualcuno. L’acqua andava bollita insieme a un mucchietto di cenere raccolto in tre punti diversi del focolare. Andava poi colata attraverso un lino e con essa bisognava fare un bagno al bambino. Di cenere andava cosparsa la sua testa e per tre giorni e tre notti la madre non doveva lasciar solo il figlio neppure per un istante, fino alla sicura guarigione.
E che dire di quella donna che per guarire il figlio, su indicazioni della Mangialoca, si era procurata da nove vicini altrettante misure di farina? Aveva cotto una sorta di focaccia, vi aveva praticato un foro al centro, allargandolo fino a riuscire a farvi passare più volte il corpicino malato del bambino. Il bambino era guarito. Inoltre, se la Mangialoca aveva reso la parola con le sue pozioni a un bambino reso muto dalla presenza malefica di un eretico scomunicato, non era forse evidente l’intesa della rinomata guaritrice con il Diavolo, intesa simile a quella di cui gli eretici erano colpevoli?
Da ben sedici anni ormai la fama della guaritrice Mangialoca aumentava; amplificata dall’indignazione dei due reverendi sacerdoti giunse infine alle orecchie dell’inquisitore Tommaso da Camerino, dell’ordine dei predicatori, uomo abile e di grande cultura, particolarmente esperto nello stanare eresie e demoni.
Si apre il processo
Il 24 settembre del 1370 Benvenuta Benincasa, detta la Mangialoca, venne chiamata nell’ufficio dell’inquisitore, nel convento dei frati domenicani, che nel centro di Modena sorgeva accanto al castello dei marchesi d’Este.
Si apriva così, in quel giorno di settembre, il processo alla presenza di Tommaso da Camerino, inquisitore, Nerio de Lecteri, Donino di Santo Stefano, Antonio da Bologna e altri, frati e assistenti dell’inquisitore. I verbali furono redatti e firmati dal notaio dell’Inquisizione Giovanni da Magreta.
L’accusa è di eresia ma Benvenuta sembra non rendersene conto. Orgogliosa della propria arte di guaritrice, colma di dignità, sostenuta dalla certezza di essere protetta dal Signore, Madonna e santi, essendo lei donna pia, si prepara serena a rispondere all’inquisitore.
In quella sala del collegio dei domenicani lei sola è donna.
Chi la giudica, dall’inquisitore al notaio, sono uomini, compresi i testimoni.
L’inquisitore è deciso a farla condannare. Le voci raccolte su Benvenuta sono più che sufficienti per svelare in lei l’eretica e la strega. Non ha forse bisogno di torturare la donna. Tommaso da Camerino fa ancora parte di quella schiera di inquisitori dotti, capaci di condurre una donna che non sa leggere né scrivere fino alle soglie di una condanna certa e non con il supplizio. Tommaso sa di essere fin troppo abile nell’arte che regola il susseguirsi delle domande, e che siano subdolamente capziose e disseminate da trabocchetti.
Il processo si svolse in otto udienze. Otto giorni in cui Benvenuta fu interrogata in quella sala, e se iniziò a rispondere tranquilla e fiduciosa che ogni sua parola potesse suscitare nell’inquisitore ammirazione per la grandezza della sua arte di guaritrice e per la sua fede, si ritrovò alla fine dell’interrogatorio convinta ella stessa di aver agito nel nome del Demonio. Ammise ogni colpa, davanti a quell’inquisitore che le suscitava tanta soggezione e che era riuscito a metterla con le spalle al muro, ammise di aver compiuto opere diaboliche e di aver gravemente peccato contro il Signore. Della guaritrice detta la Mangialoca alla fine del processo non rimase più nulla, spazzata via dall’Inquisizione in quegli otto giorni di interrogatorio, tra il 24 settembre e il 7 ottobre dell’anno 1370, a Modena.
Le prime quattro udienze
Da un lato Benvenuta e la sua innocenza. Dall’altro l’inquisitore che la sa lunga sull’eresia e sulla magia. Da un lato Benvenuta tanto consapevole di risanare nel nome del Signore da dichiarare subito candidamente all’inquisitore come aveva guarito donna Agnese. E parla dei sogni e parla dello sguardo fatato, del soprannaturale sguardo con cui “vede” oltre la materia.
L’inquisitore le chiede come possa avere questi poteri.
Benvenuta risponde che è stato Iddio a darle una simile grazia.
L’inquisitore le chiede quale sia l’ultima volta che si è confessata.
A Pasqua, risponde Benvenuta. E nella chiesa di San Felice.
Si chiude così la prima udienza.
Si ignora se Benvenuta sia stata rinchiusa in carcere o sia stata lasciata libera di tornare a casa propria, per ripresentarsi alla prossima udienza.
Il 26 settembre, nella seconda udienza, qui ricostruita in base ai verbali, Benvenuta è invitata di nuovo a giurare di dire tutta la verità.
L’inquisitore chiede come sia lo spirito che Benvenuta vede nei suoi sogni rivelatori.
Benvenuta – che aveva parlato di un uomo e non di uno spirito – ripete che si tratta di un uomo che le si presenta con gran fracasso, e a cui lei comanda di rivelarle malie e identità del responsabile di fatture. Lo spirito – e qui Benvenuta si convince a usare lo stesso termine usato dall’inquisitore – lo spirito dunque, dice Benvenuta, le ubbidisce. Ella ne è padrona.
INQUISITORE: Ma è sicura Benvenuta che gli spiriti le dicano la verità ?
BENVENUTA: No, spesso mentono.
Ma lei prega di nuovo obbligando così lo spirito a ubbidirle.
INQUISITORE: Lo spirito è buono o malvagio?
BENVENUTA: Crede che lo spirito sia diabolico.
INQUISITORE: In che giorni Benvenuta opera le guarigioni?
BENVENUTA: Si astiene la domenica e il lunedì, giorno in cui prega e va in chiesa.
INQUISITORE: Perché si astiene?
BENVENUTA: Perché in quei giorni prega con particolare devozione.
INQUISITORE: Chi le ha insegnato a operare guarigioni?
Benvenuta risponde che le ha insegnato il suocero. Parla dei libri che il suocero leggeva la notte, e dai quali imparava a compiere «cose mirabilmente orribili».
Nella terza udienza l’inquisitore chiede per prima cosa se Benvenuta sappia leggere e scrivere. No, risponde lei.
INQUISITORE: Non crede Benvenuta di peccare quando invoca gli spiriti per risanare i suoi pazienti?
BENVENUTA: No, è ben sicura di non fare peccato, anzi! Risanare è opera buona.
Com’è possibile, replica l’inquisitore, che sia cosa buona invocare gli spiriti se la Chiesa lo vieta come eresia?
Benvenuta è sicura di agire bene perché dagli spiriti impara a guarire coloro che soffrono perché malati.
L’inquisitore dovette escludere che la donna non conoscesse i termini entro i quali si muovono eresia e magia. Era senz’altro presente anche lei, come lo fu fra tanti Pietro Todeschini suo amico e paziente, nella chiesa dei frati predicatori quando dieci anni prima, nel 1360, venne letto dal pulpito l’editto che condannava eretici e loro complici. E non era diffusamente noto ormai che eresia significava evocare spiriti, adorare gli astri, mangiare bambini, disseppellire morti, scatenare tempeste, fare sortilegi d’amore e non solo, stipulare con Satana uno scellerato patto?
Non commenta, Tommaso da Camerino, la risposta di Benvenuta ma le chiede se in confessione abbia spiegato per esteso al confessore quali siano i riti con cui opera le guarigioni.
BENVENUTA: Racconta tutto al confessore. Poi si ricrede: anzi no, non tutto. Solo in parte.
L’inquisitore le chiede da quanti anni eserciti. Sedici, risponde Benvenuta; e su richiesta dell’inquisitore fa i nomi che ricorda fra la schiera dei suoi pazienti. E anche i nomi di altri maghi e guaritrici di Modena, che compiono guarigioni ed evocano spiriti dall’aspetto terribile.
INQUISITORE: Si spaventa Benvenuta quando le appaiono gli spiriti maligni?
Benvenuta non nota che per la prima volta l’inquisitore usa il termine «maligno» unitamente alla parola «spirito». Risponde ingenua: no, lei non si spaventa, anzi i suoi spiriti le donano serenità e gaiezza, sono cortesi e gradevoli d’aspetto.
L’inquisitore le chiede con quali parole si rivolga agli spiriti. Ed è la seconda volta che le pone questa domanda.
Benvenuta questa volta aggiunge altri particolari e spiega all’inquisitore di rivolgersi agli spiriti con queste parole: «Io ti scongiuro in nome di Dio e di san Geminiano di dirmi chi sei». Non si rende conto neppure di usare anche lei ormai disinvoltamente la parola «spiriti».
INQUISITORE: Perché non opera le sue guarigioni la domenica e il lunedì?
Benvenuta ammette che crede di far del male a operare le sue guarigioni in quei due giorni del tutto dedicati alla preghiera. Il notaio Giovanni da Magreta non scrive nei verbali del processo se, a questo punto, la gravissima ammissione di Benvenuta abbia intagliato nel volto dell’inquisitore il sorriso della volpe che sta per azzannare la gallina appena acciuffata. Ma è evidente, ormai, che l’inquisitore ha sgretolato la sicurezza con cui Benvenuta si era presentata a lui il primo giorno, del tutto serena con se stessa perché assolutamente convinta di far solo del bene con le sue guarigioni. Se guarigioni e preghiere sono incompatibili, non è forse evidente che l’intesa di Benvenuta guaritrice non è certo con i santi ma con il Demonio?
Nella quarta udienza, il 28 settembre, l’inquisitore interroga Benvenuta sulla figura di don Paolo Zamboni e su come avesse aiutato donna Olivia. Benvenuta risponde in dettaglio anche sul modo in cui ha proceduto per altre guarigioni.
L’inquisitore le chiede di nuovo se prova paura davanti agli spiriti che evoca per farsi aiutare nei risanamenti e di nuovo Benvenuta risponde di no: quegli spiriti sono gradevoli e di bell’aspetto.
INQUISITORE: In quale luogo le appaiono quegli spiriti?
BENVENUTA: Davanti all’immagine sacra a cui rivolge le sue preghiere.
INQUISITORE: Cosa dicono gli spiriti quando le appaiono?
Benvenuta di nuovo risponde che gli spiriti le si rivolgono come a una padrona che dà loro ordini.
E nello stesso giorno spiega anche come abbia tentato di guarire Pietro Todeschini.
Verso la fine
Il giorno 30 di settembre, nel capitolo della chiesa dei frati predicatori, l’inquisitore ascolta le testimonianze di don Lazzaro di Predassolo e del rettore della chiesa di San Barnaba in Modena. Entrambi riferiscono dettagliatamente le confessioni raccolte da numerosissime donne che si sono rivolte a Benvenuta.
Nello stesso giorno ha luogo la quinta udienza, in cui Benvenuta conferma le deposizioni dei due illustri prelati che hanno testimoniato contro di lei.
La sesta udienza ha luogo il 1º ottobre.
INQUISITORE: Con quali formule invoca Benvenuta i suoi demoni – e qui la parola «spiriti» viene dall’inquisitore sostituita con «demoni» – visto che è risaputo che i Pater e le Ave Maria li fanno fuggire?
Questa volta Benvenuta ammette di usare una formula che nulla ha a che fare con le preghiere di un devoto cristiano: «Io ti scongiuro, o stella, che con me nascesti, che con me vai e con me vieni, che con me mangi e bevi e dormi e giaci, io ti scongiuro di andare al purgatorio o all’inferno e di portarmi uno spirito che vada dove io voglio». E quando la stella le porta uno spirito diabolico, Benvenuta chiede a questo spirito come risolvere fatture o malie.
INQUISITORE: Che aspetto ha questo spirito?
BENVENUTA: Ha l’aspetto della persona che ha compiuto la fattura.
INQUISITORE: Crede Benvenuta che questo sia peccato contro la fede cattolica?
BENVENUTA: Sì, lo credo.
INQUISITORE: Ha mai fatto doni ai demoni, Benvenuta?
Benvenuta ammette di preparare per loro scodelle di cibo che lascia negli angoli della casa. I demoni vengono a prendere il cibo e lo portano via.
Non solo quindi, Benvenuta esorcizza – operazione concessa esclusivamente agli uomini di Chiesa – per liberare chi sia stato colpito dalla maligna influenza di un demone, ma esegue riti all’uso pagano, offrendo cibo a questi stessi demoni. Infine adora, proprio come gli eretici e prima di loro i pagani, un astro – la sua stella – che la accompagna di giorno e di notte.
La settima udienza vede Benvenuta ormai vinta dall’inquisitore.
INQUISITORE: Ha insegnato a qualche donna come essere amata da un uomo?
Benvenuta parla dell’olio santo, sottratto in chiesa, con cui la donna deve ungersi bocca e lingua e poi baciare il disamorato.
INQUISITORE: Ha mai visto operare altri maghi?
Benvenuta ammette di aver visto Giovanni Navi e Maddalena Da Lapo esercitare la loro arte.
INQUISITORE: Chi ha liberato da malie, Benvenuta, oltre i nomi già citati?
BENVENUTA: Una donna fatturata che liberai facendole vomitare peli di pube.
Il giorno 7 ottobre, nell’ottava e ultima udienza, Benvenuta confessa di aver fatto ingerire mestruo e sperma agli uomini e sperma alle donne per attuare i suoi malefici d’amore. Confessa che quando un giorno si fece il segno della croce, gli spiriti diabolici fuggirono. Confessa che il suocero evocava diavoli e spiriti. Confessa che, davanti alle immagini sacre, gli spiriti da lei evocati non aprono mai gli occhi.
La sentenza
Lunga e circostanziata è la sentenza che Tommaso da Camerino stilò dopo la conclusione del processo. Descrive Benvenuta come donna «malignissima e perversa, turpemente ingannata dai suggerimenti del Demonio», che ha perso la sua anima e quella di altri compiendo delitti gravi e pericolosi e scatenando «scandalo enorme».
Leggendo la sentenza può venire il sospetto che Benvenuta sia stata torturata. Tommaso da Camerino scrive che Benvenuta fu interrogata «giudizialmente con giuramento e altre pene temporali e spirituali», vale a dire con pene che feriscono la carne e l’anima. E se così non fu, bastò la sagacia e la cultura di Tommaso per inchiodarla.
L’inquisitore riferisce ogni domanda e risposta del processo, secondo i verbali del notaio, e aggiunge che tutte le colpe compiute da questa maledetta donna – guarendo ed esorcizzando demoni – sono ancora enormemente più gravi poiché operava i suoi malefici senza mai confessarsi al sacerdote ma continuando a comunicarsi regolarmente.
L’inquisitore aggiunge di aver lasciato un certo tempo alla Mangialoca, dopo la conclusione del processo, per permetterle di portare prove a propria difesa. Specifica che nessuna prova venne esposta dall’imputata.
Sottolinea che il processo venne esaminato attentamente da lui stesso, insieme a uomini dotti sia in diritto canonico sia secolare, e con il beneplacito di don Aldovrandino d’Este, vescovo di Modena.
Sostiene di voler addolcire il rigore della giustizia per cui la pena imposta è la seguente: la malefica donna dovrà indossare immediatamente una veste con due grandi croci gialle, una sul petto e la seconda sulla schiena, portare la veste ovunque vada e non togliersela fino a decisione contraria; deve portare sulla testa una mitria «di irrisione e di ignominia», indossarla ovunque vada e non togliersela fino a decisione contraria; far piena confessione dei propri peccati davanti al vescovo. Seguono pene aggiuntive di preghiere e di digiuni, di messe da ascoltare, di prediche da seguire. E questo per tutta la vita.
Benvenuta nell’abiura riconosce ogni colpa, giura di sottostare in toto alle pene ricevute, di non tentare di fuggire. Giura e promette per l’avvenire di non invocare più demoni, di non fare fatture, di non liberare nessuno da malefici, riconoscendo che queste sono operazioni illecite per la Chiesa cattolica.
Giura e promette infine – rinnegando la propria arte di guaritrice e quindi il proprio personale universo – di non occuparsi mai più di medicamenti, né per se stessa e neppure per altri. A garanzia del giuramento pone tutti i propri beni.
Benvenuta indossò la veste con le croci gialle. Mise sul capo la derisoria mitria. Dimenticò tutto ciò che sapeva su erbe, formule e medicamenti.
Della guaritrice che fu non rimase più traccia.
La malefica di Reggio Emilia: 1375
La vergogna, il patimento, l’esclusione sociale e soprattutto quel venire espropriata del proprio sapere furono le pene che schiacciarono Benvenuta Benincasa. Da rispettata e amata che era, Benvenuta si ritrovò nella Modena del 1370 marchiata a vista dalle due croci dell’obbligatoria veste e ridicolizzata dalla mitria in testa a scherno delle proprie supposte capacità: una mitria grottescamente simile a quella dei pii uomini di Chiesa autorizzati da Dio, loro, a compiere esorcismi.
La storia delle donne perseguitate come streghe viene letta nei pochi verbali dei processi giunti fino all’epoca attuale, scritti da uomini dell’Inquisizione. Nessuna voce di strega arriva fino a noi se non quella distorta dalla paura e dai supplizi delle risposte date ai sapienti inquisitori. Si ignora quale fosse la vera voce di tutte e, in questo caso, di Benvenuta.
Evitò strazi più feroci o il rogo perché fu processata in anni in cui nella mente dell’inquisitore non si era ancora ben strutturata la procedura antistregonesca. Gli autori del Malleus maleficarum non erano ancora stati neppure concepiti – per fortuna di molte donne di quell’epoca – e con loro il fondamentale protocollo degli interrogatori delle streghe. Se in certe regioni d’Europa le streghe venivano spedite al rogo dagli inquisitori civili a braccetto con quelli ecclesiastici, in altre le serve del Demonio se la cavavano con poco, o meglio, per dirla con Tommaso da Camerino, veniva loro riservato un trattamento misericordioso che addolciva la pena.
L’alba del 19 settembre 1398 non aveva ancora incupito il cielo dell’Inquisizione, per quanto esso fosse già segnato dalla bolla del superstizioso papa Giovanni XXII.
Ma se i tempi al limite dell’apertura della caccia alle streghe furono benevoli con Benvenuta inquisita da un tribunale ecclesiastico, non altrettanto accadde a Gabrina degli Albeti della vicina Reggio Emilia viscontea, che il 13 luglio 1375 venne portata in tribunale ma davanti a una corte civile presieduta da un vicario del podestà.
Del Diavolo e del patto da lui stipulato con la strega non importava granché a questo tribunale laico, che aveva raccolto dal popolo notizia della fama crescente di Gabrina come fattucchiera. Lei si riteneva guaritrice e come tale era nota. Che cosa potevano essere, per chi la giudica, i suoi medicamenti, le sue erbe e le rassicuranti formule sussurrate mentre somministrava i suoi farmaci, se non esercizio di magia, vietata dalle leggi civili? Che poi violasse, Gabrina, anche le disposizioni canoniche, tanto meglio, se questo ulteriormente giustificava la condanna. E soprattutto servisse la sua pena per tenere a bada quanti credevano di alzare la testa, attribuendosi un potere che doveva essere solo dei medici o dei preti. In effetti, l’inquisitio – vale a dire l’atto dell’istruttoria, e solo quello, fino a noi sopravvissuto negli archivi di Reggio – giudica Gabrina colpevole di essere stata deliberatamente istigata da un demone, per operare contro Dio e a danno delle anime. Da notare che se di anima parla un tribunale civile, la sua distanza da quello ecclesiastico rischia di essere meno di una pagliuzza.
Gabrina non guariva per danaro. Il suo operato venne appesantito da questo suo fare gratuito: per pura scelleratezza la malefica incantava donne e uomini, dichiararono i giudici. Per che altro, se non si faceva pagare?
Erano le donne soprattutto a cercarla, come a Modena avevano cinque anni prima cercato Benvenuta. Come Benvenuta, Gabrina era consolatrice e confidente, guaritrice e ricca di consigli per quelle innumerevoli sciagure del minimo quotidiano che rovinano una vita se intrecciata di affetti, amori, patimenti, paura, speranze, e soprattutto – perché no? – desiderio di essere felici.
Padrona di un mondo sommerso
Come confidare al prete tutto quello che circola nel mondo femminile? Che se ne fa il prete della paura di restare gravida, di venire tradita, di non essere amata, di perdere l’amore di chi si ama, della pena per il figlio che rischia di morire, o per l’uomo assente, indifferente o peggio ancora manesco? Gabrina non suggeriva preghiere, che poi a voler vedere lasciano il tempo che trovano, forse perché il Signore ha troppo da fare, per non parlare dei voti e delle candele benedette. Gabrina, come Benvenuta, sa ascoltare, conosce la vita, sa essere madre, medico, amica, sorella, compagna, complice, sempre solidale, mai malfida. Comprende, lei, il senso della speranza. Lei sa che l’amore è importante almeno quanto la morte, cosa che il prete sembra non voler capire: che si alzino gli occhi al cielo – esorta il prete – e si accetti la nostra croce, per molti, e in quei tempi grami, croce quotidiana assai più del pane.
Gabrina, come Benvenuta, non esorta alla rassegnazione. Lei, come Benvenuta, interviene. In effetti fu questa la sua gravissima colpa, fu questo lo scandalo di cui si rese colpevole.
E chi cerca di sfuggire a Dio, aggirando il proprio destino infame con l’aiuto di una guaritrice di tutti i mali, figurati se non cercherà di sottrarsi anche al potere delle leggi. La convinzione profonda di giudici laici e di Chiesa, fu, in definitiva, questa. E questo fu il senso della volontà con cui gli uomini dell’apparato temporale ed ecclesiastico perseguitarono le «streghe»: con quei roghi si insegnava al popolo ad appecorarsi ben più efficacemente che con una costosa e complessa repressione.
Benvenuta giunse al processo con l’accusa di eretica pravità. Gabrina si ritrovò più avanti nell’orrido percorso che conduce al rogo: l’accusa fu di essere «donna malefica».
Rimedi orribili e sesso diabolico
L’inquisitio che portò Gabrina alla sentenza riferisce che non poche furono a Reggio Emilia le persone degne di fede che testimoniarono contro di lei. La colpa di Gabrina fu quella di essere erbaiola, raccoglitrice di erbe medicinali con l’aiuto delle quali tesseva i suoi malefici. Null’altro che malefici potevano essere le sue pozioni, dato che i giudici non riconoscevano a esse alcuna virtù risanatrice. Va da sé che a un certo frate di Siena, tale Filippo autore intorno al 1400 degli Assempri, sembrasse necessario e utile scrivere nel suo testo che tutte le erbaiole altro non sono che streghe e come tali vanno punite, essendo esse veri e propri «medici del Diavolo che dan da credere che quello che Dio non vuol fare, esse possono farlo e con l’aiuto del Demonio».
A Gabrina e non al Padreterno infatti – come è scritto nell’inquisitio – si rivolgeva quella Franceschina Avanzi tradita dal marito, che l’abbandonò e se ne andò a vivere in casa dell’amante. Franceschina pianse e si disperò, ma la guaritrice Gabrina le suggerì un rimedio infallibile che rivelò al processo e che il cancelliere estensore dei verbali riporta come diabolica instructione: strappare i peli delle proprie gambe, raccogliere le unghie tagliate del marito, e porre il tutto nel cuore di una gallina nera. Così farcito il cuore va infilato nella vagina e con questo impasto trattenuto nel proprio corpo, nella natura, come scrive il cancelliere, Franceschina deve fare nove passi tenendo una candela benedetta accesa. Poi polverizza il tutto, lo mescola a una pietanza che dà da mangiare al marito, quando viene a trovarla. Il che accadde. Il marito abbandonò l’amante e tornò da Franceschina.
Uguale rimedio – confessò Gabrina – venne consigliato ad altre donne e sempre con successo: Lisabetta Bottacci riconquistò il fidanzato e una ragazza innamorata di un uomo che la ignorava lo ammaliò a tal punto da farsi sposare. Ricorse anch’ella al cuore di gallina nera farcito e riposto per un certo tempo in sua vituperosa natura, come scrive il cancelliere, che questa volta sfoggia un ironico disgusto definendo epulum delicatum l’intruglio arricchito da umori vaginali, propinato come pietanza all’ignaro marito.
A un marito che picchiava e insultava la moglie, saggiamente Gabrina consigliò decotti di camomilla da far bere al violento, e ancora camomilla consigliò ad altre donne che si lamentavano di mariti maneschi, ma che avrebbero voluto riconquistare. Fu qui che la placida camomilla assunse significati diabolici, grazie alla dotta valutazione dei giudici di questo processo in data 1375. L’infuso offerto al marito doveva infatti venir accompagnato da un gesto: ...mulier poneret manum ad vulvam, deinde ponere ad os suum...; la donna doveva porre una mano nella vagina, poi, così inumidita, sulla propria bocca, e quindi baciare il marito, già rabbonito dalla camomilla.
In quei tempi la Chiesa più che mai si ingegnava a controllare, regolare e reprimere la sessualità delle sue pecorelle, e una donna che suggerisse a mogli e innamorate di infilarsi le dita ad vulvam con quel che segue, era, oltre che scandalosa, indubbiamente diabolica.
Sentenza e pena di Gabrina
Aggravò la posizione di Gabrina la sua confessione di avere insegnato alle donne altri rimedi per conquistare un uomo, fra cui quello di ungersi la bocca con l’olio santo prima di baciarlo. Si rendeva in tale modo gravemente colpevole di un delitto intollerabile per la Chiesa: faceva uso del Sacro per scopi profanissimi. Si aggiunga l’istigazione all’omicidio, per aver consigliato a tale Giovanni de Ziponibus, disperato perché impotente, di giacere a letto con una donna ponendosi a fianco un pugnale con cui fosse stato ucciso un uomo.
Ancora una volta, come per Benvenuta, il tribunale si ritiene clemente per aver steso una sentenza che non infligge la morte: Gabrina degli Albeti fu condannata al taglio della lingua perché non diffondesse più il veleno della propria arte comunicandolo alle altre donne. Inoltre doveva essere marchiata a fuoco. Non si sa se sul viso – acciocché fosse in vista di tutti – o su una spalla.
Pochi giorni dopo il processo in quell’estate del 1375 a Reggio Emilia, Gabrina uscì dal tribunale marchiata a fuoco. Le venne amputata la lingua. Non a caso fu scelta questa pena: Gabrina non sapeva né leggere né scrivere.
Venne così ridotta al silenzio.
La strega di Todi: 1428
Cinquant’anni circa più tardi, in Umbria e per l’esattezza a Todi, il giorno 20 marzo 1428, con ben trenta capi di accusa, Matteuccia Francisci – erbaiola e guaritrice – si trovò imputata al “tribunale dei malefici”, alla presenza di Lorenzo de Surdis, conservatore della pace della città di Todi per incarico della Chiesa di Roma e di papa Martino V.
Novello Scuderij fu notaio e quindi cancelliere degli atti del processo, i cui documenti sono conservati nell’archivio di Todi. Uomo pignolo, questo Scuderij, che trascrisse ogni parola uscita dalla bocca di Matteuccia, comprese le lunghe filastrocche “magiche” che accompagnavano i suoi malefici. E doveva anche reputarsi artista se con minuzia – forse per ingannare il tempo in attesa dell’imputata –, sulla prima lettera che apre il documento, disegnò una testa di strega scarmigliata e dal profilo rapace. Tanto per far capire quale fosse fin da subito l’atteggiamento del tribunale verso colei che in effetti non era ancora stata giudicata colpevole. Epoca di spensierati frati disegnatori, questa del 1400 in Todi evidentemente, e di pregiudizi. Ma tant’è, visto che la strada dei processi alle streghe percorre i ben noti territori dell’intolleranza e della ricerca di un capro espiatorio purchessia. Sarà bene ricordare, fra l’altro, che il papa di cui si parla nel documento, Martino V appunto, concluse lo scisma papale che contrapponeva Avignone a Roma. Insediandosi con pieno diritto nella bella città sul Tevere, papa Martino V beneficò i «diversi» concedendo fra l’altro agli ebrei romani la cittadinanza. Ma le erbaiole, e con loro tutto ciò che attineva alla magia, non incontrarono certo la sua benevolenza.
Il notaio che illustrò la prima pagina del documento non poteva che disegnare una strega, dato che Matteuccia venne convocata non per «magia ereticale», come Benvenuta, e neppure per essere «malefica donna», come Gabrina. Piattamente e senza alcuna perifrasi, Matteuccia viene definita in apertura del processo come ...publicam incantatricem, facturariam et maliariam et stregam.
Strega fin da subito, lei.
Nell’arco di poco più di cinquant’anni, le donne guaritrici da eretiche diventano streghe. Ed erano gli anni, questi, in cui artisti come il Beato Angelico dipingendo Cristo e le sue sofferenze si commuovevano, a quanto dicono, fino alle lacrime: anni del primo Rinascimento, in cui il diritto era quello del più forte, il senso estetico rifiutava ogni principio morale e nessun peccato veniva reputato peggiore della stupidità.
Patto con Satana e sortilegi
Nessun dubbio per i giudici, su chi fosse Matteuccia, se in apertura del processo il notaio Scuderij accuratamente annota: quo dicte Matteuccia deum pre oculis non habendo sed potius jnimicum humani generis. Come poteva essere ascoltata se non con orrore, costei, davanti al cui sguardo non c’era Iddio ma il nemico del genere umano, e va da sé che si trattasse di Satana? Il patto diabolico fra donna e Demonio venne individuato, sa il cielo come, fin da subito.
In questa sinistra luce Matteuccia confessò l’infinita serie delle sue guarigioni, complete di formule magiche ma soprattutto di invocazioni a santi e alla Madonna, particolare quest’ultimo che aggravò la colpa dell’imputata. Dedicandosi alla guarigione di sofferenti, uomini e donne, Matteuccia mescolava con diabolica disinvoltura sacro e profano:
...per la Sancta Scriptura per la luna et per lo sole
per Dio nostro Signore, che tu mucci maladecta
e non ti folcere in carne benedecta.
Questo per cacciare una malattia dal corpo di un infermo. Ma se si trattava di vermi questa era la formula recitata da Matteuccia durante la preparazione di un decotto di aglio:
... Lumbrica Lumbricaia
che tieni core et anima
che tieni polmoncelli
che tieni fegatelli
... Sancta Susanna
di fore li manda
Sancta Jolecta
di fore li gecta
sancta Bruna
torna al culo
defore linne gecta
a uno a uno
...
Servendosi di ossa di morti sepolti senza battesimo Matteuccia confessò di aver «liberato» un uomo di Perugia, che si era addormentato sulla pietra di un sepolcro trovandosi al risveglio la testa e il petto infestati da spettri.
Similmente Matteuccia cavava gli spiriti malvagi dal corpo degli indemoniati, a sacrilega sostituzione dei santi esorcisti.
Capace come già Benvenuta e Gabrina di soccorrere non solo gli infermi ma i malati d’amore, mogli o innamorate o innamorati che fossero, anche lei era confidente centrale e indispensabile del mondo femminile, decisa a risolvere con la sua arte disgrazie e intoppi che si frammettessero fra un cuore amante e l’amore.
Un uomo disperato perché la donna che amava aveva sposato un altro, trovò nel consiglio di Matteuccia rimedio se non all’abbandono almeno alla gelosia: con una candela si recò là dove tre strade si congiungevano, e al centro del trivio pronunciò le parole che la guaritrice gli aveva insegnato: «Come si piega la candela in questo ardore, così sposo e sposa non si possano congiungere in amore». La candela da diritta che era si piegò allusivamente verso il basso, maleficando lo sposo, per cui il matrimonio non poté essere consumato.
A una moglie trascurata Matteuccia suggerì di dar da mangiare al marito un’erba detta cavallina. Il risultato fu tale che lo Scuderij annotò impassibile: «...e il suddetto marito si appassionò di lei così furiosamente che per tre giorni ininterrottamente con lei extitit».
Pratiche altamente illecite
Pecca anche lei, Matteuccia, come Gabrina e Benvenuta, di aver uno straordinario potere nel mondo femminile. E il mondo femminile già di per sé tende a sfuggire all’autorità ecclesiastica, da sempre convinta della connaturata abbiezione della donna. Figurarsi quando Matteuccia confessò – si ignora se in tortura o meno – di essere oltre che guaritrice e levatrice, anche colei che aiutava le sue clienti a evitare gravidanze indesiderate, come fu per certa Catarina del Castello della Pieve, nubile. Matteuccia consegnò alla ragazza come sicuro anticoncezionale un’unghia di mula da bruciare e ridurre in polvere e poi bere con un sorso di vino mormorando: «Io ti piglio in nome del peccato e del Demonio maggiore, che non mi possa appiccicare più».
E se a quei tempi più che mai l’unione fra uomo e donna era giustificata dalla Chiesa unicamente in vista di una sicura procreazione e in assenza di godimento e lussuria, questa di evitare ingravidamenti fu fra le colpe più gravi di Matteuccia. A cui si aggiunge l’invocazione a Satana, Demonio maggiore di tutti. L’orrore giunge l’apice con l’ammissione di Matteuccia di aver compiuto pratiche abortive.
A questo punto, nella confessione riportata dai documenti del processo, entra un nuovo dirompente elemento del tutto assente nei processi a Benvenuta e Gabrina: Matteuccia confessa di aver ucciso bambini e di averne succhiato il sangue. Confessa inoltre di volare di notte fino al malefico noce di Benevento insieme ad altre streghe, dopo essersi unta con un composto di grasso di avvoltoio, pipistrello e sangue di neonati. Ineguagliabile unguento, questo, per solcare l’aria, e qualche decennio prima che Leonardo da Vinci si rompesse la testa per tentare di mettere a punto un complesso macchinario capace di librarsi nel cielo.
Confessa infine di aver partecipato ai sabba ed è una delle prime volte che la diabolica e scandalosa orgia notturna appare nei verbali dei processi alle streghe. Confessa Matteuccia che un diavolo le si presentava in forma di capro – tal quale accadeva agli eretici – e lei stessa si trasformava in mosca, si reggeva con le zampine ai pelacci di quella groppa indemoniata e via a Benevento, in alternativa al volo individuale e da unta. Il notaio Scuderij annotò minuziosamente le descrizioni che Matteuccia fece del sabba: raduno di streghe, spiritacci malefici e diavoli, dove l’emozione grande era offerta dall’incontro con Lucifero in persona. Prima di oscene copulazioni collettive e baci immondi sotto la coda, Lucifero si prodigava in raccomandazioni, esortando le streghe a uccidere bambini, scatenare tempeste, disseminare il mondo di malattie e di miseria, via via in un crescendo di agghiaccianti malefici, davvero – bisogna ammetterlo – identici a quelli che in quei tempi frate Bernardino da Siena descriveva dal pulpito della chiesa maggiore di Todi. Veniva ascoltato a bocca aperta da gran folla, fra cui presumibilmente Matteuccia. Da dove altrimenti le sarebbe venuto un così vasto sapere sulle malefatte del Demonio? Bernardino, vivace e indefesso predicatore, venne fatto santo, ancorché inconsapevole ma efficace divulgatore fra popolo di città e contadini di quegli stessi riti satanici che le streghe in tortura avrebbero confessato incalzate dall’inquisitore. Che altro dire, povere donne, se non quello che avevano imparato in chiesa?
La sentenza
Per Matteuccia Francisci, la sentenza decise il rogo.
Il giudice Lorenzo de Surdis non ebbe dubbi, e come poteva mai averne dopo una simile serqua di demioniaci malefici?
Benvenuta indossò vesti ignominiose, Gabrina ebbe la lingua tagliata. Ma Matteuccia venne arsa.
Le infilarono in testa una mitria, le legarono le mani dietro la schiena, la posero a cavalcioni di un asino, ma rivolta all’indietro a guardare la coda della sua cavalcatura, mentre condotta verso il luogo del suo ultimo supplizio passava fra la folla.
Venne arsa viva, il 20 marzo 1428.
Quello stesso mattino era iniziato l’interrogatorio davanti al giudice. Quella stessa sera di Matteuccia non restarono che le ceneri.