Roy Hansen si premette le dita contro le tempie e si chinò sulla cunetta. Nell’asfalto rattoppato c’era un solco che dalla grondaia attraversava tutto il marciapiede. Le giunture gli scrocchiarono quando cadde in ginocchio e, tendendo in avanti le braccia, appoggiò la testa al muro. Diede di stomaco più volte. Il suo cervello cercava di registrare l’accaduto: Sebastian era stato rapito. Le domande gli si affollavano alla mente, come gelidi lampi di luce. Perché? Qual era il nesso? L’immagine di Vivian nel bosco, il suono del pianto di Sebastian. Che diavolo stava succedendo? Il poliziotto stava in piedi e lo fissava dall’alto in basso. Roy Hansen si alzò tremante, poggiando una mano alla parete per sorreggersi. «Non è stata mia madre», balbettò.
Cato Isaksen parlava al telefono. «Aspetta, Roger. Se non trovo nulla qui, dopo vengo direttamente a Konvallveien».
Entrarono nel cortile. «Dài Roy, coraggio».
«Mia madre non riesce a uscire da sola, ti ho detto». Roy Hansen sudava freddo. «Ha una broncopneumopatia cronica, e sono tre mesi che non vede i suoi nipoti».
* * *
Quando Marian sollevò lo sguardo, Juha stava fuori dalla macchina con Birka al guinzaglio. Nel cestino della bici aveva diversi attrezzi dentro una busta trasparente. Marian si sporse sul sedile laterale e aprì la porta. «Prendi quella roba e salta dentro. Sbrigati! Fai salire Birka di dietro. Questa vecchia bici non se la fregano di certo. Dopo puoi venire a recuperarla».