Dan scavalcò la cassetta degli attrezzi e uscì dalla buca dell’olio arrampicandosi su per la scaletta. Erano le nove di lunedì. Il centro commerciale stava aprendo in quel momento. Stringendo forte nel palmo il foglietto di carta con il numero di emergenza della polizia, attraversò l’officina e uscì. Sullo spiazzo con le pompe ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse osservando. Si fermò e si guardò sopra una spalla, ma non vide nulla di particolare. C’erano macchine e persone dappertutto, come sempre. Un uomo stava gonfiando la ruota con la pompa. Svoltò l’angolo e proseguì verso il centro. Attraversò le grandi porte a vetri come se fosse una persona qualsiasi. Passò accanto alla Moglie del fornaio e al monopolio degli alcolici, e si diresse verso le cabine telefoniche. Rispondeva con un cenno del capo se qualche conoscente lo salutava. Sorrideva a chi gli sorrideva. I box dei telefoni erano all’antica, con del plexiglas intorno a ciascuno dei tre apparecchi. Si guardò intorno, si avvicinò a uno di essi, si tirò giù la manica della tuta e prese in mano la cornetta. Nessuno doveva trovare una sua sola impronta. Così facevano in televisione. Infilò una moneta da dieci corone nel telefono e compose con mano tremante il numero della polizia. Quando una voce maschile gli rispose, dapprima non riuscì a dire nulla, poi deglutì, abbassò il timbro di voce, voltò la schiena ai negozi e disse brevemente che era stato un uomo di nome Klaus Bjone a uccidere Vivian Glenne. «Abita in Konvallveien 139». Prima che la voce all’altro capo potesse dire una parola, proseguì: «Quella sera l’ho visto uscire di corsa dal boschetto. Aveva un maglione rosso e una vanga in mano. Ah, e un’altra cosa: dovete esaminare la sua macchina: non la BMW, perché quella l’ha fatta sparire, ma la jeep», concluse, prima di riagganciare il telefono. Poi si guardò intorno e si diresse veloce verso le scale mobili. Voleva salire di un piano per poi uscire attraverso il garage coperto e tornare verso la stazione di servizio.
* * *
«Tra cinque minuti Ellen ci telefonerà per farci una specie di resoconto finale, Marian. Roger sta per interrogare nuovamente Willmann. Hai un’aria riposata, sai?». Cato Isaksen si lasciò cadere su di una sedia e allontanò da sé la pila di documenti che si trovava sul tavolo.
«Infatti sono riposata, Cato». Marian aveva dormito sette ore consecutive, quella notte. Sul tavolo della cucina c’era un bigliettino per lei, che diceva che nella casa verde tutto era tranquillo. Quindi Juha c’era poi andato lì, in bicicletta, a controllare. «Quelli di medicina legale ci stanno mettendo davvero troppo tempo», disse lei. «Anche se nega, ho l’impressione che Dan stia cercando di difendere il padre. È stata dura per lui, sabato nella Finnemarka. Mi sono accorta che era sollevato che non avessimo trovato Arne Colin Andersen. Forse hai ragione, potrebbe essere scappato. Se neanche le squadre di Drammen sono riuscite a trovarlo…».
«Che dici, è un anarchico? Che tipo arrogante. Dev’essere lui l’assassino. Henny Marie Aas dice che lei non sa dove si trovi, ma io invece penso proprio che lo sappia».
«Io penso che Dan abbia tolto di mezzo le lettere del padre. Ha qualcosa a che vedere con il ruolo materno, Cato. Gli esseri umani si propongono degli schemi. Sono dotati di buona o cattiva volontà. Alcuni fanno a botte con la vita e superano le difficoltà; altri falliscono».
«Ce le ha lui, quelle lettere?»
«Non lo so», mentì lei.
«Non ho proprio voglia di ascoltare predicozzi su buona e cattiva volontà e sulle madri». Cato Isaksen scacciò con la mano un bombo che andò a sbattere contro il vetro, e uscì fuori dallo spiraglio del finestrino.
«Vivian Glenne di certo non era cattiva, ma era immatura e senza freni. Si tratta di un argomento tabù, ma non tutte le donne sono buone madri», disse Marian. «Il reparto tecnico sta analizzando tutte le mail e robe varie, ma quello che dice Dan sul fatto che stava giocando ai videogiochi…».
«Io ho visto la cronologia sul suo computer, Marian. È stato a giocare per tutto quel lasso di tempo».
Il cellulare squillò. Cato Isaksen gettò un’occhiata a Marian e puntò i gomiti sul tavolo. Le fece un cenno. «È Ellen», disse, e guardò il foglio che aveva davanti, su cui aveva scritto la data, lunedì 18 luglio. «Capisco che avete lavorato durante il weekend, Ellen. Fammi soltanto un breve riassunto, poi potrai spedirmi tutti i dettagli via mail in seguito». Inserì il vivavoce. Il tono di Ellen Grue era limpido. «Bene, Cato. Vado dritta al sodo. La defunta aveva dell’alcol nel sangue; non molto, ma aveva bevuto due, tre bicchieri di vino, qualcosa del genere. La vanga è l’arma del delitto. Le ferite che aveva sono compatibili con la lama della vanga, e il momento della morte è stato fissato all’incirca alle 21:00. Quindi tutte le nostre supposizioni erano giuste. Su alcune foglie, i tecnici hanno trovato dei capelli che sembrerebbero non appartenere alla defunta. Non sono in numero sufficiente da poterne stabilire il colore, ma li abbiamo spediti a un altro laboratorio per farli analizzare. Abbiamo trovato anche altre tracce, ma come sai ci vuole un po’ di tempo per fare le analisi. Quelli di medicina legale sono particolarmente lenti, adesso in piena estate, ma stanno confrontando continuamente il profilo di Willmann con i risultati delle analisi, così vedremo se si tratta della stessa persona».
* * *
Birgit Willmann stava immobile nel negozio di scarpe, e aspettava di essere colta da una qualche emozione. C’era soltanto un’altra cliente, una madre con la figlia piccola. Gli espositori erano pieni di ogni tipo di calzatura. L’odore di cuoio le faceva prudere il naso. Erano passati quattro giorni da quando Vivian era stata uccisa, ma la polizia ancora non aveva trovato l’assassino. Infilò il piede nell’altra scarpa nera a tacco alto e si guardò nello specchio stretto e lungo. Fece qualche passo avanti e indietro. All’inizio non provò nulla, ma poi sentì un formicolio, una sensazione gradevole. Le scarpe le stavano bene, anche se i polpacci non erano dei più sottili e le caviglie erano robuste. Non aveva mai indossato scarpe coi tacchi alti. Si girò e gettò una rapida occhiata alle sue spalle. In tintoria non c’era nessun cliente.
«Queste scarpe sono un po’ strette», disse, girandosi nuovamente verso la commessa. «Sicuramente il cuoio man mano cederà, perché ho il piede un po’ largo e uso sempre i calzini».
Frank era ancora in cella. Non c’era bisogno che lei fosse obbediente. Eppure la sensazione di distanza non la proteggeva.
«Tu la conoscevi Vivian Glenne, no?». La commessa aveva capelli decolorati color platino, e un foulard legato a mo’ di fascia in mezzo alla folta capigliatura. «È davvero terribile questa faccenda. Qui da noi Vivian comprava tutto, le sue scarpe e gli stivaletti».
Birgit si girò e guardò di nuovo verso la tintoria. Adocchiò Dan che passava di fronte alla vetrina. Indossava la tuta da lavoro. Il senso di leggerezza che aveva provato fu rimpiazzato da un’improvvisa afflizione. Sentì un sibilo provenire da un qualche condotto nella parete dietro al bancone. Chiaramente era sbagliato provare un senso di felicità a così poco tempo dalla morte di Vivian. E poi che ci faceva lei con delle scarpe alte? Anche se ora era estate, le foglie sarebbero presto cadute dagli alberi, e metri di neve avrebbero coperto il paesaggio. Una volta tornata a casa quella sera si sarebbe bevuta un bicchiere di vino, oppure soltanto del caffellatte e delle fette di pane con lo sgombro al pomodoro, oppure pane e marmellata. All’indomani, Frank sarebbe dovuto andare da Colin. Di solito trascorrevano insieme quattro giorni: pescavano, montavano la tenda e bevevano. Frank sembrava sempre irrequieto, prima della partenza.