Klaus Bjone sedeva tutto solo nella saletta degli interrogatori e aspettava. Osservava i poliziotti che passavano nel corridoio fuori dalla parete di vetro, e dentro gli cresceva una rabbia sconfinata. Del terriccio dentro la macchina: roba da pazzi. Di certo erano stati loro, quei due ragazzi, a farlo. Adesso l’uomo aveva in mente un’unica cosa: la vendetta. Avrebbe fatto vedere a quei due piccoli delinquenti con chi avevano a che fare. La telecamera a circuito chiuso li aveva filmati. I ragazzi avevano rubato la sua pistola. Quello biondo abitava proprio in fondo alla strada. Suo padre, quell’idiota arrogante, era lettore presso il liceo. Bjone avrebbe sporto denuncia contro la sua famiglia. Ovviamente il figlio di Vivian aveva capito che lui aveva una relazione con la madre. Quella storia del terriccio della scena del crimine era stato il suo modo di vendicarsi. Se solo avesse saputo che rete di contatti aveva lui! Forse i ragazzini erano troppo giovani per essere punibili, ma in un modo o nell’altro avrebbe dato loro una lezione.

Cato Isaksen stava entrando nella saletta degli interrogatori quando il suo telefono squillò. Era Ellen. «Un nuovo elemento, Cato. Sai quella cosa che diceva Marian, che sembra che la terra nella macchina sia stata messa lì apposta? Potrebb’essere vero. Abbiamo fatto delle foto sia dal lato del guidatore che da quello del passeggero. La conclusione per il momento è che effettivamente c’è qualcosa di artefatto, come se fosse stata sparpagliata di proposito. E abbiamo trovato il filmato ripreso da una telecamera a circuito chiuso a casa di Bjone. Due ragazzini che se la svignano dal garage con un borsone. Eva Bjone dice che lei non sa chi siano, ma noi abbiamo stampato alcuni fotogrammi. Adesso vengo giù da Bryn in macchina, e te li porto».

 

* * *

 

Roy Hansen sedeva ancora una volta nella saletta degli interrogatori. Se ne stava lì a pensare a Sebastian che era riuscito a dire: «Baubau», e forse aveva detto anche: «Ciao». Nella stanza accanto era seduto un uomo dai capelli grigi che non aveva mai visto prima. Lo avevano portato lì per interrogarlo sempre a proposito di Vivian? Gli veniva voglia di strangolarlo. Guardò Marian Dahle che stava entrando nella stanza, e abbassò le spalle. Indossava l’uniforme da tassista, ma non pensava che ce l’avrebbe fatta a lavorare, dopo.

Lei lo guardò, e riepilogò tutto ciò di cui avevano già parlato. «Questo non è un interrogatorio formale: è soltanto un colloquio», lo tranquillizzò. «Ma perché non ci hai raccontato di non aver accettato le prime corse, la sera dell’assassinio? Gli indirizzi presso i quali avresti dovuto prelevare i clienti erano dalle tue parti; sarebbe stato perfetto per te fare a meno di dover scendere giù in città per poi cominciare a lavorare».

Roy Hansen si portò le mani alla testa. Pensò a Rita. Poco prima erano saliti al piano di sopra per controllare Sebastian che dormiva. «Ribadisco che non ne so nulla, di questa faccenda. Semplicemente non volevo che pensaste che ero coinvolto, in qualche modo. Ho fatto solo un giro in macchina nella mia zona per vedere se trovavo quella BMW».

«Per quanto tempo sei stato in giro?»

«Non per molto, forse dieci minuti. Anche meno. Volevo soltanto vedere se scoprivo dove abitava quel tizio. Non ci sono poi molte BMW in questa zona».

Marian lo guardò.

«E tu pensavi di trovare quell’uomo andandotene in giro a casaccio? Sembra a dir poco inverosimile!».

Lui la fissò negli occhi. «Ma tu non capisci». Vivian gli mancava talmente che gli doleva tutto il corpo. Gli mancavano il suo profumo, le sue braccia, il collo.

«Cos’è che non capisco?».

Sentì che non ce la faceva più. «Penso che Vivian mi tradisse», disse, e sentì che era andato ad arenarsi proprio lì, in quella stanzetta di quel grande, freddo edificio. Non ce l’aveva mai fatta a formulare quel pensiero fino in fondo. Ma adesso che l’aveva addirittura espresso a voce alta, vide che non suscitava alcuna reazione.

Marian lo guardò. Vide quegli occhi un po’ sporgenti. Roy Hansen sparì, si confuse con la parete che aveva alle spalle. Le era tornato il mal di testa. «Sai che ti dico?». Marian si alzò. «Puoi andartene pure. A casa, dai tuoi figli». Lo osservò per un attimo. «A proposito, come va con Dan?».

Lui tirò lentamente indietro la sedia. «Tutto bene, considerate le circostanze». Roy Hansen la guardò e cercò di capire cosa stesse pensando.

Marian ebbe la stessa sensazione che aveva già avuto prima: a Roy, quel figliastro non andava particolarmente a genio. Lei gli tese la mano e strinse la sua, fredda e umidiccia. Perché aveva le mani così fredde? «Come mai tua madre non è venuta alla commemorazione?», chiese Marian guardando la trama della stoffa della sua giacca.

«A mia madre non piace la confusione», disse lui, e uscì rapidamente dalla porta.

 

* * *

 

Cato Isaksen fece un cenno a Roger, come per dire che doveva andare a prendere Dan Glenne Andersen. Nello stesso istante in cui Roger usciva dalla stanza, entrò Marian. Cato Isaksen la fissò con uno sguardo che lei non riuscì a interpretare, ma subito dopo le cadde l’occhio sulle tre foto sparpagliate sul tavolo. A vederle le venne un dolore alla fronte. Era come se nella stanza non ci fosse più aria. Erano stati i ragazzi; avevano fabbricato una prova. Dan e il suo amico biondo, quello che era andato alla commemorazione. Ecco che Marian ancora una volta c’era arrivata prima degli altri, pensò Cato. Ciò che aveva detto su Dan e la torcia elettrica era vero. E che lui avesse un’aria da Criminal Minds: era vero anche quello.

 

* * *

 

Cato Isaksen fece scivolare una delle foto verso Klaus Bjone. Si vedevano Dan e un’altra persona, un ragazzino con la felpa e il cappuccio, accovacciati presso il muro di cinta del giardino di Bjone.

Klaus Bjone sentì che i ruoli si erano invertiti. Si appoggiò indietro e guardò a turno i due investigatori. Questa volta aveva perso. Ma non era ancora detto… La sera prima aveva fatto ordine, aveva trovato diverse cose che non avrebbe dovuto tenere a casa sua, e le aveva sistemate in una piccola valigia.

Marian atteggiò gli occhi in una specie di smorfia. «Perché non ci hai raccontato dei ragazzi, Bjone?».

Un freddo sorriso gli salì alle labbra. Quella cagna lo aveva cacciato davvero nei guai. «Una sgualdrina», disse, ma allo stesso istante si rese conto che era la parola sbagliata. «Mia moglie», disse un istante dopo, e sentì che le spalle gli scrocchiavano. All’improvviso si chinò in avanti e affondò il viso tra le mani. «Voi non dovete… i ragazzi, io sono corso in garage». Giocherellava con una briciola sul tavolo.

«Sai chi sono?». Marian parlava a bassa voce. Si accorse che quell’uomo si stava trasformando completamente. Come se fosse un santo che si stava ripiegando su se stesso.

Klaus Bjone sentiva la superficie fresca del tavolo sotto il palmo delle mani. Si ricordò di quando era corso in cantina e si era rintanato lì dopo aver appreso che suo padre si era tolto la vita. Gli aveva sfilato l’orologio e se l’era messo in tasca. In seguito i suoi fratelli lo avevano cercato, quell’orologio d’oro. Adesso si sentiva nello stesso modo. Quella sensazione si stava impossessando di lui. «Il figlio di Vivian… e quell’altro», sussurrò. Naturalmente Eva aveva capito tutto. Eva si era dimenticata di scongelare le cotolette per il pranzo. E ora gli sembrò che gli mancasse il fiato. Che dannato idiota era stato! Ormai erano nonni, lui ed Eva. A lei sembrava che la bambina le venisse affidata troppo di rado. Ormai la bimba era al centro dell’attenzione. Lui era abituato alla guerra, ma Eva era l’unica persona che si preoccupava di lui. E Vivian era morta. Era morta come una stella nella scura volta celeste. Le stelle si spegnevano continuamente, ma la loro luce continuava a brillare ancora a lungo. La loro distanza si poteva calcolare soltanto in termini di tempo. Chinò la testa e gli sfuggì un singhiozzo di tra le labbra, seguito da un gemito. «Lei… Vivian… non mi voleva più. Non mi voleva! Mi ha detto che non avevo mai significato nulla per lei».

Marian e Cato si scambiarono uno sguardo. L’uomo di fronte a loro era totalmente cambiato, come una pentola a pressione che finalmente aveva lasciato fuoriuscire uno sbuffo. L’altro ragazzo nelle foto doveva essere l’amico di Dan, il biondino che aveva partecipato alla commemorazione, pensò Marian.

Klaus Bjone si tirò su. Il suo viso assunse un’altra espressione. L’attimo del suo crollo era superato. Pensò alla guerra di cui era stato partecipe. L’aria secca che ti uccideva. Le giornate che si susseguivano, una dopo l’altra. Non era morto. Disse: «Dunque questi qua hanno versato il terriccio nella jeep per far sembrare che fossi io, l’assassino. Spero non abbiate pensato di lasciar correre. Questo è un reato gravissimo».

Il caso della donna sepolta nel bosco
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