Era come se qualcuno lo avesse scuoiato e poi lo avesse piazzato sotto a dei riflettori. Ogni movimento gli causava dolore. Roy Hansen aveva costruito una pista di blocchetti di legno insieme a Kenneth e Sebastian. Il bordo del tavolo era duro contro il suo fianco. La porta d’ingresso si aprì, e all’improvviso comparve Dan in cucina. Senza che fosse successo nulla, iniziò a perdere sangue dal naso. Un rivolo rosso acceso che scorreva a fiotti sul labbro superiore e intorno alla bocca.
«Che ti succede, Dan?». Roy sbatté la porta del frigo per richiuderla, strappò un foglio dal rotolo di carta da cucina che stava sul piano e glielo porse.
Dan prese la carta, buttò indietro la testa e se la premette contro il naso. «La polizia dice che devo andare con loro nella Finnemarka», disse tra i denti e si avviò su per le scale.
Roy lo seguì con lo sguardo. «Per quale motivo?»
«Per cercare papà, maledizione!».
Kenneth gli si precipitò incontro. «Ancora succo, papà, ancora succo». Il padre versò un po’ del succo d’arancia dal brick di cartone in un bicchiere.
«Puoi inventarti un troll, papà? Voglio fare un troll di plastilina». Kenneth aveva degli sbaffi di succo di frutta sul labbro superiore.
«Smettila immediatamente di fare le lagne!», urlò Dan. «Immediatamente!».
«Vai a vedere la TV, piccolo». Roy Hansen deglutì. «Ti puoi mettere seduto sulla mia poltrona, ma non correre in giro col bicchiere in mano, Kenneth».
* * *
Cato Isaksen era alla guida. Il semaforo passò da rosso a verde. La fila di macchine di fronte a lui cominciò a muoversi a singhiozzo. Cato sollevò il piede dalla frizione e diede gas. Marian poggiò le mani sulle cosce e distese le dita dalle unghie corte, allargandole. «Il mio problema è che vedo tutto così nitidamente. Le impressioni mi entrano dentro, e mi riempiono fino all’orlo».
«E cosa vedi?»
«Chiedimi piuttosto cosa non vedo. Dan sta tramando qualcosa». Marian prese il cellulare e inviò un SMS a Juha, dicendogli che doveva andare in bici dal benzinaio e ispezionare l’interno dell’officina. “Guarda dentro la buca dell’olio. Noi andiamo a prendere Dan”.
Cato Isaksen guardò lo specchietto retrovisore e frenò per non andare a sbattere contro la macchina davanti. «Sai, mi spaventi un po’, Marian». Il suo cellulare squillò. Lui si passò la mano sotto il mento. Era una specie di tic che gli era venuto. «Ciao Bente», disse, e si girò dall’altra parte. Marian ricevette la risposta di Juha: “No”.
Gli scrisse una replica: “Allora puoi pure fare le valigie”.
«No, adesso non ho tempo, Bente. Spero che i ragazzi stiano bene. Ma vengo sicuramente venerdì. Come stai? Sarai sicuramente bellissima, tutta abbronzata…».
Parlò per due minuti, poi chiuse la conversazione. «Mi manchi, Bente».
Marian lo guardò. Non le piaceva che parlasse con la moglie. «Avevo pensato di mettermi in malattia», disse. Nello stesso istante giunse un altro messaggio di Juha. “Ok, allora adesso vado”.
«Non puoi metterti in malattia, siamo troppo pochi. Ho bisogno di te, Marian. Tu vedi le cose da una prospettiva diversa… quel gruppo speciale di cui avevo parlato quest’inverno… ho pensato…».
Lei abbozzò un sorriso. Aveva detto «ho bisogno di te». Provò come un senso di calore. «Prima mi devi insegnare a scassinare le porte, Cato».
«E questa volta non metterti a fare il detective privato di tua iniziativa. Il fatto che tu abbia visto Dan…».
Lei lo interruppe. «Faccio già abbastanza fatica a trascinarmi al lavoro, in questi giorni. Non ho più energie di riserva. Penso a Dan e ai suoi fratellini. Occuparsi dei figli è una specie di gara a chi fa di più. La gente si aspetta che i piccoli vengano trattati con cura, che li si porti sulla schiena come fanno gli scorpioni».
«Fanno così, gli scorpioni?»
«Non lo so, forse ricordo male. Magari sputano sui loro piccoli e spariscono oltre una duna di sabbia. Io comunque non avrò mai figli».