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Il fucile era nel bagagliaio. Marian sedeva sul sedile posteriore, stretta a Jorunn Hagemann.

Cato Isaksen le guardò nello specchietto. Una aveva amato Martin Egge, l’altra l’aveva odiato. Un’amica e una nemica. Jorunn Hagemann era una donna che non sarebbe passata inosservata passandole accanto per strada. Il viso di Marian era pieno di graffi e sangue che era colato giù in rivoli sottili, dalla fronte e dalla guancia.

L’assassina si era trasformata in una creatura in fuga, appoggiata a Marian che le stringeva un braccio intorno, sola e con il respiro di una persona spaventata. Era stata smascherata e riconosciuta per quello che era: fredda e calcolatrice, una bugiarda patologica e una mitomane.

Marian strinse la presa intorno alla spalla della donna, e incrociò lo sguardo di Cato Isaksen nello specchietto retrovisore. Sulla guancia c’era una striscia color sangue che colava tra la barba vecchia di qualche giorno.

La macchina procedeva stabile sul terreno ghiacciato. Passò accanto al negozio distrutto dalle fiamme, con le macchine parcheggiate. Poi superò la casa con la ringhiera della veranda che ricordava un serpente dai colori sgargianti, e infine si lasciò dietro il buco nel ghiaccio del laghetto, proprio lì dove iniziava Kullebunnveien.

Cato Isaksen prese a parlare. «Ora è tutto passato, Marian. Prima il pronto soccorso, poi il debriefing».

«Io non ci vengo al debriefing, Cato». La sua voce era tranquilla. «Vado a casa da Birka».

«Il cane sta bene, Marian. Sono andato da te. Juha e Kari Helene se ne stanno prendendo cura».

«Sei andato lì?»

«Sì, qualche ora fa. Stavano guardando un video».

Lei deglutì. «Ti ricordi che una volta avevi promesso di insegnarmi ad aprire le porte col grimaldello, Cato?».

All’improvviso, un sorriso illuminò il volto di lui. «E ci pensi proprio adesso?».

Marian sentì una piccola risata che le saliva dalla pancia. Guardò fuori dal finestrino. Era tutto buio, un nero senza fine. Non si vedeva una luce a perdita d’occhio. «Me l’hai promesso, Cato. E le promesse si mantenone, analizzare come si sarebbe comportata al loro posto; però non era come loro. Martin era morto, ma si trattava soltanto della morte. E i morti non desiderano mica tornare. Non ne conosco il nome, ma lo chiamano morte. La morte era in agguato per tutti, da qualche parte, e ogni giornata era un pezzo del conto alla rovescia. Non era detto che la sua vita durasse a lungo. Ma l’estate sarebbe tornata. Con i riquadri illuminati dal sole sul pavimento del salotto e l’acqua turchese in piscina, con le foglie sugli alberi, il cielo di un blu terso e la rosa canina con i suoi rami maculati e i fiori rosa vicino alla scarpata. Adesso possedeva un giardino. La cosa prometteva bene.

Dolce come la morte
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