Tre mesi prima, ottobre

 

 

 

 

La donna corpulenta trascinava i piedi sul pavimento bagnato di pioggia. Il piumino senape dava al viso flaccido un colorito bianco-grigiastro. Gli stivali da neve erano sformati dall’uso. Le grosse cosce, sfregandosi a ogni passo, le divaricavano i polpacci.

Il brusio delle voci e il tintinnio della porcellana si mescolavano all’odore del caffè e dei soprabiti bagnati. Si sfilò un guanto tirandolo con i denti, aprì e chiuse un paio di volte la mano per sgranchirsi le tozze dita e gettò attorno una rapida occhiata. Gli occhi verdi erano incorniciati da ciglia folte e argentee.

Due signore anziane, una con indosso un cappello fatto a maglia e l’altra con un foulard di seta annodato al collo, sollevarono lo sguardo dalle tazze e la fissarono.

Un rossore si diffuse dai lati del naso verso l’esterno, sulle guance paffute della giovane donna. Sapeva che stavano parlando di lei, del suo aspetto e del suo peso eccessivo.

Le signore abbassarono lo sguardo, poggiarono le tazze sui piattini e si chinarono l’una verso l’altra.

In piedi davanti al bancone, la donna si scostò dalla fronte i capelli non molto puliti, né lunghi né corti, e osservò le torte e i cioccolatini che formavano delle piccole piramidi una accanto all’altra. Vide la propria immagine riflessa nel vetro.

Una giovane cameriera stava sparecchiando un tavolo. Le sarebbe tanto piaciuto ordinare un caffè con tre o quattro fette di torta. Aveva voglia di sedersi al tavolino libero vicino alla finestra, ma non ce la faceva ad affrontare gli sguardi degli altri clienti. Prendere un solo dolce di piccole dimensioni avrebbe semplificato di molto le cose, ma non sarebbe stata un’esperienza molto diversa. Era meglio mangiare le cose direttamente dal sacchetto mentre tornava a casa, così come faceva di solito, sempre che fosse riuscita a mantenere l’equilibrio.

Quando venne il suo turno, indicò una torta al cocco con noci tritate, e sollevò in aria due dita per indicare che voleva anche due muffin all’albicocca coperti di zucchero a velo. Mentre la commessa infilava i dolci in un sacchetto di carta, lei, imbarazzata, fissava un’invisibile macchia alla parete appena al di sopra della spalla della donna, che stava afferrando l’ultimo dolce con una pinza. D’un tratto le sfuggì di mano e si richiuse di scatto con un secco rumore metallico. Il dolce cadde, come in una scena al rallentatore, rimbalzò da un lato dopo aver colpito il ripiano più basso nella parte interna del bancone, e poi finì sul pavimento dove rotolò per un tratto. Lo zucchero a velo si sollevò formando una nuvoletta impalpabile. E fu in quell’attimo che tutto le tornò alla mente. Le particelle di zucchero per qualche secondo le ricordarono un’altra cosa nell’aria, ma poi il ricordo si dissolse e svanì. Dentro di sé sentiva l’eco della propria voce di bambina. Le immagini le attraversavano rapide la mente, brevi flashback si susseguivano come lampi di memoria. Lei che per prima lo aveva raggiunto, e che gli si inginocchiava accanto. La fitta di dolore che le aveva trapassato le ginocchia nel momento in cui avevano toccato terra. Era steso supino, con le labbra bluastre semiaperte. Il peso di lui contro il suo corpo. La testina di bebè che ciondolava, le braccia abbandonate nel vuoto. Come se fosse già morto. Era corsa con quel piccolo fardello verso la sua stanza. Lo aveva adagiato sul letto scostando la coperta, gli aveva sistemato il cuscino bianco sotto la testa, e gli aveva sollevato la maglietta per ascoltare il battito del suo cuore.

Non si sentiva nulla. Alla finestra si era formata una figura di cristalli di ghiaccio, come dei boccioli di rosa. Stavano tutti intorno a lei: Mayla, il padre e lo zio Hans. Il padre piangeva. Lei avrebbe voluto dire: «Guarda papà, è di nuovo vivo. Presto imparerà a camminare». Quelle manine minuscole, con le unghie bianche e il viso che non splendeva più come un sole, erano l’immagine della morte.

Il giorno seguente la madre aveva riposto tutte le sue cose: le magliettine, i pannolini e gli stracci furono rimossi dai ripiani dell’armadio e gettati dentro alcuni scatoloni. E il lettino con le sponde fu portato giù in cortile. Lì rimase a lungo, riempiendosi di neve, fino a esserne del tutto coperto, come fosse un piumino annerito dai gas di scarico, finché il sole non la trasformò in acqua che, a rigagnoli, colò verso il tombino tondo e sparì.

Dolce come la morte
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