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I pannelli di legno del piccolo ingresso emanavano un odore intenso. Fu colpito da un leggerissimo sentore di muffa. Gli odori erano lì per stimolare i sensi e far affiorare vecchi ricordi. Martin Egge entrò in cucina e gettò il soprabito su una sedia, portò con sé la cartella in salotto e la poggiò sulla scrivania a ribalta, che era già da prima piena di scartoffie.

In bagno si lavò le mani e si osservò nello specchio punteggiato di macchioline di dentifricio. Un senso d’inquietudine lo tormentava di continuo. Devo parlarti, Martin. Devo dirti una cosa terribile. Si asciugò le mani e tornò in salotto.

Quelle stanze avevano un che di triste. L’albero di Natale che aveva addobbato era piuttosto malridotto.

I tappeti e i mobili si erano sbiaditi e consumati. Gettò un’occhiata fuori dalla grande finestra. La piscina era piena a metà di neve. Non aveva cambiato più nulla da quando era morta Marit, ma quella primavera aveva in programma di buttare via alcune delle vecchie cose.

In passato erano stati una bella comitiva. Hans, John Gustav, Finn e lui. Lui e Marit erano stati i primi a sistemarsi. Gustav si era sposato un paio d’anni dopo e l’anno successivo era stato il turno di Hans e Jorunn. Finn era ancora scapolo. Gustav e Greta erano gli unici ad aver avuto dei figli. Prima Kari Helene e sette anni dopo il piccolo Gustav. Oggi avrebbe avuto sedici anni.

Inforcò i mezzi occhiali e si sedette sulla sedia di legno di pino. Le ginocchia urtavano contro i cassetti della ribalta, quindi gli toccò sedersi di traverso. Sfilò dalla busta il certificato di morte. Erano due fogli. Sul primo c’era incollato il necrologio del bambino. Lo sguardo scorse veloce l’altro foglio, sul quale c’era un resoconto dell’accaduto. Diceva che, secondo le testimonianze, quando la sorella l’aveva trovato morto il bimbo giaceva prono nel suo lettino nella camera da letto dei genitori. La ragazzina l’avrebbe preso in braccio e portato nella propria stanza. Il medico del pronto soccorso era giunto alla conclusione che nulla di sospetto era accaduto, e che si era trattato di un caso di SIDS, la cosiddetta “morte in culla”: un fenomeno causato da anossia, ovvero mancanza di ossigeno. Dunque un decesso per soffocamento. Studi recenti giungevano alla conclusione che bisognava evitare che i bambini dormissero a pancia in giù.

Martin Egge tamburellava ritmicamente con le dita sulla superficie di legno. Gustav era davvero un bambino grazioso. Nella mente risentì la voce di Kari Helene bisbigliare: “C’è qualcosa di strano riguardo a papà. E poi c’è un’altra cosa. Una cosa che riguarda lo zio Hans, e che all’improvviso mi è tornata in mente. Ti ricordi il piccolo Gustav?”.

Si alzò e sistemò la sedia. Ogni volta che passava in macchina accanto al parco giochi, pensava ai figli che non aveva mai avuto.

Ripose il certificato di morte e il foglio con il necrologio all’interno della cartella, e la poggiò in cima alle altre carte.

Andò in cucina, accese la macchinetta per il caffè all’americana e tirò giù un pacco di gallette dalla dispensa. Ne estrasse una e vi spalmò uno strato abbondante di burro; poi prese la tazza da caffè e il piatto e li portò in salotto. Sul tavolo c’era la scacchiera. Mosse due pedine. Sulla poltrona invece c’erano i pesi. Era talmente tipico di Marian. La cosa più importante era essere forti, e diventarlo ancora di più. Aveva provato un senso di sollievo quando lei aveva declinato il suo invito a passare insieme la vigilia di Natale, sapendo che così avrebbe potuto dire di sì a Jorunn.

Era un vigliacco; non aveva mai trovato la forza di raccontare a Marian di Juha e Kari Helene, ovvero che, oltre a lei, aveva altri due “figliocci” trovati sul luogo del reato. Kari Helene aveva i suoi genitori. Juha era andato a festeggiare la vigilia presso la Kirkens Bymisjon6, come faceva ogni anno. Marian era così strana e imprevedibile… ma più di ogni altra cosa era vulnerabile. Quella era anche la sua forza. Martin era tutto tronfio del fatto che avesse seguito le sue orme, studiando per entrare in polizia.

Mangiò in fretta, bevve un sorso di caffè e guardò l’orologio. Erano le 14:13. Doveva tornare in ufficio. Stava aspettando un fax da quel tale Corona. Era sul punto di uscire dalla porta di casa quando squillò il telefono.

 

Alle 14:30 il consulente senior John Gustav Bieler ricevette una telefonata isterica da parte di sua moglie mentre si trovava in riunione con il responsabile di un progetto. Quando sentì il suo tono in falsetto si alzò rapido, girò la schiena all’uomo e chiuse gli occhi per un secondo, per poi riaprirli e fissare la parete.

«Kari Helene dice che si ricorda cosa è successo quando è morto il piccolo Gustav».

Lui non rispose.

«Dice che Hans era lì, e che Gustav stava steso a terra. E che c’era della polvere tutto intorno».

Lui fissò il quadro astratto verde e bianco, e pensò che non era possibile, a distanza di sedici anni. Sull’enorme tavolo da lavoro troneggiava, in un vaso di plastica rossa, una stella di Natale. Accanto c’era un piatto con le bucce di un mandarancio. Certo, l’aveva sempre saputo che un giorno quella faccenda sarebbe potuta venire a galla, ma sperava che non sarebbe mai successo. E comunque non proprio nel momento in cui finalmente era determinato a tirarsi un po’ alla volta indietro.

Posò lo sguardo sulla fotografia appesa alla parete, quella in cui stringeva la mano al ministro dell’Industria. Era uno che lavorava sodo, lui, e in apparenza trattava tutti in maniera equa. I clienti potevano tranquillamente chiamarlo anche in privato e lui senza esitare organizzava incontri anche durante i giorni festivi, se era necessario. Conosceva tutti: nei cantieri, negli uffici, nei municipi. Era un amico intimo del capo della Kripos e aveva accesso anche a circoli preminenti del mondo della politica. Non fatturava mai i clienti a ore e qualche volta non li fatturava affatto. Inoltre si dava da fare nel campo del sociale. La sua immagine, come appariva grazie al Rotary, era quella di un uomo che aiutava donne vittime di violenze, bambini trascurati, adolescenti in fuga, imputati senza risorse economiche, persone senza fissa dimora, profughi e ambientalisti militanti. Se quel fatto di allora si fosse venuto a sapere, la sua reputazione e il futuro di molte persone sarebbero potuti andare in malora.

Si girò e fece un sorriso tirato al responsabile del progetto mentre Greta piangeva al telefono. Diceva frasi sconnesse ed era furibonda. Disse di aver chiamato Jorunn e di averle chiesto se era vero che Hans era presente al momento della morte del piccolo Gustav.

«Certo che no, Greta».

«E quella polvere?»

«Santo cielo, Greta, che stai dicendo? Adesso non posso davvero parlare di questa faccenda».

Si girò verso la finestra, vide il debole riflesso della propria immagine nel vetro. Una ruga profonda sulla fronte, i folti capelli, l’ombra che cadeva su una guancia. L’obesità aveva trasformato Kari Helene dalla bambina graziosa di un tempo in una grottesca montagna di grasso traballante. Era terribile tenere la propria figlia in così poca considerazione.

«Domani vedrà Martin da Pascal».

Lui si lisciò nervosamente la giacca dell’elegante completo e si avvicinò alla porta, mentre il capo progetto volgeva lo sguardo da un’altra parte, imbarazzato. Si chiuse la porta alle spalle e continuò: «Sarò di ritorno verso le sei. Parliamone dopo».

La sua voce echeggiò in corridoio.

«Ne parliamo tutti e tre insieme quando torno a casa, ho detto. Vedrai che si sistemerà tutto».

«Sai benissimo che non è vero», disse lei.

Sentì che il tono della voce della moglie era cambiato, come se non gli credesse più.

Quando finalmente riuscì a chiudere la conversazione, rimase per un attimo in piedi a guardare nel vuoto. Si rivide davanti con estrema nitidezza Kari Helene, così com’era a otto anni. La vide cadere in ginocchio sul tappeto. Come in un film al rallentatore rivide il disegno della sua camicia da notte rosa, la testolina chiara china in avanti, la schiena in parte scoperta con le due scapole delicate, la peluria bianca sulla nuca e la treccia che le scendeva, come un largo nastro, lungo la spina dorsale.

 

 

 

6 Fondazione diaconale che svolge attività caritatevoli e socialmente utili (n.d.t.).

Dolce come la morte
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