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Greta Bieler si sollevò con uno sforzo dalla poltrona con il poggiatesta e barcollò verso il letto matrimoniale con la coperta lucida. Si lasciò cadere a pancia in giù e sotto la guancia sentì la fredda superficie liscia. Il soprabito le si era avvoltolato intorno alla vita e le formava un malloppo sulla pancia.
Jorunn se n’era andata. Aveva detto che a investire Martin doveva essere stato un pazzoide. Era passato un giorno dall’incidente. Sollevò la testa e guardò il televisore. Erano le 22:05. Un giorno. Chiuse gli occhi. Nelle tenebre, dietro alle palpebre, vide tutto così come si doveva essere svolto. Povero Martin.
E povera Kari Helene. Il piccolo Gustav non era nel suo lettino, ma per terra, aveva detto Kari Helene. Perché Gustav aveva detto che si trovava a letto?
Prima o poi tutto sarebbe venuto alla luce: aveva sempre pensato così. Prima o poi era adesso. Doveva essere stato Gustav a investire Martin, in quell’area industriale.
Greta puntò le braccia sotto il corpo e si tirò su. Si girò così da rimanere seduta sul bordo del letto con le gambe penzoloni. Lo sapeva e basta. A volte si capivano delle cose senza saperle per certo. Era una certezza fisica, che fluttuava in un punto remoto nella parte posteriore del cervello. Guardò verso la sua borsa, in cui giaceva il cellulare spento. Gustav avrebbe fatto di tutto per non farsi smascherare. Se fosse stato scoperto, ci sarebbero stati dei titoloni sui giornali e in televisione. Perché Hans non aveva fatto la spia quando lo avevano arrestato? Erano sempre stati uniti, nel bene e nel male. Perché Hans aveva accettato di dover scontare lui solo la pena? Jorunn non ci capiva nulla. Nel migliore dei casi, Jorunn era un’ingenua.