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L’odore di formalina era rimasto attaccato ai suoi vestiti. Marian uscì di corsa attraverso l’ingresso principale e prese la scalinata che portava al parcheggio sotterraneo scendendo cinque scalini alla volta. L’aria invernale era fredda e tagliente. Soffocato, era il pensiero che la assillava. Martin non era morto a causa dell’investimento. Era una follia.
Dalle scoperte che ho fatto sul suo corpo, presumo che qualcuno sia entrato nella sua stanza di ospedale e l’abbia soffocato. Forse con il cuscino del letto accanto.
Si precipitò alla macchina, aprì la portiera e si gettò sul sedile di guida. Birka scodinzolò felice, e le sbuffò sulla nuca. Lei non diede retta al cane, guardò la propria immagine nello specchietto retrovisore e vide che sembrava terrorizzata. Birka mugolò. Marian aprì la portiera, ridiscese dalla macchina e la lasciò uscire. Il cane corse via e si accucciò su un mucchietto di neve che si era formato attraverso un’apertura nella parete. Fece pipì a lungo, poi tornò correndo verso la macchina. Marian la fece salire di nuovo sul sedile posteriore e le ordinò di mettersi a cuccia.
Mise in moto la macchina e uscì rapidamente dal parcheggio sotterraneo. Quando svoltò per scendere verso il centro, si vide davanti cento finestre d’ospedale illuminate. Le stelle erano come perle bianche sparpagliate in un cielo nero. Erano lontanissime, eppure scintillavano come se si trovassero proprio sopra il tetto dell’ospedale. Si sentì nuda e vulnerabile.
Il cellulare segnalò l’arrivo di un SMS. Lei frenò ai piedi della collina e lesse il messaggio, che era di Tony. “Riunione squadra intervento contro criminalità internazionale domani ore 12:00”, c’era scritto.
Cancellò il messaggio e si immise sulla strada principale.
Lo hanno soffocato con il cuscino del letto accanto.
Gettò il telefono sul sedile passeggero dove c’erano sparpagliati fogli e documenti, sbatté ripetutamente il palmo della mano sul volante e pianse con tale violenza che il cane balzò su con un guaito e iniziò a leccarle la nuca.
Un’ora dopo era a letto nella fredda camera di casa sua. Non ricordava se avesse mangiato o meno. Come un film, nella sua mente si susseguivano senza sosta flashback del viso di Martin da morto. Era il suo viso, eppure era quello di un altro. La bocca chiusa, le labbra blu, le braccia ingessate.
Si girò su di un fianco e si raggomitolò su se stessa. Si tirò il piumino fin sopra la testa, ma aveva ancora un freddo tale da battere i denti. Qualcosa di terribile doveva essere successo in quell’ospedale. «Forse con un cuscino», aveva detto il professor Wangen, ma in che modo? E chi?
Non ricordava neanche dove avesse parcheggiato la macchina, se si trovasse in Hesselberggata o in una delle vie laterali. Aveva portato su con sé tutte le carte, ficcandole in una busta di plastica e poi ne aveva vuotato la metà sulla scrivania dietro la porta. Fissò il soffitto buio e le sovvennero i cespugli di rosa canina lungo il prato di Solveien. Quelli verso la scarpata. I rami maculati con fiori rosa pallido che appassivano e lasciavano dietro di sé dei frutti duri e verdi, che d’inverno marcivano, annerendosi. La consapevolezza che forse era in possesso di informazioni particolarmente importanti la faceva sudare freddo. Come poteva fare avere i documenti a Cato Isaksen?
Strinse gli occhi, pur sapendo che non sarebbe riuscita a dormire e che né il cognac né la stanchezza le sarebbero stati d’aiuto. Aveva preso con sé quelle carte. Aveva agito d’impulso, come la volta in cui aveva sottratto allo psichiatra la propria scheda clinica. Se la dichiarazione del medico fosse stata digitalizzata e accessibile, non le avrebbero mai permesso di iscriversi alla scuola superiore di polizia. Lo psichiatra aveva scritto che in certe situazioni era soggetta a una sovrapproduzione di ormoni dello stress, adrenalina e cortisolo, e che ciò causava a sua volta uno squilibrio nel suo sistema immunitario, portandola a bloccarsi nei pensieri e nelle azioni.
Se avesse dato i documenti a Cato, lui avrebbe capito che era andata a prenderli di sua iniziativa, senza autorizzazione. Cato avrebbe avvertito la Myklebust, che l’avrebbe sospesa seduta stante dal suo incarico di investigatore presso la sezione omicidi. Non poteva andare a quella riunione della squadra d’azione il giorno dopo.
Presumo che qualcuno sia entrato nella sua stanza di ospedale.
Sentì i muscoli dello stomaco contrarsi come pugni che si chiudono, e si rigirò energicamente dall’altro lato. Poteva perdere il posto, o nel migliore dei casi finire a fare l’investigatore privato, come Olav Thiis.
Si tirò il piumino fino al mento, si mise a sedere, ma poi si stese ancora. Era come se qualcuno le avesse attaccato un tubo al braccio e le avesse succhiato via tutte le forze.
Lacrime calde le scendevano giù dagli occhi fino alle orecchie, da entrambi i lati. Riconobbe quel sapore infantile di pianto che le faceva pizzicare il naso e quella sensazione travolgente di abbattimento.
Lo shock per la morte improvvisa di Martin si mescolava a qualcosa di diverso, qualcosa che si faceva largo con un’intensità che per molto tempo aveva rifiutato. Fu invasa dai ricordi di quel caos nebuloso in cui i genitori erano nemici pericolosi che sferravano attacchi e contrattacchi. Ricordò l’odore di sudore della madre, nella cucina con gli armadietti gialli. Lo stato d’animo di quando correva sola a casa da scuola nelle giornate fredde e nebbiose, apriva il portone e saliva in ascensore fino al sesto piano. La paura di ciò che l’aspettava dietro quella porta marrone con lo spioncino che sporgeva lassù, come un malvagio occhio vitreo. Conosceva ogni disegno delle venature della porta in legno. Erano lupi, streghe e mostri. E di notte, se la madre vessava il padre, urlandogli contro e accusandolo di questo e quello, e lei non aveva voglia di rimanere a casa, attraversava correndo il parcheggio con i suoi vestiti troppo leggeri ed entrava nel sottopassaggio in cui i suoi passi echeggiavano contro le pareti in muratura, per poi raggiungere i capolinea dove fermavano gli autobus. Lì rimaneva seduta sulla panca gelida sotto la pensilina, dondolando le gambe per ore. Nei suoi ricordi, ciò avveniva sempre d’autunno.
Si addormentò per un attimo, ma già prima di risvegliarsi la opprimeva la consapevolezza che fosse accaduto qualcosa di terribile. Era come se un artiglio si fosse calato su di lei e stesse punzecchiando la sua coscienza. L’artiglio si avvicinava sempre più. E all’improvviso Marian si svegliò. Si sentì raggelare. Martin era morto. Era morto.
Il cuore le batteva tanto forte da farle sembrare di avere un motore in corpo. E all’improvviso comparve Birka. Il cane poggiò la testa sul bordo del letto, sbuffò leggermene e le soffiò in faccia un alito caldo che puzzava di marcio. Lei allungò la mano e gliela poggiò sulla morbida testa.