18

 

Il giorno dopo durò una settimana. L'istituto d'arte era troppo caldo e soffocante. Le matricole del mio corso erano annoiate e irrequiete; non avevano letto i testi per le ultime lezioni e non si preoccupavano di fingere di averlo fatto, così come io non mi preoccupavo di dimostrare che me ne importava qualcosa. Non pensavo che a Ned: se si sarebbe fatto vivo, cosa gli avrei detto in caso affermativo, cos'avrei fatto se invece non fosse comparso; di quanto tempo disponevo prima che Frank arrivasse a lui.

Sapevo che quell'appuntamento era come sparare un colpo alla cieca. Ammesso che, come avevo supposto, il cottage fosse il loro luogo d'incontro, era possibile che lui avesse rinunciato a vederla, dopo un mese senza contatti. Non c'era data sul suo biglietto, poteva risalire a parecchie settimane prima. E anche se fosse stato un tipo tenace non era detto che trovasse il mio messaggio in tempo per l'appuntamento. Una parte di me sperava che non arrivasse. Volevo sapere cosa aveva da dire, ma qualunque cosa sentissi l'avrebbe sentita anche Frank.

Arrivai al cottage presto, poco dopo le dieci e mezzo. A casa Rafe stava suonando un burrascoso pezzo di Beethoven usando troppo il pedale di destra, Justin cercava di leggere con le mani sulle orecchie e l'irritazione generale si sarebbe ben presto trasformata in una lite.

Tornavo nel cottage per la terza volta. Mi preoccupavano un po' i contadini - il campo doveva pur appartenere a qualcuno -, ma in quella notte luminosa e immobile non si muoveva niente nel raggio di molti chilometri; solo pallidi campi deserti e il profilo scuro delle montagne contro il cielo stellato. Mi appoggiai ad aspettare in un angolo da dove potevo sorvegliare il campo e la strada, e dove le ombre mi nascondevano a occhi esterni.

Nel caso seppure remoto che Ned spuntasse, dovevo ricordare che disponevo di una sola occasione. Dovevo lasciare che fosse lui a stabilire l'argomento e il tono della conversazione. Per lui dovevo essere quello che era stata Lexie. Considerato il suo passato poteva trattarsi di molte cose diverse - vamp mozzafiato, coraggiosa Cenerentola, enigmatica Mata Hari - e, nonostante ciò che Frank aveva detto sulla scarsa intelligenza di Ned, se io avessi interpretato il ruolo sbagliato persino lui se ne sarebbe accorto. Potevo solo limitarmi ad aspettare che mi desse il la.

La strada bianca e misteriosa scendeva dalla cima della collina in tornanti costeggiati di siepi scure. Qualche minuto prima delle undici mi arrivò una vibrazione, troppo lontana e profonda perché potessi definirla, poco più che una pulsazione. Silenzio; poi lo scricchiolio leggero dei passi sul viottolo. Mi schiacciai contro il muro, una mano stretta intorno alla torcia e l'altra sotto il maglione, sull'impugnatura della pistola.

Capelli chiari tra le siepi scure. Ned ce l'aveva fatta.

Lasciai la pistola e lo osservai scavalcare goffamente il muretto, controllare di non aver sporcato i pantaloni, pulirsi le mani e avviarsi per il campo con un'aria disgustata. Aspettai che entrasse, e quando fu a pochi passi da me accesi la torcia.

«Buon Dio» si stizzì alzando un braccio per proteggere gli occhi. «Mi vuoi accecare o cosa?»

E mi bastò per imparare in una singola brevissima lezione tutto quello che c'era da sapere su di lui. Io che ero andata fuori di testa perché avevo una sosia... cos'avrebbe dovuto fare lui che aveva un clone in ogni angolo di Dublino sud? Era talmente identico a migliaia di altri giovanotti che non riuscivo a distinguerlo fra tutte quelle immagini riflesse. Standard il taglio di capelli alla moda, standard l'aspetto curato, standard il fisico da rugbista, standard vestiti e accessori di marche troppo costose per quel che valevano; bastava quella prima occhiata per conoscere la storia della sua vita. Mi auguravo che non mi toccasse mai identificarlo in un confronto all'americana.

Lexie doveva aver interpretato il ruolo più adatto, e non dubitavo che anche con le ragazze gli piacessero i cliché: sexy più per artificio che per indole, prive di senso dell'umorismo, non troppo sveglie e un po' bisbetiche. Un vero peccato che non avessi un'abbronzatura finta. «Oh, mio Dio» replicai con lo stesso tono stizzito e lo stesso accento che avevo usato per provocare Naylor e costringerlo a uscire dal suo nascondiglio. «Non farti venire un colpo. È solo una torcia.» Il fatto che la conversazione partisse male non mi preoccupava. Ci sono ambienti sociali in cui le buone maniere vengono considerate segno di debolezza.

«Dove sei finita?» domandò. «Ti ho lasciato messaggi tutti i giorni. Ho di meglio da fare che trascinarmi in questo buco di culo di posto, sai?»

Se avessi scoperto che Lexie andava a letto con questa nullità, sarei andata all'obitorio a darle una coltellata personalmente. Alzai gli occhi al cielo. «Ehi, pronto? Mi hanno aggredita? Sono stata in coma?»

«Oh» disse lui. «Già, è vero.» Mi guardò con un'espressione di vaga riprovazione negli occhi azzurri, come se avessi commesso qualcosa di disdicevole. «Comunque ti potevi mettere in contatto lo stesso. Qui si tratta di affari.»

Quella era una buona notizia. «Sì, be'... Ora ci siamo, no?»

«Questo dublinese dei bassifondi è venuto a parlarmi» disse ricordando di colpo. Esprimeva tutto il disgusto possibile senza cambiare espressione per l'oltraggio subito. «Come se fossi un sospetto, per così dire. Gli ho detto che non era un problema mio. Non vengo da Ballymun, io non pugnalo la gente.»

Decisi che ero d'accordo con Frank: Ned non era il coniglietto più furbo del bosco. Sostanzialmente un grosso ammasso di riflessi condizionati senza veri processi mentali. Ero pronta a scommettere che si rivolgeva ai clienti che appartenevano a classi sociali inferiori come se fossero handicappati e che diceva "Io amare te tanto tanto" alle ragazze asiatiche. «Glielo hai raccontato?» chiesi sedendomi su un muretto basso.

Mi guardò orripilato. «Escluso. Mi sarebbe saltato addosso e non ho voglia di rompermi i coglioni a parlare con un poliziotto. Voglio concludere e basta, okay?»

Aveva anche buon senso, e di questo non mi lamentavo. «Bene» dissi. «Cioè, non è che questo c'entri con quello che mi è successo, no?»

Sembrava non avere opinioni sulla questione. Si avvicinò per appoggiarsi a un muro ma dopo averlo esaminato con sospetto cambiò idea. «Allora possiamo, per così dire, procedere?»

Piegai la testa e gli lanciai un'occhiata da povera vittima battendo le ciglia. «Il coma mi ha incasinato la memoria. Mi devi ricordare dove eravamo arrivati, capito?»

Mi fissava impassibile, indecifrabile: notai la somiglianza con Daniel, in una versione lobotomizzata. «Eravamo a cento» disse dopo un momento. «In contanti.»

Cento euro per un oggettino di famiglia o centomila per una parte della casa? Non dovevo sapere di cosa stavamo parlando per essere certa che mentisse. «Ehm... non credo» dissi con un sorriso seducente per attutirgli il colpo d'essere stato superato in astuzia da una donna. «Il coma mi ha incasinato la memoria, non il cervello.»

Rise senza imbarazzo, infilandosi le mani in tasca e oscillando sui tacchi. «Be', capirai, valeva la pena tentare, no?»

Non smisi di sorridere, visto che sembrava piacergli. «Continua.»

«Okay» disse riprendendosi e assumendo l'espressione da uomo d'affari. «Seriamente. Avevo detto centottanta, giusto? E tu avevi risposto che dovevo fare di più - rompendo assolutamente i coglioni, comunque d'accordo - e di farti un'altra proposta. Perciò ti ho lasciato un messaggio con scritto che potevamo parlare di duecento, però poi tu...» Un gesto di disagio. «Sai cosa.»

Duecento. Per un secondo provai soltanto un grande senso di trionfo, quello che ogni detective conosce quando gira le carte e vede che ha puntato su quella perfetta che lo riporterà diretto a casa. Poi mi resi conto.

Avevo dato per scontato che fosse solo lui a voler concludere l'affare con profitto, perché fino a ora Lexie non aveva mai avuto bisogno di molti soldi per scappare. Era arrivata in North Carolina grazie al deposito di un pulcioso monolocale e se ne era andata con il ricavato della vendita di una vecchia automobile; aveva chiesto solo una lunga strada libera davanti a sé e poche ore di vantaggio. Invece questa volta aveva negoziato con Ned una grossa cifra. Non solo perché poteva farlo; con il bambino che cresceva nella pancia e gli occhi acuti di Abby in casa e un'offerta del genere sul tavolo perché indugiare per settimane? Avrebbe messo la firma sulla linea tratteggiata, chiesto banconote di piccolo taglio e sarebbe sparita, se non avesse avuto bisogno di ogni centesimo.

Avevo creduto che volesse abortire, non appena arrivata dove voleva andare. Anche Abby - che la conosceva meglio di chiunque - l'aveva pensato, dopotutto. Ma un aborto costa poche centinaia di euro. Li avrebbe potuti risparmiare lavorando, o sottrarli di notte dalla cassa comune, ottenere dalla banca un prestito che non intendeva restituire; non c'era bisogno di Ned.

Allevare un figlio costa molto di più. La principessa della "terra di nessuno", la regina di mille castelli tra i mondi, aveva fatto il grande salto. Era stata in procinto di spalancare le braccia e accogliere il legame più impegnativo di tutti. Avevo l'impressione che il muro a cui ero appoggiata si fosse trasformato in acqua.

Guardai Ned come se fosse un fantasma. «Sul serio» disse lui un po' offeso, fraintendendo la mia espressione. «Non ti prendo per i fondelli, duecento è la mia offerta massima. Voglio dire, io qui mi prendo il rischio più grosso, perché dopo che noi avremo concluso dovrò ancora convincere almeno altri due tra i tuoi compagni. Alla fine ci arrivo, ovvio, se ho uno strumento per far leva, ma potrebbero volerci mesi e tante rotture di balle.»

Appoggiai la mano libera sul muro sentendo la pietra ruvida affondare nella carne, fino a quando non mi si schiarirono le idee. «Tu pensi?»

Spalancò gli occhi pallidi. «Oddio, certo. Non so che cazzo di problema hanno. So che sono amici tuoi e che Daniel è mio cugino eccetera, ma sono, per così dire, tonti? Solo l'idea di fare qualcosa con quella casa li ha fatti strillare come delle suore davanti a un esibizionista.»

Scrollai le spalle. «A loro la casa piace.»

«Perché? Cioè, è uno schifo totale, non c'è nemmeno il riscaldamento, invece loro si comportano come se fosse chissà quale gran palazzo. Non si rendono conto di quanto ne ricaverebbero, se collaborassero? Quel posto ha un potenziale.»

Appartamenti executive superaccessoriati e una tenuta dotata di potenziale per sviluppi immobiliari futuri... Per un attimo disprezzai sia Lexie sia me stessa che facevamo le smorfiose con quella faccia di culo. «Quella furba sono io» dissi. «Che cosa ci fai dopo con tutto quel potenziale?»

Mi guardò sconcertato, come se ne avessero già parlato, lui e Lexie. Io ricambiai con uno sguardo vacuo che sembrava metterlo perfettamente a suo agio. «Dipende dalle concessioni edilizie, no? Voglio dire, io idealmente punterei a un golf club o a un albergo, qualcosa del genere. È lì che si guadagna un profitto a lungo termine, specialmente se riesco a metterci un eliporto. Altrimenti si tratterà di appartamenti di superlusso.»

Valutai la possibilità di tirargli un calcio nelle palle e scappare. Ero arrivata pronta a detestarlo e non mi aveva deluso. Ned non voleva Whitethorn House, non gliene fregava niente della casa, diversamente da quanto aveva dichiarato in tribunale. Quello che lo faceva sbavare era l'idea di demolirla, l'occasione di sventrarla, ridurla in macerie e leccarne il sangue fino all'ultima goccia. Rividi la faccia di John Naylor, gonfia e tumefatta, illuminata da quegli occhi visionari. Sa che cosa avrebbe significato quell'albergo per il paese? In fondo in fondo, nonostante il fatto che si sarebbero odiati a prima vista, quei due erano le due facce della stessa medaglia. "Quando faranno i bagagli" aveva detto Naylor "voglio essere presente per salutarli." Quantomeno lui era pronto a rischiare sul suo corpo, non solo sul conto in banca, per ottenere il suo scopo.

«Idea geniale» dissi. «Voglio dire, mi sembra importante che in una casa simile non viva nessuno.»

Il sarcasmo gli sfuggì. «Ovvio» aggiunse in fretta nel caso cercassi di ottenere di più «che ci vorrà una cifra solo per raderla al suolo. Perciò il massimo che posso fare è duecento. Ti sta bene? Faccio preparare i documenti?»

Atteggiai una smorfia e finsi di rimuginare. «Ci devo pensare su un po'.»

«Ah, porca puttana.» Ned si passò una mano nel ciuffo e poi lo lisciò con cura. «Insomma, la stiamo tirando per le lunghe da secoli.»

«Mi dispiace» dissi. «Se avevi tanta fretta potevi partire subito con un'offerta decente.»

«Adesso ci siamo, no? Ho una fila di investitori che vogliono entrare al più presto nell'affare ma non li posso tenere in ballo per sempre. È gente seria, con soldi veri.»

Gli sorrisi, arricciando il naso. «Allora ti darò una risposta seria non appena decido veramente. Okay?» E lo salutai con la mano.

Rimase lì ancora per qualche secondo, spostando il peso da un piede all'altro con l'aria molto incazzata, ma io continuai a sorridere imperturbabile. «D'accordo» disse alla fine. «Bene. Sia come sia. Fammi sapere.»

Sulla porta si voltò, con l'intenzione di fare colpo, immagino: «Tutto questo potrebbe farmi diventare famoso, sai? Farmi lavorare con i costruttori veramente grossi, perciò non facciamo cazzate. Okay?».

Avrebbe voluto fare un'uscita drammatica ma inciampò; provò a recuperare lanciandosi in un'energica corsettina senza voltarsi.

Spensi la torcia e aspettai nel cottage che Ned attraversasse il campo erboso e ritrovasse il potente mezzo che lo avrebbe riportato verso la civiltà: il rumore del motore del SUV, piccolo e insignificante nell'immensa notte fra le colline. Poi sedetti appoggiata con la schiena al muro della stanza esterna ad ascoltare il mio cuore battere proprio dove il cuore di Lexie si era fermato per sempre. L'aria era dolce e tiepida; non sentivo più il sedere contro la terra e intorno alla mia testa, come petali, volteggiavano minuscole falene. Qualcosa stava crescendo lì accanto, dalla terra che lei aveva bagnato con il suo sangue, un ciuffetto di campanule, e un arboscello che sembrava di biancospino: vita nata da lei.

 

Se anche se la fosse persa in diretta, Frank avrebbe sentito quella conversazione nel giro di poche ore, appena arrivato in ufficio. Avrei dovuto chiamare lui o Sam o entrambi e sfruttarla nel modo migliore, ma avevo la sensazione che, se avessi provato a muovermi o parlare o anche solo a respirare profondamente, mi sarebbe cascato il cervello per terra, a inzupparsi nell'erba alta. Ne ero stata talmente sicura. Chi potrebbe biasimarmi? Questa ragazza era un gatto selvatico, pronta a staccarsi una zampa a morsi pur di non restare in trappola; ero stata sicurissima che "per sempre" non facesse parte del suo vocabolario. Provai a raccontarmi che stava progettando di dare il figlio in adozione, di lasciare l'ospedale non appena fosse stata in grado di camminare, scomparendo dal parcheggio verso la prossima terra promessa, ma lo sapevo: le cifre su cui stava trattando con Ned non erano per un ospedale, nemmeno il più costoso. Erano per una vita, per due vite.

Così come aveva lasciato che i suoi quattro amici la trasformassero con inconscia delicatezza nella sorellina che mancava alla loro strana famiglia, e che Ned la adattasse a un cliché che era in grado di riconoscere, aveva permesso a me di vedere quello che desideravo vedere. Un passepartout per aprire qualsiasi porta, un'autostrada infinita verso un milione di stelle luminose. Non esiste una persona simile. Persino questa ragazza che si era lasciata alle spalle le sue vite come ci si lascia alle spalle le fermate dell'autobus lungo il percorso, alla fine aveva trovato la sua uscita e non l'aveva mancata.

Rimasi a lungo seduta con le dita intorno all'arboscello, con delicatezza, perché era tanto giovane e non volevo fargli male. Non so quanto tempo impiegai a trovare la forza di rimettermi in piedi, e non ho ricordi del ritorno a casa. Una parte di me in verità si augurava di vedere John Naylor sbucare da una siepe pieno di furia incendiaria, pronto a un alterco o a una rissa, per avere qualcosa contro cui combattere.

 

La casa brillava come un albero di Natale, luci a tutte le finestre, sagome che passavano fugaci e voci spumeggianti, e per un momento non riuscii a capacitarmi: era successo qualcosa di tremendo, stava morendo qualcuno, la casa si era inclinata infilandosi in una fessura temporale per rivivere una festa lontana, entrando nel prato sarei precipitata nel 1910? Quando il cancello alle mie spalle si richiuse, Abby spalancò una portafinestra chiamandomi: «Lexie!» e si precipitò correndo, la lunga gonna bianca fluttuante, verso di me.

«Ti stavo aspettando» disse. Era senza fiato e arrossata, le brillavano gli occhi e i capelli cercavano di sfuggire ai fermagli; aveva evidentemente bevuto. «Abbiamo deciso di fare i decadenti. Rafe e Justin hanno preparato una specie di punch con cognac e rum e non so cos'altro ci hanno messo, ma so che è letale, e siccome domani mattina nessuno ha lezione abbiamo pensato di non andare al college e bere fino a cadere per terra. Ti sembra una buona idea?»

«Mi sembra ottima» dissi con una voce che suonava strana, fuori luogo - faticavo a riprendermi -, ma lei parve non accorgersene.

«Davvero? Perché all'inizio non ne ero convinta, però loro lo stavano già preparando - Rafe ha dato fuoco a non so più quale liquore, apposta - e mi hanno sgridata perché mi preoccupo sempre per tutto. Almeno per una volta non litigavano, no? Quindi ho pensato: al diavolo, ne abbiamo bisogno. Dopo le ultime giornate... Oddio, dopo le ultime settimane. Siamo diventati tutti assurdi, te ne sei resa conto? La storia dell'altra sera, la pietra e la scazzottata e... Cristo.»

Qualcosa attraversò il suo viso, un baluginio cupo, ma prima che riuscissi a identificarlo svanì lasciando il posto all'euforia alcolica. «Perciò, se per una notte esageriamo e ci liberiamo di tutto magari riusciamo a calmarci e tornare alla normalità. Cosa ne dici?»

Ubriaca sembrava molto più giovane. Nel videogioco di guerra che era la sua mente, Frank la stava di certo mettendo a confronto con gli altri tre amici e li ispezionava, a uno a uno, centimetro per centimetro; li valutava con la freddezza di un chirurgo o di un torturatore, per decidere dove fare il primo taglio, dove infilare la sonda. «Mi piacerebbe» dissi «mi piacerebbe un sacco.»

«Abbiamo cominciato senza di te» riprese lei ritraendosi per scrutarmi ansiosa. «Non ti dispiace, vero, se non ti abbiamo aspettata?»

«Certo che no. Purché sia rimasto qualcosa per me.» In fondo, dietro di lei, vedevo le ombre sovrapporsi sulla parete del salotto; Rafe chino con un bicchiere in mano e i capelli dorati, come un miraggio sullo sfondo delle tende scure, mentre la voce di Joséphine Baker si riversava fuori attraverso le finestre aperte, dolce e invitante nella registrazione da un disco graffiato: Mon rêve c'était vous... Desideravo essere con loro così intensamente come non avevo mai desiderato niente nella vita, volevo liberarmi della pistola e del telefono, bere e ballare fino a che il mio cervello si fondesse e non ci fosse più niente al mondo oltre alla musica e alle luci e a loro quattro intorno a me che ridevano, abbacinanti, intoccabili.

«Certo che te ne abbiamo lasciato. Per chi ci hai preso?» Mi afferrò una mano e tornò verso casa trascinandomi con sé, mentre con la mano libera tratteneva la gonna dall'impigliarsi nell'erba. «Devi aiutarmi con Daniel. Gli hanno dato un bicchierone, ma lui sorseggia. Questa notte non si sorseggia. Deve trangugiare piuttosto. Lo so che anche quel poco gli sta facendo bene, perché si è lanciato in un lungo discorso sul labirinto e il Minotauro e su qualcosa che ha a che fare con Bottom in Sogno di una notte di mezza estate, quindi sobrio non è. Comunque...»

«Allora via» risposi ridendo: non vedevo l'ora di vedere Daniel veramente steso. «Cosa aspettiamo?» E ci precipitammo in cucina.

Justin era in piedi vicino al tavolo con un mestolo in una mano e un bicchiere nell'altra, chino sopra una fruttiera piena di un liquido rosso dall'aspetto pericoloso. «Siete stupende» disse. «Due ninfe del bosco, ecco cosa siete.»

«Sono belle» disse Daniel sorridendoci dalla soglia. «Servi loro del punch, così troveranno belli anche noi.»

«Vi troviamo sempre belli» ribatté Abby prendendo un bicchiere dal tavolo. «Però abbiamo lo stesso bisogno di un punch. Anzi, Lexie ne ha bisogno di tanto per raggiungerci.»

«Sono bello anch'io!» strillò Rafe dal salotto sovrastando la voce di Joséphine. «Venite a dirlo anche a me!»

«Sei bello!» urlammo con quanto fiato avevamo, e Justin mi infilò in mano un bicchiere e andammo tutti in salotto lasciando le scarpe nell'ingresso e leccandoci i polsi sporchi di punch e ridendo.

 

Daniel si sistemò in una poltrona e Justin si sdraiò sul divano, mentre Rafe, Abby e io finimmo sul pavimento perché sembrava la soluzione più semplice. Abby aveva ragione, il punch era letale: buonissimo e infido, scendeva giù come aranciata fresca e si trasformava in una leggerezza che sembrava elio nelle vene. Sapevo che sarebbe stata tutta un'altra storia se avessi provato a fare qualcosa di stupido, come alzarmi. In fondo ai miei pensieri c'era Frank che mi rimproverava parlando della necessità di mantenere il controllo, un po' come le suore a scuola, con le loro monotone prediche sul demone dell'alcol, ma io ero stufa marcia di Frank e del suo stupido microfono e dell'eterno controllo. «Ancora» chiesi spingendo Justin con un piede e agitandogli il bicchiere vuoto davanti.

Ho dimenticato, nei dettagli, lunghi pezzi della serata. Il secondo o terzo bicchiere la fece diventare sfumata e incantata, come un sogno. A un certo punto devo essere salita in camera a riporre l'attrezzatura - pistola, cellulare, guaina - sotto il letto; qualcuno aveva spento quasi tutte le luci lasciando soltanto una lampada e qualche candela qui è là, come stelle. Ricordo una discussione impegnata per decidere quale attore di James Bond fosse il migliore, che portò a un dibattito non meno intenso su quale dei tre maschi del gruppo l'avrebbe interpretato meglio; uno stupidissimo tentativo di giocare a Fuzzy Duck, trangugiando in un sorso solo per penitenza, che Rafe aveva imparato in collegio e che finì subito perché Justin inspirò un po' di punch con il naso e dovette correre a starnutire alcol nel lavandino; ridevo così tanto che mi faceva male lo stomaco e fui costretta a ficcarmi le dita nei timpani per riprendere fiato; il braccio di Rafe sotto il collo di Abby, i miei piedi sulle caviglie di Justin, Abby che allungava una mano per prendere quella di Daniel. Come se non fosse mai esistita alcuna incrinatura; era tutto intimo e affettuoso e bello come durante la prima settimana, solo più bello, cento volte più bello perché questa volta non ero sul chi vive e non dovevo orientarmi faticosamente. Questa volta li conoscevo tutti a memoria: ritmi, vezzi, inflessioni, sapevo come stare in relazione con ognuno. Questa volta appartenevo anch'io alla famiglia.

Ricordo soprattutto una conversazione - una digressione partita non so più da dove - su Enrico V. All'epoca non ci avevo fatto troppo caso ma dopo, quand'era tutto finito, mi ritornò in mente.

«Era uno psicopatico delirante» disse Rafe. Eravamo sdraiati per terra e teneva un braccio stretto intorno al mio. «Tutto quell'eroismo shakespeariano era pura propaganda. Oggi Enrico sarebbe a capo di qualche "repubblica delle banane" con un programma di sanguinose lotte ai confini e loschi armamenti nucleari.»

«A me Enrico piace» disse Daniel fumando una sigaretta. «Avremmo proprio bisogno, invece, di un re come lui.»

«Monarchico guerrafondaio» disse Abby rivolta al soffitto. «Se viene la rivoluzione ti mettono al muro.»

«Il vero problema non è mai stata la monarchia, né la guerra» ribatté lui. «In ogni società ci sono sempre state le guerre, la guerra è intrinseca all'umanità, e abbiamo sempre avuto governanti... Vedi davvero tanta differenza tra un re medievale e un presidente o un primo ministro dei giorni nostri, eccetto il fatto che il re era relativamente più accessibile ai sudditi? Il vero problema nasce quando monarchia e guerra si separano, si intralciano. Sotto Enrico non si intralciavano.»

«Tu deliri» gli disse Justin, che si stava sforzando di bere il suo punch senza sedersi e senza rovesciarlo sulla camicia.

«Sai che cosa ti servirebbe?» gli disse Abby. «Una cannuccia. Di quelle che si piegano.»

«Sì!» gridò lui felice. «Ho proprio bisogno di una cannuccia. Ne abbiamo?»

«No» rispose lei sorpresa, facendo inspiegabilmente ridere me e Rafe.

«Non sto delirando» disse Daniel. «Prendete le guerre di secoli fa: era il re a condurre i suoi uomini in battaglia. Sempre. Questo significava essere un condottiero: governante e guida spirituale, colui che avanzava a capo della sua tribù, che per loro rischiava la vita, per loro si sacrificava. Se si fosse sottratto al compito cruciale nel momento decisivo lo avrebbero fatto a pezzi, e giustamente: si sarebbe rivelato un impostore che non aveva diritto al trono. Il re era il paese, come poteva chiedergli di andare a combattere senza di lui? Oggi invece... Vedete un presidente o un primo ministro in prima linea, che guida i suoi uomini alla guerra che ha dichiarato? E una volta spezzato il legame fisico e mistico, una volta che il condottiero non è più disposto a sacrificarsi per la sua gente, non è più un capo bensì una sanguisuga che sfrutta i suoi uomini costringendoli a rischiare la vita mentre lui, al sicuro, prospera sulle perdite. La guerra diventa un'odiosa astrazione, un gioco per burocrati; soldati e civili sono semplici pedine sacrificabili a migliaia per ragioni che non si fondano su niente di reale. Se i capi perdono il loro senso di esistere la guerra perde significato; la vita non conta più niente. Siamo governati da piccoli usurpatori venali, tutti quanti, che tolgono significato a tutto ciò che toccano.»

«Sai una cosa?» gli dissi cercando di sollevare la testa di qualche centimetro. «Capisco forse un quarto di quello che stai dicendo. Come mai sei così sobrio?»

«Non è sobrio» rispose Abby soddisfatta. «Quando delira è ubriaco. Ormai dovresti saperlo. Daniel si è fossilizzato.»

«Non è un delirio» ribatté lui con un sorrisetto malizioso. «È un monologo. Se può farli Amleto perché io non posso?»

«Almeno sa che Amleto delira» dissi pensierosa. «Per lo più.»

Rafe girò la testa e i suoi occhi dorati arrivarono a pochi centimetri dai miei. «In sostanza sta dicendo che gli uomini politici sono sopravvalutati» mi informò.

Quel picnic in collina, mesi prima, Rafe e io che tiravamo le fragole a Daniel in preda a un altro delirio. Giuro che lo ricordavo come se fossi stata davvero presente: l'odore salmastro dell'aria, il dolore alle gambe per l'arrampicata. «Tutto è sopravvalutato eccetto Elvis e il cioccolato» annunciai sollevando incerta il bicchiere, e sentii l'improvvisa irresistibile risata di Daniel.

Bere gli donava. Gli illuminava gli zigomi e accendeva un bagliore profondo nel suo sguardo, allentando la rigidità e trasformandola in una grazia animalesca. Di solito era Rafe il bello della casa, quella sera invece non riuscivo a staccare gli occhi da Daniel. Alla luce delle candele, seduto in una poltrona di broccato dai colori sbiaditi, con il bicchiere pieno di scintillante liquido rosso in una mano e il ciuffo scuro di capelli sulla fronte, sembrava lui stesso un antico re: un nobile re splendente nel salone dei banchetti, che brindava sprezzante a una vittoria.

Le finestre erano spalancate sul giardino immerso nella notte; le falene volteggiavano intorno alle luci, le ombre si intersecavano mentre un venticello umido giocava con le tende. «Ma è estate!» disse all'improvviso Justin stupito, balzando in piedi. «Sentite com'è tiepido il vento. È estate. Dài, usciamo.» E incespicando fece alzare Abby per uscire nella veranda.

Il giardino era buio e profumato. Non so quanto tempo restammo sotto la gigantesca luna piena. Io e Rafe ci prendemmo per mano e cominciammo a fare il girotondo sul prato, e finimmo per terra ridacchiando; Justin lanciò in alto due manciate di fiori di biancospino, che ricaddero come fiocchi di neve sui nostri capelli; Daniel e Abby ballavano scalzi un valzer lento sotto i ciliegi, come gli spettrali amanti di un ballo dimenticato. Io mi misi a fare capriole sull'erba, senza preoccuparmi dei punti immaginari né chiedermi se Lexie avesse mai fatto ginnastica; non riuscivo a ricordare quando ero stata altrettanto ubriaca e mi piaceva da matti. Volevo tuffarmi ancora più a fondo nella mia ubriachezza e non risalire nemmeno per respirare, aprire la bocca, prendere un immenso respiro e annegare nella notte.

Lungo il percorso persi di vista gli altri; ero sdraiata tra le piante officinali, avvolta dal profumo di menta, a guardare un milione di stelle, da sola. Sentivo Rafe che chiamava il mio nome, debolmente, davanti alla casa. Dopo un po' mi alzai per andare da lui, ma era un azzardo: mi risultava difficile camminare. Procedetti lungo il muro, con una mano sui rami dell'edera; sentivo i ramoscelli spezzarsi sotto i piedi nudi ma nessun dolore.

La luce della luna si rifletteva sul prato, illuminandolo. Dalle finestre arrivava della musica e Abby ballava da sola sull'erba: lente giravolte, le braccia spalancate e la testa piegata all'indietro per guardare il cielo sconfinato. Da sotto il pergolato, facendo dondolare un lungo ramo d'edera la osservai: il turbinio chiaro della gonna, trattenuta dalla mano, l'arco dei piedi, il movimento del collo, tra gli alberi.

«Non è bellissima?» chiese una voce alle mie spalle. Ero troppo ubriaca per trasalire. Seduto su una panca di pietra sotto l'edera, Daniel teneva in mano un bicchiere, per terra vicino a lui c'era una bottiglia. Le ombre della luna lo facevano sembrare una statua di marmo. «Quando saremo vecchi e grigi e pronti a volare via, anche se avrò dimenticato tutto ciò che la vita mi ha riservato, credo che ricorderò Abby così.»

Una fitta dolorosa mi attraversò, ma non capivo perché: troppo complicato, troppo distante. «Anch'io voglio ricordare questa notte» dissi. «Voglio tatuarmela addosso per non dimenticarla mai.»

«Vieni qui» disse. Appoggiò il bicchiere e si scostò per farmi posto sulla panca, mi tese una mano. «Vieni qui. Avremo mille altre notti come questa. Te ne potrai dimenticare a decine, se vorrai; ne inventeremo altre. Abbiamo a disposizione tutto il tempo del mondo.»

La sua mano intorno alla mia era calda e forte. Mi fece sedere e io gli appoggiai la testa sulla spalla, quella spalla solida, profumo di cedro e lana, tutto intorno nero e argenteo e in movimento e l'acqua che mormorava instancabile ai nostri piedi. «Quando ho creduto di averti persa» disse «è stato...» Scosse la testa, prese un respiro breve come un rantolo. «Mi mancavi, non sai quanto. Ma adesso va tutto bene. Tutto bene.»

Si voltò verso di me, la sua mano fra i miei capelli, ruvida e tenera, giù lungo la guancia, a seguire il contorno della bocca.

Le luci della casa vorticavano come quelle di una giostra, una nota era sospesa sulle cime degli alberi e l'edera ondeggiava con la musica così dolcemente che quasi non riuscivo a sentirla, e l'unica cosa che volevo al mondo era restare. Strappare microfono e batteria, infilarli in una busta e spedirli a Frank e, volando leggera come un uccello sopra la mia vecchia vita, tornare qui, a casa. Non volevamo perderti, sciocchina, gli altri sarebbero stati felici, non c'era bisogno che sapessero. In fondo avevo gli stessi diritti della ragazza uccisa, ero Lexie Madison almeno quanto lei. Il padrone di casa avrebbe buttato via i miei brutti vestiti da ufficio una volta scaduto l'affitto, non avevo lasciato niente che potesse servirmi ora. I fiori di ciliegio caduti lievemente sul viale, l'odore quieto dei vecchi libri, il fuoco nel camino riflesso sulle finestre coperte di brina a Natale. E non ci sarebbe stato alcun bisogno di innamorarsi, di sposarsi e avere dei figli che ci avrebbero separati, nulla sarebbe mai cambiato, solo noi cinque in questo giardino cintato, per sempre. In un angolo della mia mente un tamburo suonava per avvertire del pericolo, ma come in una visione capivo che era per questo che la ragazza morta aveva percorso migliaia di chilometri per raggiungermi, per questo Lexie Madison era nata: per aspettare il momento giusto di tendere la mano e afferrare la mia, guidandomi su quei gradini di pietra e oltre quella porta, per condurmi a casa. La bocca di Daniel aveva il sapore del ghiaccio e del whiskey.

Pensandoci lo avrei immaginato un baciatore scadente, meticolosamente mediocre. La violenza del suo ardore mi lasciò senza fiato. Quando ci separammo, non so quanto tempo dopo, avevo il cuore in gola.

"E adesso" pensai con un barlume di lucidità. "Adesso cosa succede?"

La sua bocca, gli angoli piegati in un piccolissimo sorriso, era molto vicina alla mia. Le sue mani sulle mie spalle, i pollici mi accarezzavano con lenti movimenti delicati la clavicola.

Frank non avrebbe battuto ciglio; so di agenti che sono andati a letto con gangster, che hanno pestato qualcuno o si sono fatti di eroina, qualsiasi cosa, per il dovere. Non avevo mai commentato perché non erano affari miei, ma le ritenevo stronzate. C'è sempre un altro modo per ottenere quello che ti serve, se lo vuoi trovare. Se avevano fatto quelle cose è perché le volevano fare e il dovere forniva una giustificazione.

In quel momento vidi di fronte a me la faccia sbalordita di Sam, chiara come se fosse stato seduto accanto a Daniel, gomito a gomito. Avrei dovuto arrossire per la vergogna, invece provavo soltanto una frustrazione che si abbatteva su di me con la violenza di un'onda. Sam era come un enorme piumino avvolto intorno alla mia esistenza, che mi soffocava con proposte di vacanze, domande protettive e un gentile inesorabile calore. Avrei voluto scrollarmelo di dosso con violenza e respirare a pieni polmoni l'aria fredda, di nuovo tutta mia.

Mi salvò l'apparecchiatura elettronica. Non per ciò che avrebbe potuto registrare - non stavo ragionando con lucidità - ma per le mani di Daniel: i suoi pollici erano arrivati a cinque centimetri dal microfono fissato in mezzo al reggiseno. Mi ripresi di colpo, sobria come non mai. Ero a cinque centimetri dal bruciarmi.

«Be'» dissi, prendendo tempo, e gli sorrisi. «Sono sempre le acque chete.»

Non si mosse. Vidi un guizzo passare nei suoi occhi, ma non avrei saputo spiegarlo. Il mio cervello era paralizzato: non sapevo come se la sarebbe cavata Lexie. Avevo l'orribile sensazione che non ci sarebbe riuscita.

Si sentì un frastuono provenire dalla casa, una portafinestra si spalancò e qualcuno si precipitò sulla veranda. Rafe urlava: «... sempre a fare una tragedia di tutto...».

«Oddio, proprio tu lo dici. Sei stato tu a volere...»

Justin era talmente furibondo che gli tremava la voce. Sbarrai gli occhi, saltai su e guardai fra i rami; Justin era appoggiato al muro, con le spalle curve. Rafe camminava avanti e indietro passandosi una mano tra i capelli. Stavano ancora litigando, ma a voce più bassa, e adesso coglievo solo il tono iroso e il ritmo veloce. L'angolazione della testa di Justin, con il mento affondato nel petto, faceva pensare che stesse piangendo.

«Merda» dissi guardando Daniel che era rimasto seduto sulla panchina. Le ombre delle foglie mi nascondevano la sua espressione. «Credo che abbiano rotto qualcosa. E Rafe sembra sul punto di picchiarlo. Forse dovremmo...?»

Si alzò lentamente. La sagoma bianca e nera riempì la nicchia del pergolato, alta, stranamente nitida. «Sì» disse. «Forse dovremmo.»

Mi fece spostare mettendomi una mano gentile e impersonale sulla spalla e si avviò attraverso il prato. Abby era caduta sull'erba in una corolla di cotone bianco, con un braccio disteso. Sembrava profondamente addormentata.

Daniel le si inginocchiò accanto e con delicatezza allontanò una ciocca di capelli dalla sua faccia; poi si alzò, tolse l'erba rimasta appiccicata sui pantaloni e salì sulla veranda. Rafe gridò: «Porca puttana» e con una giravolta su se stesso entrò in casa sbattendo la porta. Justin stava proprio piangendo.

Non stavo capendo niente. L'incomprensibile scena sembrava muoversi lentamente in tondo, la casa stessa ruotava, il giardino si alzava come un'onda. Mi resi conto di non essere affatto sobria, dopo tutto, in effetti ero ubriaca in maniera spettacolare. Sedetti di nuovo sulla panchina, misi la testa fra le ginocchia e restai immobile.

Forse mi addormentai, o svenni, non so. Sentivo gridare ma non sembrava riguardarmi e lasciai correre.

Mi svegliò il torcicollo. Impiegai un po' a capire dov'ero: rannicchiata sulla panca di pietra, la testa contro il muro in una posizione poco dignitosa. I vestiti erano umidi e tremavo dal freddo.

Gradualmente distesi i muscoli e mi alzai. Pessima scelta: cominciò a girarmi la testa con un doloroso movimento centrifugo e per riuscire a stare in piedi dovetti aggrapparmi all'edera. Il giardino era diventato grigio, il grigio immobile e spettrale prima dell'alba, non si muoveva una foglia. Per un istante mi impaurì l'idea di calpestarlo: sembrava un luogo da non disturbare.

Abby non era più sdraiata sul prato. L'erba coperta di rugiada mi bagnava i piedi e l'orlo dei jeans. Un paio di calze, forse mie, erano aggrovigliate nella veranda, ma mi mancò l'energia per raccoglierle. La portafinestra era aperta e vidi Rafe che russava sul divano, in mezzo a portaceneri stracolmi e bicchieri vuoti e cuscini e odore di alcol stantio. Sul pianoforte schegge di vetro, taglienti sul legno lucido e sui tasti ingialliti, e sul muro poco più sopra un'ammaccatura profonda nell'intonaco: qualcuno aveva lanciato un bicchiere o un portacenere, con tutte le sue forze. Salii in punta di piedi le scale e mi infilai sotto le coperte senza nemmeno svestirmi. Passò molto tempo prima che smettessi di tremare e mi addormentassi.