16
Era l'ora di pranzo quando tornai al Trinity, ma trovai gli altri ancora nei loro posti di consultazione. Non appena imboccai il lungo corridoio coperto di libri che conduceva al nostro angolo, alzarono gli occhi in fretta, quasi simultaneamente, appoggiando penne e matite.
«Bene» disse Justin con un grosso sospiro di sollievo. «Eccoti, finalmente. Era ora.»
«Cazzo» esclamò Rafe. «Perché ci hai impiegato tanto? Justin pensava che ti avessero arrestata, ma io gli ho detto che probabilmente eri fuggita con O'Neill.»
I capelli di Rafe spuntavano dalla testa in ciuffi ribelli, Abby aveva uno zigomo sporco d'inchiostro, e non immaginavano neanche come mi sembrassero belli, e quanto vicini eravamo arrivati a perderci. Li avrei voluti toccare, abbracciare, prendere per mano e stringere fortissimo. «Mi hanno fatto aspettare secoli» dissi. «Andiamo a mangiare? Muoio di fame.»
«Com'è andata?» chiese Daniel. «Sei riuscita a identificare l'uomo?»
«No» risposi, sporgendomi oltre Abby per prendere la mia tracolla. «Però, secondo me, è quello dell'altra sera. Dovreste vedere la sua faccia. Sembra reduce da dieci round con Muhammad Ali.» Rafe rise e alzò una mano verso di me per battere il cinque.
«Di cosa ridete?» volle sapere Abby «Avrebbe potuto denunciarvi per lesioni personali. Justin pensava che fosse andata così, Lex.»
«Non ci sarà nessuna denuncia. Ha detto ai poliziotti di essere caduto dalla bicicletta. È tutto a posto.»
«Riemerso niente nei tuoi ricordi?» indagò Daniel.
«Niente.» Mi impossessai della giacca di Justin e gliela sventolai sotto il naso. «Dài. Possiamo andare al Buttery? Voglio un pranzo vero. La polizia mi mette fame.»
«Ti sei fatta qualche idea su quello che succederà ora? Pensano che sia l'uomo che ti ha ferita? Lo arresteranno?»
«No» risposi. «Non dispongono di prove sufficienti o qualcosa del genere. E poi non credono che sia stato lui.»
Ero così convinta che si trattasse di una buona notizia da dimenticare che sotto molti punti di vista avrebbe avuto un effetto diverso su di loro. Seguì un silenzio improvviso e teso, e nessuno guardò gli altri. Rafe socchiuse gli occhi per una frazione di secondo, come un trasalimento.
«Come mai?» chiese Daniel. «Sembrerebbe logico.»
Scrollai le spalle. «Chi lo sa che cosa passa per la testa dei poliziotti? Così hanno detto a me.»
«Porca puttana» imprecò Abby. Di colpo appariva pallida e con le occhiaie sotto la luce al neon.
«Quindi è stato tutto inutile» disse Rafe. «Siamo di nuovo al punto di partenza.»
«Non si può ancora dire» ribatté Daniel.
«Mi sembra piuttosto evidente. Dammi pure del pessimista.»
«Oddio» mormorò Justin. «Speravo tanto che fosse tutto finito.» Nessuno gli rispose.
Daniel e Abby che parlavano nella veranda, a notte fonda. Questa volta non c'era bisogno che mi orientassi tastando i muri con le mani per raggiungere la cucina; ormai avrei potuto girare bendata per casa senza far cigolare nemmeno un'asse del pavimento.
«Non so perché» diceva Daniel. Erano seduti sul dondolo a fumare, non si toccavano. «Non riesco a metterlo a fuoco. È possibile che la tensione offuschi la mia capacità di giudizio... Sono preoccupato e basta.»
«Ha passato un brutto momento» rispose Abby in tono guardingo. «Credo che voglia soltanto starsene tranquilla e dimenticare che sia successo.»
Daniel la guardò, con la luna che si rifletteva sugli occhiali nascondendogli gli occhi. «Che cosa mi stai tacendo?»
Il bambino. Affondai i denti nel labbro inferiore e pregai che Abby credesse nella solidarietà femminile.
Scosse la testa. «Devi fidarti di me.» Daniel guardò verso il prato e vidi un'espressione fugace - stanchezza o dolore - attraversargli il viso. «Un tempo non lontano ci dicevamo tutto» disse. «Non è vero? O è un ricordo che mi sono inventato? Noi cinque contro il mondo, e nessun segreto a dividerci.»
Abby aggrottò la fronte. «Ah, sì? Non penso che tutti abbiano mai detto tutto a tutti. Tu, per esempio.»
«Mi piace credere di fare del mio meglio» ribatté lui dopo un momento. «A meno che non ci sia una ragione grave per tacere, vi dico tutte le cose importanti.»
«Però una ragione grave non manca mai, giusto? A te.» Abby era pallida e rigida.
«È possibile» rispose lui a voce bassa, con un lungo sospiro. «Una volta non era così.»
«Tu e Lexie» disse Abby. «Avete mai...?»
Silenzio: i due si squadravano, come avversari.
«Perché questo conta.»
«Perché conta?»
Altro silenzio. La luna scomparve e le loro facce vennero assorbite dalla notte.
«No» rispose lui alla fine. «Mai. Probabilmente direi lo stesso anche in caso contrario, perché non vedo quale differenza potrebbe fare, quindi non mi aspetto che tu mi creda. Ma, per quello che vale, la risposta è no.»
Altro silenzio. Il minuscolo bagliore del mozzicone di una sigaretta che disegnava un arco nel buio, come una meteora. In piedi nella cucina gelida li osservavo attraverso il vetro, e avrei voluto dire loro: "Adesso è tutto a posto. Torneremo tranquilli, ogni cosa rientrerà nella norma, con il tempo, e adesso il tempo c'è. Perché rimango".
Il tonfo di una porta nel cuore della notte; passi rumorosi sul pavimento; altro tonfo, più pesante: la porta d'ingresso.
Rimasi in ascolto, a letto, con il cuore che batteva forte. Da qualche parte nella casa ci fu uno spostamento, talmente tenue che lo percepii con il corpo, più una vibrazione che un suono, che percorreva i muri e attraverso le assi del pavimento entrava nelle mie ossa: qualcuno si muoveva. Poteva provenire da molte direzioni diverse. Era una notte senza vento, rotta soltanto dal freddo richiamo ingannevole di una civetta a caccia. Sistemai il guanciale contro la testiera del letto, mettendomi comoda ad aspettare. Mi venne voglia di fumare una sigaretta, ma ero abbastanza sicura di non essere la sola sveglia, con i sensi all'erta per cogliere il minimo rumore: lo scatto di un accendino, l'odore del fumo che serpeggiava nel buio.
Dopo una ventina di minuti la porta d'ingresso si aprì e si richiuse, questa volta molto piano. Una pausa, poi passi delicati e attenti che salivano le scale, entravano nella stanza di Justin, e il cigolio fragoroso delle molle del letto sotto il mio.
Aspettai cinque minuti, poi, visto che non succedeva niente, scivolai giù dal letto e corsi al piano di sotto, non aveva senso sforzarsi di non fare rumore. «Oh» esclamò Justin quando mi affacciai alla sua porta. «Sei tu.»
Sedeva sul bordo del letto. Aveva i pantaloni e le scarpe ma era senza calze, la camicia slacciata. Un aspetto terribile.
«Stai bene?» gli chiesi.
Si nascose la faccia con le mani e vidi che tremavano. «No» disse. «Non sto bene per niente.»
«Cos'è successo?»
Abbassò le mani e mi fissò: aveva gli occhi rossi. «Vai a dormire» disse. «Vai a dormire, Lexie.»
«Sei incazzato con me?»
«Non tutto il mondo gira intorno a te, lo sai?» rispose con freddezza. «Che tu ci creda o no.»
«Justin» dissi dopo un attimo. «Volevo soltanto...»
«Se vuoi fare davvero qualcosa per me» disse «lasciami in pace.»
Si alzò e cominciò ad armeggiare con le lenzuola, sistemandole con gesti bruschi e inutili, dandomi la schiena. Poiché era chiaro che non avrebbe aggiunto altro, chiusi delicatamente la porta e tornai di sopra. Nella camera di Daniel non si accese alcuna luce, però percepivo la sua presenza, nel buio a pochi passi; era in ascolto e pensava.
L'indomani, quando uscii dalla lezione delle cinque, Abby e Justin mi stavano aspettando. «Hai visto Rafe?» chiese lei.
«Dopo pranzo no.» Erano vestiti per l'esterno - Abby con il lungo soprabito grigio e Justin con una giacca di tweed abbottonata fino al collo - e sulle loro spalle e nei capelli brillavano goccioline di pioggia. «Non aveva un appuntamento per la tesi?»
«Così ha detto» rispose Abby spostandosi verso il muro del corridoio per far passare un gruppo di chiassose matricole. «Ma gli incontri non durano quattro ore, e comunque abbiamo già controllato nell'ufficio di Armstrong. È chiuso e non c'è nessuno.»
«Forse è andato al Buttery a farsi una birra» suggerii. Justin trasalì. Sapevamo bene che Rafe stava bevendo più del dovuto, però nessuno ne parlava mai.
«Abbiamo controllato anche lì» disse Abby. «E al Pav non può essere andato perché dice che è pieno di sportivi rompicoglioni che gli fanno tornare in mente gli anni in collegio. Non so dove altro cercare...»
«Che cosa succede?» chiese Daniel uscendo da un'aula di fronte.
«Non troviamo Rafe.»
«Mmh» mormorò cercando di non far cadere libri e fogli. «Avete provato a telefonargli?»
«Tre volte» disse Abby. «La prima ha respinto la chiamata, poi ha spento.»
«Ha lasciato le sue cose nella sua postazione?»
«No» rispose Justin appoggiandosi al muro e tormentandosi la pellicina di un'unghia. «Tutto sparito.»
«Questo è un buon segno» disse Daniel guardandolo con stupore. «Significa che non gli è capitato nessun imprevisto; non è stato investito da un'automobile, né è stato portato all'ospedale d'urgenza. Se ne è semplicemente andato da qualche parte per conto suo.»
«Sì, ma dove?» Justin stava alzando la voce. «E che cosa facciamo, adesso? Non può tornare a casa senza di noi. Lo lasciamo qui?»
Daniel guardò lungo il corridoio, al di sopra degli studenti in movimento. Nell'aria aleggiava l'odore di moquette bagnata; dietro l'angolo una ragazza strillò, un grido acuto e lancinante, e io sobbalzai insieme a Justin e Abby prima di rendermi conto che stava solo fingendosi terrorizzata, il grido si era già dissolto in uno scambio rumoroso di battute da corteggiamento. Impegnato a mordersi un labbro, Daniel pareva non essersene accorto.
Dopo un momento sospirò. «Rafe» disse con un rapido ed esasperato movimento della testa. «Insomma. Certo che lo lasciamo qui, non possiamo fare altro. Se vuole tornare chiama uno di noi o prende un taxi.»
«Fino a Glenskehy? Io di sicuro non mi rifaccio tutta la strada per venire a prenderlo solo perché gli va di comportarsi come un cretino...»
«Bene» tagliò corto Daniel. «Sono certo che un modo lo troverà.» Sistemò un foglio sfuggito alla pila ordinata che teneva tra le braccia. «Andiamo.»
Alla fine della cena - una cena pessima: petti di pollo congelati, riso, un piatto di frutta sbattuto in mezzo al tavolo - Rafe non si era ancora fatto vivo. Aveva riacceso il telefono, ma non rispondeva alle nostre chiamate. «Non è da lui» disse Justin grattando con l'unghia del pollice in maniera compulsiva la decorazione sul bordo del piatto.
«Invece sì» dichiarò Abby con fermezza. «Ha raccattato una ragazza come l'altra volta, ti ricordi? È stato via due giorni.»
«Era diverso. E perché fai sì con la testa?» chiese in tono acido a me. «Non te lo puoi ricordare, non c'eri nemmeno.»
Una scarica di adrenalina, ma nessuno mi guardava con sospetto; erano tutti troppo concentrati su Rafe per accorgersi di una scivolata insignificante. «Annuivo perché ne ho sentito parlare. Esiste una cosa che si chiama comunicazione, dovresti provarla, qualche volta...» Eravamo tutti di cattivo umore. Non mi preoccupava l'assenza di Rafe, eppure il fatto che non ci fosse mi innervosiva, come mi innervosiva non sapere se ciò dipendeva da solide ragioni investigative - l'intuito tanto adorato da Frank - o perché senza di lui l'equilibrio nella casa diventava instabile e precario.
«In che senso era diverso?» volle sapere Abby.
Justin scrollò le spalle. «All'epoca non abitavamo insieme.»
«E allora? Ragione di più. Che cosa deve fare se vuole andare a letto con una ragazza? La porta qui?»
«Dovrebbe telefonarci. O perlomeno lasciare un biglietto.»
«Per dire cosa?» chiesi io mentre tagliavo una pesca in minuscoli pezzi. «Cari amici, vado a scopare. Ci sentiamo domani, o più tardi stasera, se vado in bianco, oppure alle tre di notte, se si rivela una pessima scopata...»
«Non essere volgare» scattò Justin. «E per l'amor del cielo mangia quella maledetta pesca oppure piantala di giocarci.»
«Non sono volgare, sto solo esprimendo la mia opinione. E mangio quando e come mi pare e piace. Io ti dico come devi mangiare?»
«Dovremmo chiamare la polizia» disse.
«No» ribatté Daniel picchiettando una sigaretta sul polso. «A questo punto non serve. La polizia aspetta che sia trascorso un certo tempo - ventiquattr'ore, credo, forse di più - prima di mettere in moto le ricerche. Rafe è adulto e...»
«Teoricamente» disse Abby.
«... e ha tutto il diritto di passare la notte fuori.»
«E se avesse fatto qualcosa di stupido?» La voce di Justin stava diventando un gemito.
«Uno dei motivi per cui disapprovo gli eufemismi» disse Daniel spegnendo il fiammifero e lasciandolo cadere nel portacenere «è che impediscono ogni forma di comunicazione vera. Possiamo sicuramente scommettere sul fatto che Rafe abbia fatto qualche stupidaggine, ma la definizione copre una grande varietà di comportamenti. Se ti preoccupa l'idea che sia indaffarato a suicidarsi, francamente lo ritengo improbabile.»
Dopo un momento, senza alzare gli occhi dal piatto Justin chiese: «Vi ha mai raccontato di quell'episodio quando aveva sedici anni? Quando i suoi genitori gli avevano fatto cambiare scuola per la decima volta?».
«Niente passato» disse Daniel.
«Non voleva uccidersi» disse Abby. «Voleva attirare l'attenzione di quel cazzone di suo padre e non ha funzionato.»
«Ho detto niente passato.»
«Non sto parlando del passato. Sto solo dicendo a Justin che non si tratta della stessa cosa. Non è stato completamente diverso, in questi ultimi mesi? Molto più felice?»
«Negli ultimi mesi» sottolineò Justin. «Non nelle ultime settimane.»
«Sì, è vero» disse lei tagliando una mela a metà con un colpo secco «nessuno di noi è al suo massimo. Comunque rimane una situazione diversa. Rafe sa di avere una casa, sa che gli vogliamo bene, non si farà del male. Sta passando un momento difficile ed è andato a stonarsi e a rincorrere le sottane. Quando avrà finito tornerà.»
«E se...» Justin non finì la frase. «Odio questa storia» disse piano rivolto al piatto. «La odio veramente.»
«Non piace a nessuno» ribatté secco Daniel. «È stato un periodo faticoso per tutti. Dobbiamo accettarlo e avere pazienza con noi stessi e con gli altri, mentre ci riprendiamo.»
«Hai detto che il tempo avrebbe migliorato le cose. Invece non stanno migliorando, Daniel, peggiorano.»
«Pensavo a un periodo un po' più lungo di tre settimane. Se ti sembra irragionevole spiegamelo, per favore.»
«Come fai a essere così calmo?» Justin era vicino alle lacrime. «Stiamo parlando di Rafe.»
«Qualsiasi cosa Rafe stia facendo» rispose l'altro voltando la testa per evitare gentilmente di buttarci il fumo addosso «non riesco a capire che differenza farebbe, se diventassi isterico.»
«Io non sono isterico. È così che reagiscono le persone normali quando uno dei loro amici scompare.»
«Justin» disse Abby con gentilezza «tutto si sistemerà.» Ma Justin non l'ascoltava.
«Solo perché tu sei un robot... Mio Dio, Daniel, per una volta, almeno per una volta, mi piacerebbe vedere che ti comporti come se ti importasse qualcosa di noi...»
«Penso che tu abbia tutte le prove per sapere che voi quattro mi state a cuore profondamente» gli rispose Daniel in tono freddo.
«Non ho un bel niente. Quali prove? Ho tutte le prove per dire che non te ne frega un accidenti...»
Abby fece un piccolo gesto, indicando con una mano il soffitto, la stanza, il giardino. C'era qualcosa di stanco, quasi rassegnato, nel movimento della mano che le ricadeva in grembo.
«Giusto» disse Justin, accasciandosi sulla sedia. La luce gli incavava spietata le guance, scavando un solco verticale fra le sopracciglia, e per un secondo vidi che aspetto avrebbe avuto da lì a cinquant'anni. «La casa. Naturalmente. E guarda dove ci ha portati.»
Seguì un breve, tagliente silenzio. «Non ho mai sostenuto» disse Daniel, e la sua voce esprimeva un'intensità di emozioni che non avevo mai sentito prima «di essere infallibile. Mi sono limitato a provare con tutto me stesso a fare la cosa migliore per noi cinque. Se pensi che abbia fallito, sentiti pure libero di decidere autonomamente. Se pensi che non dovremmo vivere sotto lo stesso tetto, vattene via. Se pensi che dovremmo denunciare la scomparsa di Rafe, alza il telefono e chiama la polizia.»
Dopo un momento Justin scrollò le spalle con aria infelice e riprese a tormentare il bordo del piatto. Daniel fumava, fissando un punto a media distanza. Abby mangiava la sua mela. Io trasformai la pesca in purè e nessuno parlò per molto tempo.
«Ho sentito che avete perso il seduttore» disse Frank quando lo chiamai dal mio albero. Evidentemente gli avevamo ispirato il desiderio di mangiare cibo sano, perché lo sentivo sputare dei semi con un suono poco piacevole. «Se lo trovassimo morto, finalmente qualcuno mi crederebbe sull'esistenza dello straniero misterioso. Avrei dovuto puntare.»
«Smettila di fare il fesso, Frankie» dissi.
Rise. «Tu non sei preoccupata, vero? Sul serio?»
«Mi piacerebbe sapere dov'è, tutto qui.»
«Allora rilassati, piccola. Perché una bella signorina di mia conoscenza che cercava di scoprire dov'era finito il suo amico Martin, ha chiamato per sbaglio il numero di Rafe. Sfortunatamente non ha detto dove si trovava, prima che l'equivoco venisse chiarito, ma i rumori di fondo rendevano abbastanza bene l'idea. Abby ci ha azzeccato: il vostro amico è in un pub non so dove a ubriacarsi e a correre dietro alle signore. Lo riavrete indietro sano e salvo, eccetto per dei postumi a cinque stelle.»
Quindi anche Frank si era preoccupato per la sparizione di Rafe, al punto di chiedere a una poliziotta con la voce sexy di fare quella telefonata. Forse non aveva usato Naylor soltanto per ottenere la meglio su Sam, forse lo riteneva davvero un possibile colpevole. Rannicchiai le gambe per appoggiare i piedi su un ramo più alto. «Fantastico» dissi. «È una bella notizia.»
«E allora perché sembra che ti sia morto il gatto?»
«Sono messi male» dissi, ed ero contenta che non mi potesse vedere in faccia. Mi pareva di stare per cadere dall'albero per la stanchezza, e per resistere mi aggrappai a un ramo. «Non so perché - se non riescono a gestire il fatto che io sia stata accoltellata o se non sono in grado di tenere sotto controllo la cosa che non ci dicono, qualunque essa sia -, ma stanno cadendo a pezzi.»
Dopo un momento Frank disse in tono quasi affettuoso: «Lo so che ti piacciono, piccola. Va bene; non sono il mio genere ma non ho alcuna obiezione se il fatto di pensarla diversamente ti rende il lavoro più facile. Però non sono tuoi amici. I loro problemi non sono i tuoi problemi; sono le tue opportunità».
«Lo so» risposi. «Lo so. Solo che è un triste spettacolo.»
«Non c'è niente di male nel provare un po' di compassione» replicò allegro dando un grosso morso alla cosa che stava mangiando. «Finché non ti prende la mano. Ho qualcosa per distrarti dai loro guai, se ti interessa. Il vostro Rafe non è l'unico scomparso.»
«Di che cosa stai parlando?»
Sputò i semi. «Avevo intenzione di tenere d'occhio Naylor da una distanza di sicurezza, per farmi un'idea delle abitudini, di chi frequenta eccetera e darti qualcosa in più su cui riflettere, invece oggi non si è presentato al lavoro. I genitori non lo vedono da ieri notte e lo trovano strano; il padre è in carrozzella, non è da John lasciare la mammina a fare da sola tutta la fatica. Il tuo Sammy e un paio di agenti stanno sorvegliando la casa e abbiamo avvertito Byrne e Doherty di stare all'erta. Ammesso che serva a qualcosa.»
«Non andrà lontano» dissi. «Quel ragazzo se ne andrebbe da Glenskehy solo trascinato via con la forza, scalciando e urlando. Si farà vivo.»
«Sì, lo credo anch'io. In riferimento all'omicidio non credo che la sua sparizione incida in un senso o nell'altro; è un mito che scappino soltanto i colpevoli. Però sono certo di una cosa: qualsiasi sia la ragione che fa scappare Naylor, non si tratta di paura. A te è sembrato spaventato?»
«No. Neanche un po'. Furibondo, piuttosto.»
«Anche a me. Non era per niente contento di essere stato interrogato. L'ho osservato mentre usciva: a due passi dalla porta si è girato e ci ha sputato sopra. È il comportamento di un rompicoglioni incazzato, Cassie, e sappiamo già che non ha un bel carattere e, come hai detto tu, non deve essersi allontanato. Non so se è sparito perché non vuole che lo sorvegliamo, o perché ha in mente qualcosa, comunque tu sta' attenta.»
Lo ascoltai, e per tutto il tragitto fino a casa mi tenni in mezzo ai viottoli, con la pistola pronta a sparare. Non la rimisi sotto la guaina fino a quando il cancello sul retro non si richiuse alle mie spalle e mi sentii al sicuro nel giardino, al limite dei due binari disegnati dalla luce che arrivava dalle finestre.
Non avevo chiamato Sam. Non perché me ne ero dimenticata, questa volta. Non gli avevo telefonato perché non sapevo se avrebbe risposto, o che cosa ci saremmo detti se l'avesse fatto.