6

 

Mi svegliarono i passi che risuonavano di. sotto. Stavo sognando qualcosa di cupo e confuso, e impiegai un lunghissimo secondo per districare la mente e capire dove mi trovavo. Non avevo la pistola vicino e cominciai a cercarla in preda al panico, prima di ricordare.

Mi misi seduta. Apparentemente non mi avevano avvelenata, dopo tutto; mi sentivo bene. L'odore di uova fritte si era insinuato sotto la porta e sentivo il ritmo veloce delle loro voci, più in basso. Merda: avevo perso i preparativi della colazione. Era passato tanto di quel tempo da quando mi ero potuta permettere di dormire fin dopo le sei, che non mi ero preoccupata di puntare la sveglia. Sistemai il microfono al suo posto sotto le bende, infilai un paio di jeans e una maglietta e un pullover gigantesco che doveva essere appartenuto a uno dei ragazzi - l'aria era gelida - e scesi.

La cucina si trovava sul retro della casa, ed era molto migliorata rispetto a come appariva nei video dell'orrore girato da Lexie. Erano scomparsi la muffa, le ragnatele e il disgustoso linoleum; il pavimento adesso era di pietra, c'era un tavolo di legno scartavetrato e sopra il davanzale accanto al lavello un vaso di gerani. Con la vestaglia di flanella rossa e il cappuccio alzato Abby era intenta a far rosolare pancetta e salsicce. Vestito di tutto punto Daniel sedeva leggendo un libro tenuto aperto dal bordo del piatto, e ingurgitava le uova fritte con metodico piacere. Justin tagliava la sua fetta di pane tostato in triangoli e si lamentava.

«Onestamente non ho mai visto niente di simile. La settimana scorsa hanno fatto la lettura in due, e gli altri sono rimasti lì a guardare e masticare gomma americana come una mandria di vacche. Sei sicuro di non voler fare cambio almeno per oggi? Magari tu riesci a ricavare da loro qualcosa di più...»

«No» rispose Daniel senza alzare gli occhi dalla pagina.

«Ma i tuoi stanno facendo i sonetti. Io li conosco i sonetti. Sono bravo con i sonetti.»

«No.»

«Buongiorno» salutai dalla soglia.

Daniel ricambiò con un cenno e riprese a leggere. Abby agitò la paletta. «Buongiorno a te.»

«Dolcezza» disse Justin. «Vieni qui. Lasciati guardare. Come ti senti?»

«Bene» dissi. «Scusa Abby, ho dormito troppo. Dài, ti aiuto...»

Allungai una mano per prendere la paletta, ma lei me la sottrasse. «No, hai fatto benissimo, oggi ti considero ancora convalescente, domani vengo a tirarti giù dal letto. Siediti.»

Ancora quella frazione di secondo sospesa: convalescente. Daniel e Justin masticavano. Presi posto, Justin afferrò un'altra fetta di pane tostato, Daniel voltò la pagina e spinse verso di me la teiera di metallo smaltato di rosso.

Abby servì tre fette di pancetta e due uova in un piatto, e senza chiedere me lo mise davanti. «Oh, brrr» disse tornando di corsa ai fornelli. «Cristo, Daniel, lo so come la pensi sui doppi vetri, però, davvero, dovremmo almeno provare a...»

«I doppi vetri sono la progenie del demonio. Sono atroci.»

«Sì, ma tengono caldo. Se non ci procuriamo dei tappeti...»

Justin mangiucchiava il pane, tenendosi il mento con una mano e scrutandomi con tanta intensità da innervosirmi. Mi concentrai sul cibo. «Sei sicura di stare bene?» chiese con tono ansioso. «Sei pallida. Non vieni all'università, vero?»

«Non credo» dissi. Non ero certa di poter affrontare una giornata intera con loro, non subito. E inoltre volevo l'opportunità di dare un'occhiata alla casa in santa pace; volevo quel diario, o agenda, o qualsiasi cosa fosse. «Mi hanno raccomandato di starmene qualche giorno tranquilla. Il che mi ricorda le mie lezioni alle matricole: che ne è stato?» Ufficialmente questi corsi finivano prima delle vacanze di Pasqua, ma c'è sempre qualcuno che non si sa perché riesce a trascinarsi per tutta l'estate. Mi erano rimaste due classi, una il martedì e una il giovedì. E non morivo dalla voglia di incontrarle.

«Le abbiamo coperte noi» disse Abby riempiendo un piatto per sé e raggiungendoci a tavola «per così dire. Daniel ha letto il Beowulf con il tuo gruppo del giovedì. In originale.»

«Stupendo» dissi. «Come l'hanno presa?»

«Non troppo male, in realtà» rispose lui. «All'inizio erano atterriti, poi qualcuno ha fatto un paio di commenti originali. Piuttosto interessante.»

Entrò Rafe incespicando, con i capelli ritti sulla testa, in maglietta e pantaloni del pigiama, con l'aria di essere guidato dal pilota automatico. Salutò tutti con un cenno generale e annaspò in cerca di una tazza, la riempì di caffè nero, sottrasse a Justin un triangolino di pane e uscì di nuovo.

«Venti minuti!» gli gridò Justin. «Non ti aspetto!» Rafe gli rispose con un gestaccio e sparì senza voltarsi.

«Non so perché sprechi il tuo tempo» disse Abby tagliando la salsiccia. «Nel giro di cinque minuti si sarà dimenticato di averti visto. Dopo il caffè. Con Rafe qualsiasi cosa dopo il caffè.»

«Sì, poi piagnucola che non gli do il tempo di prepararsi. Questa volta lo lascio a casa, e se arriverà in ritardo se la vedrà lui. Può prendersi una macchina, oppure andare all'università a piedi. Non mi interessa...»

«Tutte le mattine» mi disse Abby ignorando Justin, che brandiva il coltello del burro esprimendo la sua indignazione.

Alzai gli occhi al cielo. Oltre la portafinestra alle sue spalle un coniglio mordicchiava l'erba del prato lasciando piccole impronte scure sulla bianca rugiada.

 

Mezz'ora più tardi Rafe e Justin partirono. Justin si era fermato con la sua auto davanti a casa e aspettava seduto, suonando il clacson e alternativamente urlando minacce irripetibili in direzione della finestra, fino a quando Rafe non si precipitò in cucina con il cappotto quasi infilato e lo zaino che penzolava da una mano, afferrò un'altra fetta di toast e tenendola fra i denti corse fuori chiudendo la porta con un tonfo da scuotere la casa. Abby lavò i piatti, canticchiando con una bella voce da contralto: «The water is wide, I cannot get o'er...». Daniel fumava una sigaretta senza filtro, sottili volute che si arricciavano attraversando i pallidi raggi del sole che entravano dalla finestra. Dall'atteggiamento rilassato capii che ero stata accettata.

La cosa avrebbe dovuto farmi stare molto meglio di quanto in realtà mi sentissi. Non mi era mai passato per la testa che questa gente mi potesse piacere, e invece... Sul conto di Daniel e Rafe non ero ancora sicura, però Justin era affettuoso in una maniera resa ancora più simpatica dal fatto che fosse tanto imbranato e spontaneo, e su Abby aveva ragione Frank: in una situazione diversa mi sarebbe piaciuto che diventassimo amiche.

Avevano appena perduto una di loro e non lo sapevano nemmeno, ed esisteva ancora la possibilità che fosse successo per causa mia; e io me ne stavo seduta nella loro cucina a fare colazione e a prendermi gioco di tutti. I sospetti della sera prima - filetto alla cicuta, addirittura - sembravano talmente ridicoli e gotici che avrei voluto sprofondare dalla vergogna.

«Dobbiamo darci una mossa, Daniel» disse dopo un po' Abby guardando l'ora e asciugandosi le mani nello strofinaccio. «Hai bisogno di qualcosa dal mondo, Lex?»

«Le sigarette» risposi. «Le ho quasi finite.»

Pescò un pacchetto di Marlboro Lights nella tasca della vestaglia e me lo lanciò. «Prendi queste. Ne compro delle altre sulla strada. Che cosa pensi di fare tutto il giorno?»

«Fare la pigra sul divano, leggere e mangiare. Abbiamo biscotti?»

«Quelli alla vaniglia che piacciono a te sono nella scatola e quelli al cioccolato nel congelatore.» Ripiegò con cura lo strofinaccio e lo appoggiò sul ripiano della cucina. «Sei sicura di non volere che qualcuno resti con te?»

Justin me lo aveva già chiesto almeno sei volte. Alzai gli occhi al cielo. «Sicurissima.»

Non mi sfuggì la rapida occhiata che Abby scoccò a Daniel, il quale però rimase concentrato a girare la pagina e non badò a noi. «D'accordo» disse Abby. «Non svenire sulle scale né niente del genere. Tra cinque minuti, Daniel?»

Lui annuì senza alzare gli occhi. Abby corse di sopra con passi leggeri; la sentii aprire e chiudere i cassetti e, dopo un minuto, riprendere a cantare la stessa antica canzone popolare: «I leaned my back up against an oak, I thought it was a trusty tree...».

Lexie fumava più di me, un pacchetto al giorno, e cominciava subito dopo colazione. Presi i fiammiferi di Daniel e me ne accesi una.

Lui infilò un segnalibro tra le pagine, chiuse il volume e lo spinse di lato. «Sei certa di poter fumare?» chiese. «Viste le tue condizioni, intendo.»

«No» risposi in tono allegro, soffiando il fumo nella sua direzione. «E tu?»

Sorrise. «Questa mattina hai un aspetto migliore» disse. «Ieri sera sembravi molto stanca, smarrita, quasi. Cosa prevedibilissima, comunque è bello vederti tornare in forma.»

Presi mentalmente nota di diventare gradualmente più attiva e vivace nei giorni successivi. «In ospedale hanno continuato a ripetere che ci sarebbe voluto un po' per riprendersi del tutto e di non avere fretta» dissi «però possono metterselo in quel posto. Sono stufa di essere malata.»

Il sorriso di Daniel diventò più radioso. «Bene, lo immagino. Sarai stata di sicuro una paziente modello.» Si allungò verso i fornelli per prendere la caffettiera e controllare se era rimasto del caffè. «Che cosa ti ricordi dell'incidente?»

Mi osservava, versando il caffè rimasto; l'espressione era serena, attenta, tranquilla. «Un bel cazzo di niente» dissi. «Di tutto quel giorno niente, e qualche frammento del giorno prima. Credevo che i poliziotti ve lo avessero detto.»

«Infatti, ma questo non significa che corrispondesse alla verità. Magari avevi i tuoi motivi per raccontargli di non ricordare.»

Lo guardai sconcertata. «Tipo?»

«Non ne ho idea» disse Daniel riappoggiando con cautela la caffettiera sul fornello. «Spero comunque che se ti tornasse in mente qualcosa e non fossi sicura di volerla raccontare alla polizia tu non debba affrontarla da sola; parlane con me, o con Abby, d'accordo?»

Sorseggiò il caffè con la caviglia di una gamba appoggiata con precisione sul ginocchio dell'altra, guardandomi con calma. Cominciavo a capire che cosa aveva inteso Frank dicendo che quei quattro concedevano pochissimo. L'espressione di Daniel si sarebbe adattata perfettamente sia a qualcuno che avesse appena finito le prove del coro, sia a qualcuno che avesse fatto fuori dodici orfani a colpi d'ascia. «Sì, certo» dissi. «Ma tutto quello che ricordo è che martedì sera sono tornata a casa dall'università, e che poi stavo male, anzi malissimo, in un letto d'ospedale, e questo l'ho già detto alla polizia.»

«Ehm.» Daniel mi avvicinò il portacenere. «La memoria funziona in maniera strana. Vorrei chiederti: se tu dovessi...» Ma in quel momento Abby scese le scale, cantando ancora, e lui scosse la testa e si alzò battendo le mani sulle tasche dei pantaloni.

 

Salutai dall'ultimo gradino l'automobile di Daniel che usciva dal viale con un'abile manovra e spariva sotto i ciliegi. Quando fui certa che fossero lontani chiusi la porta e rimasi nell'atrio, in ascolto della casa deserta. La sentivo acquietarsi con un sussurro lungo come il fruscio della sabbia che si sposta, in attesa di vedere che cosa avrei fatto.

Sedetti sulle scale. La passatoia era stata eliminata e non più sostituita; i gradini erano consumati nel mezzo dai passi di molte generazioni, opachi ai lati. Mi appoggiai più comodamente possibile al montante e ripensai a quel diario.

Se fosse stato in camera di Lexie, gli uomini del dipartimento l'avrebbero trovato. Quindi rimaneva il resto della casa, l'intero giardino e il problema di che cosa contenesse per indurre Lexie a nasconderlo a tutti. Per un secondo risentii la voce di Frank alla riunione: "La nostra ragazza si teneva gli amici stretti e i segreti più stretti".

L'altra possibilità era che Lexie l'avesse con sé, nascosto in una tasca, quand'era morta, e che l'assassino se ne fosse impossessato. Ciò avrebbe spiegato il tempo dedicato - e il rischio corso - per cercarla, portarla al riparo, al buio, e le mani che si muovevano rapide sul cadavere, controllando le tasche intrise di pioggia e sangue: magari aveva bisogno di quel diario.

Coincideva con quello che sapevo di lei - si teneva stretti i suoi segreti - ma su un piano pratico doveva trattarsi di un diario molto piccolo per stare in una tasca, e lei avrebbe dovuto spostarlo a ogni cambio di vestiti. Più semplice e sicuro trovargli un nascondiglio in casa. Un luogo al riparo dalla pioggia e dai ritrovamenti accidentali; un luogo privato, pur vivendo con altre quattro persone, ma facile per lei da raggiungere ogni qualvolta ne avesse avuto bisogno, senza attirare l'attenzione; non la sua camera.

C'era un bagno al piano terra e uno più grande al primo piano. Guardai prima nel gabinetto, ma siccome era poco più grande di un armadietto una volta controllata la vaschetta dell'acqua avevo esaurito tutte le possibilità. Il bagno di sopra era davvero enorme: piastrelle anni Trenta con profilo bianco e nero, vasca scheggiata, finestre senza vetri smerigliati con tendine di pizzo ingiallite. La porta si chiudeva con un catenaccio.

Nella vaschetta niente, neanche dietro. Sedetti sul pavimento e provai a staccare il pannello di legno su un fianco della vasca. Si sfilò in fretta con un rumore che l'acqua dello scarico o del rubinetto avrebbe coperto facilmente. Sotto, ragnatele, escrementi di topo, impronte di polpastrelli nella polvere e, nascosta in un angolo, una piccola agenda rossa.

Respiravo come se avessi corso. Non mi piaceva, non mi piaceva il fatto che, pur avendo centinaia di metri quadri in cui cercare, avessi puntato subito al nascondiglio giusto, come se lo conoscessi già. La casa sembrava essersi stretta sempre più intorno a me, inclinandosi e osservando da sopra la mia spalla, attenta.

Andai su in camera mia - camera di Lexie - a prendere i guanti e una lima per le unghie, poi tornai in bagno e sedendomi per terra tirai fuori l'agendina prendendola per due angoli. Usai la lima per voltare le pagine. Prima o poi il dipartimento vi avrebbe cercato le impronte.

Avevo sperato in un diario pieno di confidenze femminili, ma avrei dovuto immaginare che non sarebbe stato così. Era soltanto un'agenda giornaliera con la copertina in finta pelle rossa. I primi mesi erano coperti di appuntamenti e appunti nella grafia rapida e arrotondata di Lexie: "Lattuga, brie, sale all'aglio; ore 11 lezione, aula 3017; bolletta el., chiedere a D libro di Ovidio?". Annotazioni domestiche, innocenti, e leggerle mi innervosiva più che mai. Se fai la detective ti abitui a violare la privacy della gente in tutti i modi possibili; avevo dormito nel suo letto e portavo i suoi indumenti, ma queste... queste erano le briciole quotidiane di un'esistenza, intime e private, e io non avevo alcun diritto di leggere.

Negli ultimi giorni di marzo, però, qualcosa cambiava. Sparivano le liste della spesa e gli orari delle lezioni e le pagine erano vuote. Tre appunti soltanto, scribacchiati in una grafia spigolosa. L'ultimo giorno di marzo: 10,30 N. Il cinque di aprile: 11,30 N, e l'undici, due giorni prima della morte: 11 N.

Niente N in gennaio e febbraio, nessun accenno fino all'appuntamento del 31 marzo. L'elenco delle PC di Lexie non era lungo, e per quel che ricordavo non c'era nessuno il cui nome iniziasse per N. Un soprannome? Un luogo? Un caffè? Qualcuno che apparteneva alla sua vita precedente, come aveva detto Frank, riaffiorato dal nulla per cancellare tutto il suo mondo?

Negli ultimi due giorni di aprile c'era un elenco di lettere e numeri, nella stessa calligrafia frenetica. AMS 79, LHR 34, EDI 49, CDG 59, ALC 104. Punti di un gioco, somme di denaro prestato o ricevuto? Le iniziali di Abby erano AMS - Abigail Marie Stone -, le altre invece non corrispondevano alla lista di PC. Rimasi a fissare a lungo quelle lettere, ma l'unica cosa che mi facevano venire in mente erano le targhe sulle vetture d'epoca, e per nessuna ragione riuscivo a immaginare Lexie appassionata di automobili e, nel caso lo fosse stata, non capivo perché avrebbe dovuto trattare la cosa come un segreto di Stato.

Nessuno aveva mai accennato al fatto che si fosse comportata in maniera strana, o nervosa, durante le ultime settimane. Sembrava stare bene, avevano detto tutte le persone interrogate da Frank e da Sam, sembrava contenta, era la stessa di sempre. Nell'ultimo video girato tre giorni prima della morte la si vedeva scendere da una scala in soffitta, un fazzoletto rosso annodato sulla testa, completamente coperta di polvere, che starnutiva e rideva tenendo qualcosa nella mano libera. «No, guarda, Rafe guarda! È...» - starnuto esplosivo - «un binocolo da teatro, credo che sia di madreperla, non è incredibile?» Se stava vivendo un dramma l'aveva nascosto anche troppo bene.

Il resto dell'agenda era vuoto, fatta eccezione per il giorno ventidue agosto: "compl. papà".

Non si era trattato di uno scambio di persona né di un'allucinazione collettiva, dopo tutto. Aveva un padre da qualche parte, e non intendeva dimenticarne il compleanno. Quel debole legame con la sua vita precedente era stato conservato.

Sfogliai le pagine da capo, più lentamente, questa volta, per verificare che non mi fosse sfuggito qualcosa. Più o meno all'inizio c'erano alcune date circolettate: 2 gennaio, 29 gennaio, 25 febbraio. Nella prima pagina c'era un minuscolo calendario del dicembre 2004 e, come prevedibile, un cerchietto intorno al giorno sei.

Cicli a intervalli di ventisette giorni. Era puntuale come un orologio e ne teneva il conto. Alla fine di marzo, mancando il cerchietto intorno al 24, doveva aver sospettato di essere incinta. Da qualche parte - non a casa, al Trinity o in un bar, dove nessuno facesse domande trovando la confezione nel cestino dei rifiuti - aveva fatto un test di gravidanza e qualcosa era cambiato. La sua agenda si era trasformata in un segreto gelosamente protetto, N era entrato nella sua vita, e tutto il resto eliminato.

N. Un'ostetrica? Una clinica? Il padre del bambino?

«Che cosa cavolo stavi combinando, ragazza?» chiesi a bassa voce alla stanza deserta. Il sussurro alle mie spalle mi fece sobbalzare, ma era soltanto la brezza che muoveva le tende di pizzo.

 

Pensai di portare l'agenda in camera, poi decisi che Lexie doveva aver avuto le sue buone ragioni per non farlo, e che fino a quel momento in fondo il nascondiglio si era rivelato efficace. Copiai le annotazioni sulla mia agenda, rimisi la sua sotto la vasca e sistemai il pannello di legno. Poi feci un giro della casa per familiarizzare con i dettagli e perquisire le stanze anche se in maniera approssimativa. Frank si aspettava di certo di sentire che avevo fatto qualcosa di utile quel giorno e già sapevo che non gli avrei detto dell'agenda, non ancora, perlomeno.

Cominciai dal basso. Se avessi trovato qualcosa di utile ci sarebbe stata una battaglia per accertare l'ammissibilità della prova. Abitavo nella casa, il che significava poter guardare negli spazi comuni, ma le stanze degli altri quattro sostanzialmente erano fuori della mia portata, inoltre mi trovavo lì sotto mentite spoglie: proprio il genere di pasticcio che consente agli avvocati di comprarsi la Porsche. Però quando si sa che cosa si sta cercando, si riesce sempre a trovare un modo per procurarselo in modo legale.

La casa aveva quell'aria naturalmente sbilenca delle dimore descritte nei libri di fiabe - e continuavo ad aspettarmi di precipitare giù per una scala segreta e spuntare in una stanza affacciata su un corridoio che esisteva soltanto a lunedì alterni. Procedetti spedita: non riuscivo a rallentare, non ero capace di liberarmi della sensazione che chissà dove in soffitta un enorme pendolo facesse il conto alla rovescia consumando grandi manciate di secondi. Il pianterreno ospitava il doppio salone, la cucina, il bagno piccolo e la stanza di Rafe che era un vero disastro - vestiti accatastati negli scatoloni, bicchieri sporchi e pezzetti di carta ovunque -, ma un disastro consapevole; si capiva subito che di solito almeno lui sapeva dove trovare le sue cose. Su una parete c'erano gli schizzi a carboncino di un affresco che prevedeva un albero di faggio, un setter a pelo rosso e un uomo con cappello a cilindro. Sulla mensola del camino - eureka - la Testa: un busto di porcellana da frenologo con la bandana di Lexie intorno alla fronte e uno sguardo nobile. Cominciavo a trovare simpatico Rafe.

Al primo piano la stanza di Abby e il bagno grande su un lato, quella di Justin e una stanza vuota sull'altro: o era risultato troppo complicato trasferirsi al piano superiore, oppure Rafe preferiva disporre di un piano tutto per sé. Cominciai dalla stanza disabitata. Per quanto fosse ridicolo, l'idea di entrare nelle altre due mi faceva sentire in bocca un sapore cattivo.

Era ovvio che il prozio Simon non aveva mai buttato via niente. La stanza aveva un'aria schizofrenica, un po' onirica, come una specie di armadio mentale dimenticato. Tre bollitori di rame bucati, un cilindro coperto di muffa, un cavallo a dondolo rotto che mi faceva venire in mente Il padrino, e mezza fisarmonica. Pur non intendendomi di antiquariato era evidente che non c'era niente di valore lì dentro, o quantomeno non sufficientemente di valore da costituire il movente di un omicidio. Sembravano più quel tipo di oggetti che si lasciano davanti alla porta nella speranza che uno studente ubriaco appassionato di kitsch se li porti via.

Abby e Justin erano ordinati, sebbene in modi molto diversi. A lei piacevano i ninnoli - vasetto di alabastro con le violette, un candelabro di cristallo, una vecchia scatola di latta con l'immagine di una ragazza dalle labbra molto rosse in un improbabile costume da egiziana sul coperchio, tutto lucido e ordinatamente collocato su ogni superficie piana disponibile - e i colori; le tende erano state confezionate con strisce di vecchie stoffe cucite insieme, damasco rosso, cotone stampato con un motivo di campanule, pizzo delicato, e pezzetti di tessuti diversi erano stati incollati sui buchi nella tappezzeria scolorita. Davano alla stanza un'aria confortevole e stravagante e vagamente irreale, come la tana di una creatura del bosco che porta un cappellino con la veletta e mangia solo tortine di marmellata.

Inaspettatamente Justin era un minimalista. Un mucchietto di libri e fotocopie e pagine scritte a mano accanto al comodino, e la porta tappezzata di fotografie del gruppo - incollate in modo simmetrico, in un apparente ordine cronologico, e coperte da una specie di sigillante trasparente - tutto ordinato, pulito e funzionale: letto bianco, tende bianche, mobili lucidati, file ordinate di calzini appallottolati nei cassetti e scarpe lucide sul ripiano più basso dell'armadio. Nell'aria un debole profumo di qualcosa che assomigliava al cipresso, virile.

Niente di strano in nessuna delle stanze, per quanto potevo vedere, eppure in tutti e tre i loro occupanti c'era qualcosa che mi colpiva anche se non sapevo che cosa. Mi ci volle un po' per capire. In ginocchio per guardare sotto il letto di Justin come una ladra (niente, nemmeno gomitoli di polvere) ebbi l'illuminazione: si erano stabiliti lì in maniera permanente. Io non avevo mai abitato in una casa dove potessi modificare la tappezzeria o incollare cose - gli zii non si sarebbero proprio opposti, però a casa loro ci si muoveva in punta di piedi, in un'atmosfera che non faceva nemmeno venire in mente certe cose, e successivamente i miei padroni di casa si erano sempre comportati come se fossero convinti di avermi affittato un capolavoro di Frank Lloyd Wright; avevo impiegato mesi a convincere quello attuale che il valore del suo immobile non sarebbe crollato se avessi ridipinto le pareti di bianco, coprendo quel giallo banana vomitata, e portato il tappeto dai colori allucinanti nella baracca in giardino. Nulla di tutto ciò mi aveva mai disturbata ma all'improvviso, circondata da questo senso di proprietà felice e altezzoso - mi sarebbe piaciuto un affresco in casa e Sam avrebbe potuto disegnarlo - mi sembrò molto strano dover vivere in balia dei capricci di un estraneo a cui chiedere, come una bambina, l'autorizzazione per lasciare un qualsiasi segno di me.

Secondo piano: la mia camera, quella di Daniel e due vuote. Quella a sinistra della camera di Daniel era zeppa di mobili accatastati disordinatamente come se fossero crollati in seguito a un terremoto: quelle seggioline grigie che non si usano mai, una vetrinetta scartata anche dal movimento rococò e tutto ciò che potrebbe stare tra questi due estremi. Alcuni pezzi erano stati portati via - lo si vedeva dai segni lasciati sul pavimento, dai punti vuoti -, forse per arredare le altre stanze, quando i cinque si erano trasferiti. Rimaneva su tutto uno spesso strato di polvere appiccicosa. Nella stanza vicino alla mia i reperti erano più originali (un antico recipiente per l'acqua calda crepato, stivali verdi di gomma incrostati di fango, un cuscino ricamato con scena di cervi e fiori rosicchiato da un topo), instabili pile di scatoloni e vecchie valigie di cuoio. Qualcuno aveva cominciato a esaminare le cose non molto tempo prima; c'erano ditate nella polvere su alcune valigie, una era stata addirittura in parte ripulita, misteriosi arabeschi nella polvere negli angoli e scatole parzialmente svuotate. Qualche impronta di scarpa sul pavimento.

Non un brutto posto per nascondere qualcosa: l'arma del delitto, una prova, un oggetto di valore. Controllai tutte le valigie già aperte facendo attenzione a non coprire le impronte, nel caso ci servissero in futuro, ma erano zeppe di fogli pieni di un'incomprensibile scrittura a penna stilografica. Si sarebbe detto che qualcuno, forse il prozio Simon, avesse cercato di scrivere la storia della famiglia March. Erano in circolazione da un pezzo - si risaliva al 1734, anno di costruzione della casa - ma non pareva che avessero fatto niente di più interessante che sposarsi, acquistare proprietà e gradualmente perderle.

La camera di Daniel era chiusa a chiave. Tra le arti apprese da Frank c'è quella di aprire le porte, e la serratura sembrava piuttosto semplice, ma ero già agitata per il diario e quella porta non faceva che peggiorare il mio stato d'animo. Non potevo sapere se Daniel chiudesse per abitudine o se l'avesse fatto appositamente per me. Doveva esserci una trappola, ne ero sicura - un capello sullo stipite, un bicchiere d'acqua che si sarebbe rovesciato - e mi sarei tradita.

Conclusi il mio giro con la stanza di Lexie - era già stata perquisita, ma volevo farlo personalmente. A differenza di zio Simon, Lexie non conservava niente di niente. Non era una camera ordinata - libri gettati sugli scaffali, anziché allineati, vestiti ammucchiati sul fondo dell'armadio; sotto il letto tre pacchetti di sigarette vuoti, mezza barretta Mars e una pagina accartocciata di appunti su Villette, l'ultimo romanzo di Charlotte Brontë -, ma così spoglia non poteva risultare neanche disordinata. Niente soprammobili, né biglietti del cinema usati o fiori secchi o biglietti di compleanno, nessuna fotografia; dei suoi ricordi restavano soltanto i video girati con il cellulare. Sfogliai i libri e capovolsi tutte le tasche senza ricavare niente.

La stanza, però, aveva la stessa aria di stabilità delle altre. Lexie aveva fatto la prova con alcuni colori per pareti dietro il letto, grandi strisce di pittura ocra, rosa antico, blu Cina. Ancora quel lampo di invidia. "Vaffanculo" le dissi tra me e me "magari hai vissuto qui più a lungo, però io vengo pagata, per farlo."

Sedetti sul pavimento, tirai fuori dalla valigia il mio cellulare e chiamai Frank. «Ehi, piccola» disse al secondo squillo. «Già bruciata?»

Era di buon umore. «Sì» dissi. «Mi dispiace. Vieni a prendermi.»

Rise. «Come va?»

Inserii il vivavoce e appoggiai il telefono per terra per infilare guanti e agenda nella borsa. «Tutto okay, credo. Non penso che qualcuno di loro sospetti, per ora.»

«Perché dovrebbero sospettare? A chi potrebbe venire in mente un'idea così improbabile? Niente di interessante per me?»

«Sono tutti a lezione, ho dato un'occhiata veloce in giro. Nessun coltello insanguinato, né vestiti, nessun Renoir né confessioni firmate. Nemmeno una scorta di erba o riviste pornografiche. Sono spaventosamente casti, per essere studenti.» Le mie medicazioni erano state confezionate in pacchetti numerati in modo che le macchie diventassero man mano più chiare con il procedere della guarigione, nel caso qualcuno con una mente molto perversa fosse andato a controllare nei rifiuti - in questo mestiere si lascia spazio a molte stranezze. Presi la medicazione "n. 2" e aprii la confezione. Chiunque avesse provveduto a fare le macchie viveva la sua vita con entusiasmo.

«Qualche traccia del diario?» chiese Frank. «Il famoso diario di cui Daniel ha ritenuto giusto parlare con te ma non con noi?»

Mi appoggiai alla libreria, sollevai la maglietta e staccai la vecchia medicazione. «Se è in casa» dissi «è stato nascosto bene.»

Frank fece un verso strano. «Oppure avevi ragione tu e gliel'ha preso l'assassino dopo il delitto. In un caso o nell'altro rimane comunque interessante il fatto che Daniel e compagnia abbiano sentito il bisogno di tacerne l'esistenza. Qualcuno si comporta in modo strano?»

«No. All'inizio erano un po' a disagio, ma mi sembra normale. Fondamentalmente l'impressione è che siano contenti di avere di nuovo Lexie a casa.»

«È quello che ho sentito anch'io dal microfono» disse Frank. «A proposito, cos'è successo ieri sera quando sei salita in camera? Ti sentivo parlare ma avevo difficoltà a distinguere le parole.»

La nota diversa nella sua voce non era rassicurante. Mi chinai per appianare i bordi della medicazione nuova. «Niente. Sono venuti ad augurarmi la buonanotte.»

«Che carini» disse lui. «Molto fine, peccato me lo sia perso. Il microfono dov'era?»

«Nella borsa. La batteria mi si infila nelle costole, quando mi sdraio.»

«Dormi sulla schiena. La tua porta non si chiude a chiave.»

«Ho messo una sedia davanti.»

«Oh, be', allora siamo a posto. Non hai bisogno d'altro. Cazzo, Cassie!» Mi pareva di vederlo gesticolare con la mano libera, mentre camminava furibondo avanti e indietro.

«Qual è il problema, Frank? L'altra volta non lo usavo nemmeno, il microfono, se non stava succedendo niente di davvero interessante. Non sarà il fatto di sentirmi parlare nel sonno che deciderà l'esito del caso.»

«L'altra volta non condividevi una casa con quattro sospettati. Magari questi non sono i primi della lista, però non li abbiamo ancora eliminati del tutto. Salvo quando sei sotto la doccia il microfono ti deve rimanere addosso. Vuoi che parliamo dell'altra volta? Se il microfono fosse stato nella borsa, e non ti avessimo sentita, a quest'ora saresti morta. Morta dissanguata, prima che riuscissimo a trovarti.»

«Sì, sì» dissi. «Ricevuto.»

«Hai capito? Te lo tieni sempre addosso. Non fare cazzate.»

«Ho capito.»

«Allora d'accordo» rispose calmandosi. «Ho qualche piccola novità per te.» Il tono era divertito: aveva tenuto in serbo qualcosa per il dopo ramanzina. Ho rintracciato tutte le PC della tua prima interpretazione di Lexie Madison. Ti ricordi di una ragazza che si chiama Victoria Harding?»

Staccai il cerotto con un morso. «Dovrei?»

«Alta, magra, con i capelli biondi e lunghi? Parla a raffica e non batte mai le palpebre.»

«Oddio» dissi facendo aderire il cerotto. «Vicky la Cozza. Un ritorno dal passato.» Vicky la Cozza studiava qualcosa di non specifico con me all'UCD. Aveva gli occhi azzurri un po' vitrei, un sacco di accessori coordinati e una spaventosa capacità pressoché illimitata di avvinghiarsi come una piovra a chiunque potesse tornarle utile, soprattutto ragazzi ricchi e ragazze che frequentavano le feste. Chissà perché aveva deciso che fossi abbastanza figa da frequentarmi, a meno che non sperasse di ricavare un po' di droga gratis.

«Proprio lei. Quand'è stata l'ultima volta che le hai parlato?»

Chiusi la valigia e l'infilai sotto il letto, cercando di ricordare; Vicky non era il tipo che ti lascia un'impressione indelebile. «Forse qualche giorno prima di sparire? Da allora devo averla incontrata un altro paio di volte, in città, però ho fatto sempre finta di non vederla.»

«Strano» disse lui con quel sorriso lupesco che si trasmetteva nel tono di voce «perché lei ha parlato con te in tempi molto più recenti. Anzi, avete fatto una bella chiacchierata all'inizio di gennaio del 2002. Si ricorda la data perché era appena andata a comprare un cappotto firmato ai saldi. A quanto pare c'entrava, e qui cito, "l'ultimissimo modello di scamosciato grigio talpa" qualsiasi cosa sia. Ti si accende una lampadina?»

«No». Il mio cuore batteva lento e sonoro, lo sentivo fino alle piante dei piedi. «Non ero io.»

«L'ho pensato. Vicky ricorda perfettamente la conversazione, invece, quasi parola per parola - quella ragazza ha una memoria che sembra una trappola, sarebbe la testimone perfetta, in caso di bisogno. Vuoi sapere di che cosa avete parlato?»

Vicky era sempre stata così: poiché nella sua testa non succedeva niente, le conversazioni entravano e uscivano identiche. Era una delle ragioni principali per cui la frequentavo. «Rinfrescami la memoria» dissi.

«Vi siete incontrate in Grafton Street. Secondo lei eri "completamente fuori" e all'inizio non la riconoscevi neanche, sembrava che non ricordassi quando vi eravate viste l'ultima volta. Sostenevi di aver bevuto troppo la sera prima, ma lei l'ha attribuito all'esaurimento nervoso di cui aveva sentito parlare.» Frank si divertiva. La sua voce aveva quel ritmo feroce e concentrato da predatore. Io mi divertivo molto meno. Mi ero aspettata qualcosa del genere, soltanto non conoscevo i dettagli, e il fatto di avere ragione non mi riempiva di soddisfazione come si sarebbe potuto immaginare. «Comunque, quando infine ti sei ricordata di lei, sei diventata molto cordiale. Le hai persino proposto di bere un caffè insieme per aggiornarvi sulle novità. Chiunque fosse, la nostra ragazza, aveva del fegato.»

«Già» dissi. Ero accovacciata come una centometrista, pronta al balzo. La stanza di Lexie sembrava deridermi, tendermi trappole, animata da cassetti segreti, tavole del pavimento false e trappole a molla. «Sì, ne aveva da vendere.»

«Siete andate al bar in Brown Thomas, lei ti ha fatto vedere i suoi acquisti e avete giocato a "ti ricordi" per un po'. Tu, pensa che strano, eri piuttosto silenziosa. Ma senti questa: a un certo punto Vicky ti ha chiesto se frequentavi il Trinity. A quanto pare poco prima di avere l'esaurimento nervoso le avevi detto di essere stufa dell'UCD, e che pensavi di trasferirti da un'altra parte, forse al Trinity, forse all'estero. Ti risulta?»

«Sì» dissi. Sedetti ai piedi del letto. «Sì, l'ho detto.»

Eravamo verso la fine del semestre e Frank non mi aveva informata se l'operazione sarebbe continuata anche dopo le vacanze estive, mi stavo preparando l'uscita di scena, in caso di bisogno. Un'altra qualità di Vicky: si poteva contare sulla sua capacità di far circolare un pettegolezzo in men che non si dica.

Mi girava la testa, elementi strani che trovavano una sistemazione diversa e si ricollocavano in posti nuovi con un clic delicato. La coincidenza del Trinity - questa ragazza che puntava senza esitare verso la mia vecchia università, riprendendo dove io avevo lasciato - mi aveva dato i brividi fin dall'inizio, ma questo era addirittura peggio. L'unica coincidenza era l'incontro delle due ragazze, in una piccola città, e Vicky la Cozza passa tutto il suo tempo in centro in cerca di gente che le torni utile. Lexie non era finita al Trinity per caso, o a causa di un'attrazione magnetica per la mia ombra, una pulsione a occupare tutti gli spazi che occupo io. Ero stata io a suggerirglielo. Avevamo lavorato insieme, unite indissolubilmente, noi due. L'avevo trascinata io in questa casa, in questa vita, con la stessa determinata precisione con cui lei aveva trascinato me.

Frank continuava a parlare. «La nostra arnica ha risposto di no, che non frequentava nessuna università, stava viaggiando. È stata vaga sulle sue destinazioni e Vicky ha dedotto che fosse stata ricoverata in una clinica psichiatrica. E qui viene la parte interessante: secondo Vicky doveva essere un manicomio americano, o canadese. In parte perché ricordava che la tua famiglia immaginaria risiedeva in Canada, ma soprattutto perché a un certo punto del tuo percorso, tra gli ultimi giorni all'UCD e la ricomparsa in Grafton Street, avevi acquisito un discreto accento americano. Perciò adesso non sappiamo soltanto dove la nostra amica ha preso l'idea di impossessarsi dell'identità di Lexie Madison, e quando, ma abbiamo anche una buona idea sul posto da cui cominciare a cercarla. Dovremmo offrire qualcosa da bere a Vicky la Cozza.»

«Pensaci tu» dissi. Sapevo di avere una voce strana, ma Frank era troppo eccitato per farci caso.

«Ho chiamato i ragazzi dell'FBI e sto per mandargli un'e-mail con impronte e foto. Esiste una buona probabilità che la nostra amica fosse in fuga, quindi potrebbero trovare qualcosa.»

Triplicata dallo specchio la faccia di Lexie mi guardava con sospetto. «Tienimi aggiornata, okay?» dissi. «Su qualsiasi novità.»

«Senz'altro. Vuoi parlare col tuo amico? È qui.»

Sam e Frank che condividevano la stessa sala operativa? Pazzesco. «Lo chiamo più tardi» dissi.

Il mormorio profondo di Sam sullo sfondo, e all'improvviso, per una frazione di secondo, sentii il desiderio impellente, venuto da chissà dove, di parlare con lui, un desiderio così forte da farmi male. «Dice di aver verificato i tuoi ultimi sei mesi alla Omicidi» disse Frank «e che tutti quelli che puoi aver fatto incazzare sono fuori gioco, per un motivo o per un altro. Continuerà il controllo a ritroso e ti terrà informata.»

In altre parole questa faccenda non c'entrava con l'operazione Vestale. Mio Dio, Sam. Anche se per interposta persona e da lontano cercava di rassicurarmi: tranquillo e ostinato inseguiva l'unica minaccia che fosse in grado di capire. Mi domandai se avesse dormito, e quanto, quella notte. «Grazie» dissi. «Ringrazialo, Frank. Digli che lo chiamo appena possibile.»

 

Avevo bisogno di uscire, in parte per sgombrare la mente dal sovraccarico di oggetti polverosi, e in parte perché la casa cominciava a farmi brutti scherzi alle spalle; l'atmosfera era troppo intima e perspicace, come il sopracciglio aggrottato di qualcuno che non puoi ingannare. Aprii il frigorifero, mi preparai un panino con il tacchino - questa gente andava matta per la buona senape -, un toast con la marmellata e un thermos di caffè e uscii per una lunga passeggiata. Tra pochissimo avrei dovuto gironzolare per Glenskehy al buio, magari con la presenza di un assassino che conosceva la zona come la palma della sua mano. Mi pareva una buona idea familiarizzare con il posto.

Era un labirinto, decine di viottoli a senso unico che serpeggiavano tra siepi e campi e boschi da un punto dove non c'era nulla a un altro dove non c'era di più, comunque me la cavai meglio del previsto, perdendomi soltanto due volte. Cominciavo ad apprezzare Frank da una prospettiva completamente diversa. Quando mi venne fame sedetti su un muretto e mandai mentalmente a cagare la sezione Violenza domestica e Maher e la sua alitosi. Era una luminosa giornata di sole, con le nuvole chiare alte nel cielo azzurro, eppure non avevo incontrato nemmeno un umano. Lontano abbaiava un cane e qualcuno lo chiamava fischiando, nient'altro. Stavo elaborando la teoria che Glenskehy fosse stata rasa al suolo da un raggio mortale e che nessuno se ne fosse accorto.

Sulla strada del ritorno mi fermai a dare un'occhiata alla tenuta di Whitethorn House. I March avevano forse perduto gran parte delle loro proprietà, ma quel che restava era pur sempre notevole. Muri di pietra più alti di me, che racchiudevano una ricca vegetazione - soprattutto i biancospini selvatici che davano il nome alla casa, ma anche una quercia, un frassino, un melo in procinto di fiorire. Una scuderia in rovina, un po' distante dalla casa, dove Daniel e Justin tenevano le macchine. Avrebbe potuto ospitare almeno sei cavalli, ma siccome adesso era una catasta di attrezzi arrugginiti e teli d'incerata che sembravano non essere stati toccati da molto tempo, non indagai oltre.

Sul retro della casa un grande prato verde, lungo almeno un centinaio di metri, delimitato da una fitta bordura di alberi, muretti e edera. In fondo un cancello coperto di ruggine - il cancello che Lexie aveva attraversato quella sera, quando si era avviata verso l'ultima passeggiata della sua vita - e, in un angolo riparato, una zona abbastanza ordinata di piante arbustive. Riconobbi alloro e rosmarino: il giardino dei semplici a cui aveva accennato Abby la sera prima. Mi sembrava che fossero già passati mesi.

Vista da lontano la casa sembrava delicata e appartata, come uscita da un vecchio acquerello. Poi un venticello leggero mosse l'erba, sollevò i lunghi rami d'edera e il prato si inclinò sotto i miei piedi. A circa trenta metri, accanto a un muretto, c'era qualcuno nascosto dietro il rampicante; qualcuno leggero e scuro come un'ombra, seduto su un trono. Mi si rizzarono i capelli sulla nuca, con un'onda lenta.

La pistola era rimasta dietro il comodino di Lexie. Mi morsi le labbra e afferrai un grosso ramo caduto senza staccare gli occhi dall'edera, che era tornata con innocenza al suo posto -passata la folata di vento il giardino era immobile e assolato come un sogno. Costeggiai il muretto, mi appoggiai con la schiena e stringendo il ramo nella mano colpii l'edera con un movimento rapido.

Non c'era nessuno. I tronchi frondosi e i rami dei rampicanti avevano creato una specie di alcova, una bolla inondata dal sole. C'erano due panchine di pietra e in mezzo un rivolo d'acqua che scendeva da un foro nel muro e, percorsi alcuni bassi gradini, finiva in un minuscolo stagno; nient'altro; le ombre si intrecciavano e per un secondo si ripeté l'illusione: gli schienali delle panche si allungarono, si curvarono e vidi quella figura sottile seduta. Poi, quando lasciai ricadere i rami, scomparve.

Apparentemente non era solo la casa ad avere una propria personalità. Ripresi a respirare normalmente e controllai l'alcova. Nelle crepe della pietra era cresciuto il muschio, ma per il resto le panchine erano pulite: qualcuno conosceva quel posto. Ne valutai il potenziale come luogo d'appuntamento, da diversi punti di vista, ma era terribilmente vicino alla casa per risultare invitante per un estraneo, e il tappeto formato dalle foglie e dai ramoscelli intorno allo stagno non sembrava essere stato calpestato di recente. Con il fianco di un piede lo smossi e sotto vidi grandi pietre da lastrico levigate. Un bagliore metallico nel terreno mi fece trasalire - un coltello? -, ma era troppo piccolo. Un bottone: leone e unicorno, ammaccato. Qualcuno, tanto tempo prima, aveva servito nell'esercito britannico.

Il foro attraverso il quale l'acqua entrava nel giardino era intasato dalla sporcizia. Infilai il bottone in tasca, mi inginocchiai sulla pietra e usando il ramo e le mani cercai di ripulirlo. Fu un lavoro lungo perché il muro era spesso. Quando ebbi finito una mini cascata scendeva con un allegro mormorio e sulle mie mani era rimasto l'odore della terra e delle foglie marce.

Le sciacquai e sedetti su una panca a fumare una sigaretta ascoltando il rumore dell'acqua. Era piacevole, un luogo caldo, immobile e segreto come la tana di un animale o il nascondiglio di un bambino. Lo stagno si riempì, la superficie coperta da minuscoli insetti. L'acqua drenata defluì nel piccolo canale di scolo. Raccolsi le foglie che galleggiavano e dopo un po' lo stagno era così pulito che nella superficie increspata vedevo la mia immagine riflessa.

L'orologio di Lexie segnava le quattro e mezzo. Avevo superato le prime ventiquattr'ore, e probabilmente fatto perdere la scommessa a un bel po' di gente, alla centrale. Misi il mozzicone della sigaretta nel pacchetto, mi chinai per passare sotto l'edera e tornai verso casa a occuparmi della mia tesi. La porta si aprì facilmente con la mia chiave, e quando entrai l'aria all'interno si mosse e non sembrava più troppo intima; era un leggero sorriso, una carezza fresca sulla guancia, come un benvenuto.