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Questa è la storia di Lexie Madison, non la mia. Mi piacerebbe raccontarvele separate, ma non è possibile. Un tempo pensavo di essere stata io, con le mie mani, a cucirci insieme strette strette, e quindi di poterci separare in qualsiasi momento lo desiderassi. Ora so che il legame è sempre stato molto più profondo, molto più radicato, fuori dalla mia portata e dal mio controllo.

Questa parte comunque riguarda me: ciò che ho fatto. Frank attribuisce ad altri la responsabilità, in particolare a Daniel, mentre mi sembra di capire che secondo Sam, non so per quale oscuro e misterioso percorso, la colpa sia imputabile a Lexie. Quando dico che non è così loro mi guardano di sottecchi e cambiano argomento, e ho l'impressione che Frank mi ritenga affetta da non so quale raccapricciante variante della sindrome di Stoccolma. A volte capita, agli agenti infiltrati, ma non questa volta. Io non cerco di proteggere qualcuno; non è rimasto nessuno da proteggere. Lexie e gli altri comunque non verrebbero a sapere delle accuse e, qualora accadesse, non gliene importerebbe nulla. Credetemi: forse qualcun altro ha distribuito le carte, ma sono stata io a giocare la mano, e avevo le mie buone ragioni.

 

La cosa principale da sapere sul conto di Alexandra Madison è la seguente: non è mai esistita. L'abbiamo inventata Frank Mackey e io, tanto tempo fa, in un luminoso pomeriggio estivo, nel suo polveroso ufficio di Harcourt Street. Frank aveva bisogno di agenti da infiltrare in un giro di spaccio all'UCD, l'University College Dublin. Io volevo l'incarico, probabilmente più di quanto avessi mai desiderato qualcosa.

Era una leggenda, Frank Mackey: poco più che trentenne e già capo della sezione; il miglior infiltrato d'Irlanda, dicevano, sprezzante del rischio, un equilibrista spericolato. Entrava a far parte di cellule dell'IRA e bande criminali come se frequentasse il pub sotto casa. Mi avevano raccontato di quando Snake - delinquente fuori di testa di prima categoria - si era fatto sospettoso e aveva minacciato di bucargli le mani con una sparachiodi. Frank lo aveva guardato negli occhi senza un fremito ed era riuscito a intortarlo al punto da ricevere una pacca sulla schiena e un Rolex falso in segno di scuse. Lo porta ancora, quell'orologio.

Ero una recluta appena uscita dal Templemore Training College. Un paio di giorni prima, quando Frank aveva mandato la richiesta di volontari diplomati che potessero passare per ventenni, io, con indosso una giacca giallo fosforescente troppo larga, pattugliavo una cittadina che si chiama Sligo, dove gli abitanti hanno l'inquietante caratteristica di assomigliarsi tutti. Avrei dovuto essere nervosa all'idea di incontrare Mackey, invece non lo ero. Pensavo solamente a ottenere l'incarico.

Attraverso la porta aperta del suo ufficio, lo vidi seduto sul bordo della scrivania: indossava jeans e maglietta scoloriti e sfogliava il mio dossier. Era una stanzetta caotica, una specie di magazzino. Spoglia la scrivania, sprovvista di foto di famiglia; sugli scaffali documenti mescolati a CD di blues e giornali, un mazzo di carte da poker e un cardigan rosa, da donna, con ancora attaccata l'etichetta. Decisi che mi piaceva.

«Cassandra Maddox» disse lui, alzando gli occhi.

«Sissignore.» Era di altezza media, in buona forma fisica, con le spalle robuste e i capelli castani tagliati a spazzola. Mi aspettavo una persona anonima al punto da risultare invisibile, come "l'uomo che fuma" di "X-Files"; invece Frank colpiva per i tratti decisi e i grandi occhi azzurri, e il tipo di presenza fisica che al passaggio non lascia certo indifferenti. Non il mio genere, ma di sicuro oggetto di molte attenzioni femminili.

«Chiamami Frank. "Signore" è per gli imbrattacarte.» L'accento era da vecchia Dublino, lieve ma consapevole. Si alzò dalla scrivania e mi tese la mano.

«Cassie» dissi ricambiando la stretta.

Indicò una sedia e tornò ad appollaiarsi. «Qui c'è scritto» cominciò picchiettando con un dito sul mio dossier «che reggi bene la pressione.»

Impiegai qualche secondo per capire a che cosa si riferiva: durante il mio addestramento, in una zona degradata di Cork ero riuscita a convincere un adolescente schizofrenico e paranoico a non tagliarsi la gola con il rasoio a mano libera del nonno. Me n'ero quasi dimenticata, e certo non mi era passato per la mente che potesse essere proprio quell'episodio a farmi risultare adatta all'incarico.

«Lo spero» dissi.

«Quanti anni hai... ventisette?»

«Ventisei.»

Ero illuminata dalla luce che entrava dalla finestra, e lui mi fissò a lungo. «Potresti dimostrarne ventuno senza problemi. Qui dice che hai frequentato l'università per tre anni. Dove?»

«Trinity. Psicologia.»

Aggrottò le sopracciglia, come per prendermi in giro. «Ah. Una professionista. Perché non hai finito?»

«Ho sviluppato un'allergia agli accenti angloirlandesi sconosciuta alla scienza.»

Approvò. «L'UCD ti provocherà un rash cutaneo?»

«Prenderò gli antistaminici.»

Saltò giù dalla scrivania e avvicinandosi alla finestra mi fece segno di raggiungerlo. «La vedi quella coppia laggiù?»

Un ragazzo e una ragazza che camminavano chiacchierando. Lei prese le chiavi dalla borsa e aprì il portone di un brutto caseggiato. «Parlami di loro» disse Frank. Si appoggiò alla finestra e, infilati i pollici nella cintura, rimase a guardarmi.

«Studenti» cominciai. «Zaini coi libri. Hanno comprato le provviste: i sacchetti della spesa di Dunne's. Lei se la passa meglio: giacca costosa; lui invece jeans rattoppati sul ginocchio, ma non di quelli alla moda.»

«Fidanzati? Amici? Dividono l'appartamento?»

«Sono una coppia. Camminavano vicini, le teste che si sfioravano.»

«Stanno insieme da tanto tempo?»

Mi piaceva il modo in cui lavorava la mia mente. «Sì, da un po'» risposi. Lui mi osservò con aria interrogativa e per un momento mi fece dubitare di quello che avevo detto, poi capii perché avevo dato quella risposta. «Parlando non si guardavano. Le coppie appena formate si guardano di continuo, quelle consolidate non sentono il bisogno di controllarsi così spesso.»

«Vivono insieme?»

«No, altrimenti lui avrebbe tirato fuori le sue chiavi. Quella è casa di lei. Probabilmente divide l'appartamento con qualcuno, perché prima di entrare hanno guardato in su per controllare se le tende erano scostate.»

«Che rapporto hanno?»

«Buono. Lei lo ha fatto ridere. Di solito, finita la fase di corteggiamento, i maschi non ridono alle battute delle ragazze. I sacchetti della spesa li portava lui, e lei gli ha tenuto aperto il portone: si prendono cura l'uno dell'altra.»

Frank annuì. «Bel lavoro. Per gli infiltrati l'intuizione è tutto, e non sto parlando di stronzate psicologiche ma della capacità di osservare e analizzare senza neanche accorgerti di farlo. Il resto è velocità e coraggio. Quando dici o fai qualcosa, devi essere convinta. Se ti fermi a riflettere sei fregata, probabilmente morta. Per un anno o due sarai irreperibile. Hai famiglia?»

«Due zii.»

«Ragazzo?»

«Sì.»

«Tu potrai metterti in contatto con loro, ma non viceversa. Credi che lo accetteranno?»

«Per forza.»

Era ancora in piedi, appoggiato alla finestra con aria rilassata, ma il bagliore gelido nei suoi occhi non mi sfuggì: mi scrutava. «Non stiamo parlando di un cartello colombiano, e tu tratterai soprattutto con i gradi più bassi, perlomeno all'inizio, però devi sapere che non è un lavoro privo di rischi. Nella metà dei casi questa gente è fuori di testa, nell'altra metà prende molto sul serio le proprie attività, e questo significa che nessuno dei due gruppi si farebbe il minimo scrupolo all'idea di ammazzarti. La cosa ti rende nervosa?»

«No» risposi, e ne ero convinta. «Per niente.»

«Bene» disse lui. «Prendiamo un caffè e mettiamoci al lavoro.»

Impiegai un minuto buono a capire che l'accordo era concluso. Mi ero aspettata un colloquio di tre ore e un mucchio di strani test a base di macchie d'inchiostro e domande sul conto di mia madre, invece non è così che lavora Frank. Ancora non so esattamente quando, durante la nostra breve conversazione, prese la decisione. Ho aspettato a lungo il momento giusto per chiederglielo, ma ora non sono più sicura di voler sapere che cosa aveva visto in me, cosa gli aveva fatto pensare che io fossi la persona giusta.

Al self-service prendemmo due caffè che sapevano di bruciato e un pacchetto di biscotti al cioccolato, e passammo il resto della giornata a inventare Alexandra Madison. Il nome lo scelsi io, "Così te lo ricorderai meglio" aveva detto Frank. Madison perché assomiglia abbastanza al mio cognome da farmi voltare, se lo sento, e Lexie perché da bambina avevo chiamato così la mia sorellina immaginaria. Frank prese un foglio e scrisse la cronologia della sua vita. «Nata all'Holles Street Hospital il primo marzo del 1979. Padre, Sean Madison, impiegato dell'ambasciata in Canada, così in caso di necessità ti togliamo di mezzo in fretta: un'emergenza familiare e via su un aereo. Vuol dire che hai passato l'infanzia trasferendoti da un posto all'altro, e questo spiega perché nessuno ti conosce.» L'Irlanda è piccola, c'è sempre l'amica di un cugino che è stata a scuola con te. «Potremmo farti risultare straniera, ma non mi va che parli con un accento. Madre, Caroline Kelly Madison. Lavora?»

«Fa l'infermiera.»

«Attenta. Pensa in fretta e considera le eventuali implicazioni. Per lavorare in un paese straniero le infermiere devono far riconoscere e convalidare il diploma. Diciamo che ha studiato da infermiera e ha lavorato fino a quando tu avevi sette anni e la famiglia ha lasciato l'Irlanda. Vuoi fratelli e sorelle?»

«Certo, perché no? Un fratello.» In quel gioco c'era qualcosa che mi stordiva e mi faceva venire voglia di ridere, il grande senso di libertà dava alla testa: davanti a me una distesa di relazioni familiari, città e possibilità tra cui scegliere. Avrei potuto decidere di essere cresciuta in un palazzo del Bhutan con diciassette tra fratelli e sorelle e tanto di autista personale, se lo avessi desiderato. Mi infilai in bocca un altro biscotto prima che Frank, vedendomi sorridere, pensasse che non stavo prendendo sul serio il lavoro.

«Come vuoi. È più giovane di sei anni, quindi vive in Canada con i vostri genitori. Come si chiama?»

«Stephen.» Fratello immaginario. Da piccola avevo una fantasia sfrenata.

«Andate d'accordo? Com'è? Più in fretta» disse Frank vedendo che cercavo di riprendere fiato.

«È uno stronzetto. Fissato con il calcio. Sempre in lite con i nostri genitori, avendo quindici anni, però con me comunica...»

Lame oblique di sole sul ripiano logoro della scrivania. Frank aveva un buon odore: sapeva di sapone e cuoio. Era un bravo insegnante, anzi, un insegnante straordinario; la penna nera scriveva date, luoghi e fatti, facendo uscire dal nulla Lexie Madison; come in una polaroid la pellicola si arricciava agli angoli staccandosi dalla pagina per rimanere sospesa nell'aria simile a una voluta di incenso: una ragazza con la mia faccia e una vita uscita da un sogno mezzo dimenticato. Dove abitavi? Quando hai avuto il tuo primo ragazzo? Come si chiamava? Chi ha lasciato chi? E perché? Frank prese un portacenere e tirò fuori dal suo pacchetto di Player's una sigaretta per me. Quando le lame di luce scivolarono oltre la scrivania e fuori dalla finestra il cielo cominciò a oscurarsi, lui fece ruotare la sedia, prese dallo scaffale una bottiglia di whiskey e ne versò un po' nei caffè. «Ce lo siamo meritato» disse. «Alla salute.»

Una ragazza irrequieta, Lexie: sveglia, educata, con la testa sulle spalle ma cresciuta senza radici e incapace di stare ferma a lungo. Forse un po' ingenua, vagamente sprovveduta, diciamo, fin troppo pronta a rispondere a ogni domanda senza riflettere. «Un'esca» disse Frank senza mezzi termini. «E deve essere l'esca giusta per far abboccare gli spacciatori. Ci serve abbastanza innocente perché non la considerino una minaccia, sufficientemente rispettabile da risultargli utile, e ribelle quanto basta perché non li stupisca che si lasci coinvolgere.»

Era sceso il buio, quando arrivammo in fondo. «Bel lavoro» disse lui ripiegando la cronologia della vita di Lexie e dandola a me. «Tra una decina di giorni comincia un corso; ti faccio entrare. Poi torni qui e lavoriamo insieme. In ottobre, quando all'UCD si apre l'anno accademico, attacchi.»

Prese la giacca di pelle appesa all'angolo di uno scaffale, spense la luce e chiuse la porta del suo ufficetto buio. Tornai alla stazione degli autobus senza vedere la strada, avvolta in un alone magico, volteggiando sopra un mondo nuovissimo e segreto, con il foglio che scricchiolava nella tasca della giacca dell'uniforme. Era stato rapido e, almeno così mi era parso, facile.

 

Non mi dilungherò sulla infinita e serpeggiante catena di eventi che dalla sezione Infiltrati mi portò alla sezione Violenza domestica. La versione ridotta e semplificata: il più grosso acquirente di amfetamine dell'università diventò paranoico e mi pugnalò; il fatto di essere ferita in servizio mi procurò un posto nella squadra Omicidi, ma siccome la Omicidi mi faceva andare fuori di testa me ne andai. Erano anni che non pensavo a Lexie e alla sua breve vita vissuta nell'ombra. Non sono il tipo che si guarda indietro, o almeno ci provo. Il passato è passato, fingere che non sia così rappresenta soltanto una perdita di tempo. Comunque oggi, con il senno di poi, mi pare di aver sempre saputo che ci sarebbero state delle conseguenze. Non si può creare una persona, un essere umano con la storia del suo primo bacio e il suo senso dell'umorismo e il suo panino preferito e poi, quando non ti serve più, pretendere che sparisca tra gli appunti scribacchiati su un foglietto o dentro una tazza di caffè allungato con il whiskey. Mi pare di aver sempre saputo che prima o poi sarebbe tornata a cercarmi.

Quattro anni. Ha scelto il momento con cura. È tornata a bussare alla mia porta un mattino d'aprile, pochi mesi dopo che avevo lasciato la Omicidi, mentre ero al poligono di tiro.

Il nostro poligono si trova in centro, un sotterraneo al di sotto di una delle zone più trafficate e inquinate di Dublino. Ero brava con le armi, e il prossimo esame sarebbe stato soltanto di lì a parecchi mesi; quindi, in teoria, non c'era bisogno che mi esercitassi, ma da un po' di tempo mi svegliavo troppo presto per andare al lavoro e troppo irrequieta per dedicarmi ad altro, e avevo scoperto che sparare era l'unica attività in grado di calmarmi. Sistemai le cuffie e controllai la pistola senza fretta, aspettando che gli altri fossero concentrati sui loro bersagli: non volevo che vedessero quando ai primi colpi mi galvanizzavo come il personaggio di un cartone colpito da una scossa elettrica. Essere fuori di testa sviluppa un'incredibile capacità di mettere in atto trucchetti di vario genere per aggirare il problema, di fare in modo che la gente non se ne accorga. Se impari in fretta, nel giro di poco tempo riesci ad arrivare in fondo alla giornata sembrando assolutamente normale.

Non ero mai stata così. Avevo sempre creduto che le crisi di nervi appartenessero ai personaggi di Jane Austen e alle ragazze con le vocine mielose che al bar non pagano mai da bere. Pensavo che la mia possibilità di perdere il controllo fosse pari a quella che avevo di andare in giro con i sali nella borsetta. Il fatto di essere stata pugnalata all'università dal Demone Drogato mi aveva toccata appena. Lo psichiatra del dipartimento aveva dedicato alcune settimane a cercare di convincermi che ero profondamente traumatizzata, e alla fine aveva dovuto rinunciare e riconoscere che stavo bene (a malincuore, visto che non gli capitano spesso poliziotte pugnalate con cui divertirsi, e secondo me si era augurato che nascondessi qualche appassionante turba) e che potevo tornare al lavoro.

È imbarazzante ammetterlo, ma in ginocchio non ci sono finita a causa di un massacro o di un blitz fallito per liberare degli ostaggi, né grazie a qualche rispettabile cittadino con il frigorifero pieno di organi umani. Il mio ultimo caso alla Omicidi era stato semplicissimo, uguale a decine di altri casi, niente che destasse particolare allarme: soltanto una bambina morta in una mattina d'estate, e io e il mio compagno che facevamo gli scemi in ufficio quand'era arrivata la telefonata. Visto dall'esterno, andò persino liscio. Ufficialmente arrivammo alla soluzione nel giro di un mese, e il caso fece una bella figura in televisione e nelle statistiche annuali. Nessun drammatico inseguimento in auto, nessuna sparatoria, niente del genere; quella messa peggio, fisicamente, ero io, e si trattò di due graffi sulla guancia. Non lasciarono nemmeno le cicatrici. Un lieto fine, tutto sommato.

Sotto sotto, invece. Operazione Vestale: ancora oggi se la si nomina con qualcuno della Omicidi, anche con chi non conosce tutta la storia, la reazione è quell'occhiata, mani che si alzano di scatto e fronti aggrottate in maniera esplicita, come per prendere le distanze dal casino e dai danni collaterali. Dal punto di vista delle cose che contano davvero fu una sconfitta, e grossa. Al mondo esistono persone che sono piccole Chernobyl, e trasudano un veleno che silenziosamente si diffonde nell'aria: se ci si avvicina, basta inspirarne l'odore per rimanere devastati dentro. Ci sono casi - chiedetelo a qualsiasi poliziotto - maligni e incurabili, che divorano tutto ciò che sfiorano.

Ne riportai una varietà di sintomi che avrebbe fatto saltellare di gioia, sui suoi sandali di cuoio, lo psichiatra, solo che per fortuna a nessuno venne in mente di mandarmi da lui per due graffi sulla guancia. Erano sintomi normali - tremori, inappetenza, lo sguardo fisso al soffitto quando suonava il telefono o il campanello della porta -, più qualche tocco personale. Diventai poco coordinata: per la prima volta nella mia vita inciampavo, andavo a sbattere contro gli stipiti, picchiavo la testa contro gli armadi. E smisi di sognare. Prima nella mia vita onirica c'erano spettacolari colonne di fuoco che traboccavano da nere montagne, rampicanti che esplodevano da muri di mattoni, cervi che correvano sulla spiaggia di Sandymount avvolti in strisce di luce; dopo, non appena la testa toccava il cuscino, mi addormentavo profondamente, come se mi avessero dato una martellata. Sam - il mio fidanzato, per quanto la definizione mi faccia trasalire ancora - mi diceva di avere pazienza, che sarebbe passato. Quando gli spiegai che non ne ero poi tanto convinta, annuì con aria pacifica e ripeté che anche quella preoccupazione sarebbe passata. A volte Sam riesce a essere molto irritante.

Presi in considerazione la soluzione tradizionale dei poliziotti - alcol, fin dal mattino e a intervalli ravvicinati - ma avevo paura di finire col telefonare alle persone sbagliate alle tre di notte per raccontare i miei guai, e inoltre scoprii che esercitarmi al poligono mi anestetizzava altrettanto senza effetti collaterali spiacevoli. Non sembrava sensato, visto come reagivo ai rumori, invece funzionava. Dopo i primi colpi nel mio cervello saltava un fusibile e il resto del mondo spariva sbiadendo in lontananza; le mie mani erano salde, c'eravamo soltanto io e il bersaglio di carta, la familiare puzza di polvere da sparo nell'aria e la mia schiena che si preparava ad assorbire il rinculo. Uscivo dal poligono calma e inebetita come se avessi ingurgitato una grossa dose di Valium. Prima che l'effetto passasse ero arrivata in fondo a un'altra lunga giornata di lavoro e potevo tornare a sbattere la testa contro gli spigoli di casa mia. Riuscivo anche a fare centro nove volte su dieci, da quaranta metri, e l'omino avvizzito che gestiva il poligono cominciava a guardarmi con l'occhio attento dell'allenatore e a fare accenni al campionato interno al dipartimento.

Quel mattino finii intorno alle sette. Ero nello spogliatoio a pulire la pistola e a parlare del più e del meno con due della Buoncostume, quando il mio cellulare cominciò a squillare.

«Cristo» esclamò uno dei due. «Sei della VD, vero? Chi ha la forza di pestare la sua signora a quest'ora?»

«Per le cose che contano il tempo si trova sempre» risposi mentre tiravo fuori dalla tasca la chiave del mio armadietto.

«Forse sono i servizi segreti» disse il più giovane dei due sorridendo. «Cercano tiratori scelti.» Era un ragazzo grande e grosso, con i capelli rossi, e mi trovava di suo gusto. Faceva gran sfoggio dei suoi muscoli e l'avevo beccato a controllare il mio anulare in cerca dell'anello.

«Avranno saputo che noi non eravamo liberi» aggiunse il suo compagno.

Presi il cellulare dall'armadietto. Sul display c'era scritto SAM O'NEILL, e in un angolo lampeggiava l'icona delle chiamate perse.

«Ciao» dissi. «Che succede?»

«Cassie.» La voce di Sam era ansimante, spezzata, come se fosse appena stato massacrato di pugni. «Stai bene?»

Diedi la schiena ai due della Buoncostume e mi allontanai un po'. «Sto bene. Perché? Cosa c'è che non va?»

«Cristo santo» disse. Poi emise un suono, come se si stesse strozzando. «Ti ho chiamato quattro volte. Stavo per mandare qualcuno a cercarti. Perché non hai risposto a quel dannato telefono?»

Non era da luì. Sam è l'uomo più gentile del mondo. «Sono al poligono» dissi. «Il telefono era dentro l'armadietto. Che cosa è successo?»

«Scusa. Non volevo... scusa.» Di nuovo quel suono breve e aspro. «Mi hanno chiamato. Un omicidio.»

Il mio cuore fece un enorme balzo contro la cassa toracica. Sam lavorava alla Omicidi. Sapevo che avrei fatto meglio a sedermi, per ricevere la notizia, invece non riuscivo a costringere le mie ginocchia a piegarsi. Mi appoggiai con la schiena alla fila di armadietti.

«Chi?» domandai.

«Cosa? No... Oddio, non... Cioè, non è nessuno che conosciamo. O almeno credo. Senti... puoi venire qua?»

Ripresi a respirare. «Sam, cosa diavolo succede?»

«Niente, solo che... potresti venire, per favore? Siamo a Wicklow, appena fuori Glenskehy. Sai dove, no? Se segui le indicazioni e attraversi il paese verso sud, dopo circa un chilometro a destra c'è un viottolo... vedrai il nastro di delimitazione. Ci incontriamo lì.»

I due della Buoncostume avevano un'aria interessata. «Comincio il turno tra un'ora» risposi. «Per arrivare fin lì non impiego di meno.»

«Li avviso io. Spiego che abbiamo bisogno di te.»

«Non è vero. Non sono più nella squadra, Sam. Se si tratta di un omicidio, io non c'entro.»

Una voce in sottofondo: maschile, strascicata, difficile da ignorare; familiare, anche se non sapevo a chi attribuirla. «Aspetta un momento» disse Sam.

Bloccai il telefono fra orecchio e spalla e cominciai a rimontare la pistola. Se non era qualcuno che conoscevamo doveva trattarsi di una brutta faccenda, a giudicare dal tono di Sam; anzi, bruttissima. Gli omicidi irlandesi sono ancora, per lo più, piuttosto semplici: sparatorie tra spacciatori, rapine finite male, SUS (sposo uccide sposa), una complicata faida familiare a Limerick che da decenni alzava le statistiche. Non si verificano i fatti di sangue che si sentono altrove: serial killer, torture bizantine, seminterrati pieni di cadaveri ammucchiati come le foglie d'autunno. È solo questione di tempo. Da dieci anni a questa parte Dublino sta cambiando più in fretta di quanto le nostre menti riescano a concepire. La Tiogar Ceilteach, o tigre celtica, il periodo di rapida crescita economica, ci ha riempito di personaggi dotati di elicottero personale e di gente pigiata dentro appartamenti che sono tuguri infernali, di troppe persone che odiano lavorare nei loro cubicoli con il neon in attesa che arrivi il fine settimana per poi ricominciare da capo, e sotto il peso di questa situazione stiamo cedendo. Negli ultimi tempi alla Omicidi mi sembrava di sentirlo arrivare: il grido acuto della follia, la città che come un cane idrofobo si dimena in un furore parossistico. Presto o tardi, il nostro primo caso dell'orrore si sarebbe materializzato.

Non disponiamo di profiler ufficiali, quegli esperti che riescono a fornire agli inquirenti il profilo dei criminali, ma i ragazzi della Omicidi, che si lasciavano impressionare più del dovuto della mia quasi laurea in psicologia, si rivolgevano spesso a me. Non mi disturbava; leggevo un sacco di saggi e statistiche, nel tempo libero, per tenermi informata. Sam avrebbe potuto benissimo tralasciare il desiderio di proteggermi se il suo fiuto di poliziotto gli diceva che potevo risultare utile, se aveva per le mani un caso abbastanza difficile.

«Aspetta un momento» disse quello con i capelli rossi che adesso era uscito dalla modalità di attesa e se ne stava tutto teso sulla panca. «Eri nella Omicidi?» Ecco perché mi ero sforzata di non dargli confidenza. Quella nota avida nella voce l'avevo sentita fin troppo, negli ultimi mesi.

«Tanto tempo fa» risposi con il mio più dolce sorriso e uno sguardo che voleva dire "è-meglio-se-non-insisti".

Curiosità e libido si affrontarono in un rapido duello, e apparentemente Testarossa decise che le possibilità di uscire con me erano scarse o nulle e vinse la curiosità. «Eri tu su quel caso, giusto?» chiese, avvicinandosi. «La bambina ammazzata. Com'è andata veramente?»

«Tutto quello che hai sentito corrisponde alla verità» risposi. All'altro capo del telefono Sam discuteva piano con qualcuno, brevi domande frustrate interrotte dalla voce strascicata, e se Testarossa avesse chiuso il becco per un secondo sarei riuscita a capire a chi apparteneva.

«Ho sentito che il tuo compagno ha dato di matto e si è scopato un'indiziata» non esitò a informarmi.

«Non saprei» dissi cercando di liberarmi del giubbotto antiproiettile senza posare il telefono. Il mio istinto fu - e lo sarebbe ancora - di mandarlo a quel paese, ma né le condizioni mentali del mio ex collega né le sue questioni amorose erano più affar mio.

Sam tornò in linea, con un tono ancora più teso e sconvolto. «Ti potresti mettere gli occhiali da sole e un cappuccio o un berretto, o qualcosa del genere?»

Mi bloccai con il giubbotto sopra la testa. «Che cosa?»

«Per favore, Cassie» disse lui, e sembrò sul punto di crollare. «Per favore.»

 

Guido una vecchia Vespa scassata, un po' sfigata in una città dove sei quello che spendi, ma che comunque a me risulta molto comoda. Nel traffico viaggia quattro volte più veloce di qualsiasi SUV, si può parcheggiare senza problemi e fornisce un comodo strumento di selezione sociale, perché chiunque la guardi con disprezzo con ogni probabilità non diventerà mai mio amico. Fuori città il tempo era perfetto per la motocicletta. Durante la notte aveva piovuto a dirotto, una pioggia accompagnata da nevischio che sferzava i vetri della mia finestra, ma all'alba era stata soffiata via dal vento lasciando il posto a una giornata limpida e azzurra, la prima giornata primaverile dell'anno. In passato con quel tempo me ne andavo in campagna cantando a squarciagola nel vento, al limite massimo di velocità consentita.

Glenskehy si trova poco fuori Dublino, un paesino incastonato nel nulla in mezzo alle montagne di Wicklow. Ho abitato da quelle parti metà della mia vita senza mai avvicinarmi al cartello con la scritta GLENSKEHY. Era proprio come lo immaginavo: poche case che invecchiavano intorno a una chiesa da una messa al mese, al pub e all'emporio che vendeva di tutto; piccolo e isolato abbastanza per essere ignorato anche dalla generazione di disperati che battono la campagna in cerca di case abbordabili.

Alle otto di un martedì mattina la strada principale - sostantivo e aggettivo esagerati - era deserta, da cartolina, con una vecchia solitaria che trascinava il carrello della spesa davanti a un monumento a chissà cosa, sghembe casette di pan di zucchero alle sue spalle e le colline verdi e marroni, indifferenti a tutto. Non mi riusciva difficile immaginare che in quel luogo qualcuno potesse essere ucciso: un agricoltore, forse, per una lite secolare sui confini del campo, una donna il cui marito era ammattito per il bere e l'isolamento, un uomo che aveva convissuto con il fratello sotto lo stesso tetto per quarant'anni di troppo: crisi familiari dalle radici profonde, vecchie come l'Irlanda, niente che potesse far reagire in quel modo un poliziotto con l'esperienza di Sam.

E poi c'era quell'altra voce che mi tormentava. Sam è l'unico agente investigativo che conosca a non avere un partner. Gli piace correre da solo, e affrontare ogni caso con un gruppo nuovo di collaboratori: poliziotti locali bisognosi dell'aiuto di un esperto, una coppia della Omicidi che necessita di un terzo per un caso complicato. Sam va d'accordo con tutti ed è una spalla perfetta, e desideravo proprio sapere a chi, tra le persone che conoscevo, stava facendo da spalla quel giorno.

Uscita dal villaggio la strada si restringeva, inerpicandosi a tornanti tra le ginestre, mentre i campi coltivati diventavano più piccoli e sassosi. In cima alla collina aspettavano due uomini. Sam, bello e massiccio, a gambe divaricate e con le mani affondate nelle tasche della giacca, e a pochi passi da lui un uomo a testa alta, quasi volesse prendersi il vento in faccia. Il sole era ancora basso nel cielo e le lunghe ombre facevano sembrare i due giganteschi e minacciosi, sagome troppo luminose sullo sfondo delle nuvole leggere, due messaggeri sbucati dal sole sulla strada scintillante. Alle loro spalle il nastro giallo che delimita la scena del crimine ondeggiava mosso dal vento.

Sam alzò una mano quando lo salutai con un cenno. L'altro uomo piegò la testa, e uno scatto veloce come un battito di palpebre bastò a farmelo riconoscere.

«Porca puttana!» esclamai mentre smontavo dalla Vespa. «Frankie. Da dove sbuchi?»

Con un braccio mi strinse e mi sollevò da terra. Quattro anni non lo avevano cambiato; anche la giacca di pelle era la stessa, secondo me.

«Cassie Maddox» disse. «La migliore finta studentessa del mondo. Come te la passi? Che cos'è questa storia della VD?»

«Cerco di salvare il mondo. Mi hanno dato anche una spada laser.» Con la coda dell'occhio colsi l'espressione confusa di Sam - non parlo molto del mio periodo da infiltrata, non sapevo nemmeno se mi avesse mai sentito nominare Frank -, ma fu soltanto quando mi voltai a guardarlo che mi accorsi del suo aspetto: spaventoso, con le labbra tirate ed esangui, gli occhi troppo grandi. Qualcosa mi strinse lo stomaco in una morsa: doveva trattarsi di una brutta faccenda.

«Come va?» gli chiesi togliendomi il casco.

«Benone» rispose, e cercò di sorridermi, ma gli riuscì solo una smorfia.

«Oh-oh» disse Frank in tono scherzoso, studiandomi dalla testa ai piedi. «Fatti un po' vedere. È così che si vestono le poliziotte eleganti, oggi?» L'ultima volta che mi aveva visto ero in pantaloni mimetici e top con la scritta MISS KITTY'S HOUSE OF FUN WANTS YOU.

«Almeno io mi sono cambiata un paio di volte, in questi anni.»

«No, no, sono molto colpito. Hai un'aria davvero seria e chic.» Quando provò a farmi fare una giravolta, respinsi la sua mano. Per informazione, comunque, non ero vestita come Hillary Clinton. Portavo il solito completo da lavoro - pantaloni neri e camicia bianca - e non piaceva neppure a me, ma quando ero andata a lavorare alla sezione Violenza domestica il nuovo sovrintendente mi aveva assillata con i suoi discorsi sull'importanza di trasmettere un'immagine adeguata del reparto e costruire la fiducia dei cittadini, due cose che evidentemente in jeans e T-shirt vengono male, secondo lui, e io non avevo trovato la forza di resistere. «Hai portato occhiali e cappuccio o qualcosa del genere?» chiese Frank. «Staranno benissimo con il resto.»

«Mi hai fatta venire fin qui per parlare di moda?» Presi un basco dalla tracolla e glielo sventolai davanti.

«No, ne riparleremo in un'altra occasione. Tieni questi» disse sfilando dal taschino un paio di occhiali, un ripugnante modello a specchio del 1985, forse appartenuto a Don Johnson.

«Se devo andare in giro vestita come una cretina» dissi guardando gli occhiali senza prenderli «deve esserci quantomeno una buona ragione.»

«C'è, non preoccuparti. Se non ti piacciono puoi rimetterti il casco.» Aspettò che con una scrollata di spalle li accettassi e mi travestissi. Svanito l'effetto sorpresa per l'incontro, sentivo di nuovo la schiena irrigidirsi per la tensione. Sam con l'aria sconvolta, Frank a occuparsi del caso chiedendomi di non farmi riconoscere: tutto faceva presumere che a finire ammazzato fosse stato un infiltrato.

«Bella come sempre» disse lui. Sollevò il nastro giallo perché vi passassi sotto: quel movimento tante volte ripetuto mi risultò così familiare che per una frazione di secondo ebbi l'impressione di essere tornata a casa. Automaticamente controllai la pistola alla cintura e girai la testa per verificare se il mio partner c'era, come se il caso fosse mio, prima di ricordare che non era così.

«Questa è la storia» cominciò Sam. «Alle sei e un quarto circa di questa mattina un tipo del posto, tale Richard Doyle, stava passeggiando con il cane lungo il viottolo. Gli aveva tolto il guinzaglio per lasciargli fare una corsetta. Poco lontano c'è una piccola casa diroccata, un cottage, il cane è entrato e non è più uscito; alla fine Doyle è andato a prenderlo e l'ha trovato che annusava il cadavere di una donna. Gli ha rimesso il guinzaglio e ha chiamato la polizia.»

Mi rilassai un po': non conoscevo nessuna infiltrata. «E perché io mi trovo qui?» chiesi. «Per non parlare di te, bello» dissi a Frank. «Sei stato trasferito alla Omicidi e nessuno mi ha avvisato?»

«Adesso vedrai» rispose lui. Da dietro, camminando lungo il viottolo, vedevo soltanto la sua nuca. «Adesso vedrai coi tuoi occhi, credimi.»

Mi voltai a guardare Sam. «Niente di preoccupante» disse a voce bassa. Sulle guance stava riprendendo colore, a chiazze. «Tu sei a posto.»

Salendo il viottolo si restringeva, troppo angusto per due persone affiancate, niente più che un sentiero fangoso invaso dagli arbusti di biancospino. Dov'erano più radi si intravedevano le colline, un mosaico di campi verdeggianti cosparsi di pecore, e un agnello appena nato belava lontano. L'aria era fresca e intensa, e il sole riusciva a filtrare con i suoi lunghi raggi dorati tra i cespugli; presi in considerazione l'idea di non fermarmi, di continuare a camminare fino in cima e poi ancora, lasciando i due uomini a sbrigarsela con le tenebre che ci stavano tendendo l'agguato sotto la luce del mattino. «Ci siamo» annunciò Frank.

La siepe cedette il posto a un muretto di recinzione sgretolato dalle intemperie. A una trentina di metri, la casetta: uno di quei cosiddetti famine cottage sparsi ancora per le campagne, svuotati nel diciannovesimo secolo da decessi e migrazioni seguiti alla carestia e mai più reclamati dai proprietari. Un'altra occhiata bastò ad accrescere la sensazione che per me sarebbe stato meglio trovarmi lontana da ciò che stava avvenendo in quel posto. L'area in teoria doveva pullulare di gente, un'attività calma ma concentrata: poliziotti in divisa che camminavano a testa bassa, i ragazzi della Scientifica con le tute bianche indaffarati con macchine fotografiche e attrezzi per misurare e rilevare impronte, quelli dell'obitorio con la barella. Invece soltanto due poliziotti, impalati ai due lati della porta, con un'aria un po' stranita, e un paio di pettirossi che saltellavano sulle gronde emettendo suoni irritati.

«Dove sono tutti?»

Benché mi fossi rivolta a Sam, fu Frank a rispondere: «Cooper è già venuto e andato». Cooper è l'anatomopatologo. «Ho ritenuto che la dovesse vedere al più presto per stabilire l'ora del decesso. Il dipartimento può aspettare; le prove non scapperanno.»

«Invece sì, se ci camminiamo sopra. Sam, hai mai avuto un caso di doppio omicidio?»

Frank aggrottò un sopracciglio. «Perché? C'è un altro cadavere?»

«Il tuo, quando arriverà il dipartimento. Sei persone che pascolano sulla scena del crimine prima del loro arrivo? Ti ammazzeranno.»

«Ne sarà valsa la pena» rispose lui allegro, scavalcando il muretto. «Volevo tenere la cosa nascosta per un po' e non è facile con la loro gente dappertutto. Danno nell'occhio.»

C'era decisamente qualcosa che non andava. Il caso era di Sam, non suo; avrebbe dovuto essere Sam a decidere come gestire le prove e chi coinvolgere e quando. Qualsiasi cosa fosse accaduta dentro il cottage, lo aveva sconvolto al punto da permettere a Frank di arrivare, schiacciarlo come un panzer e all'istante organizzare con efficienza l'indagine come voleva lui. Cercai di incontrare lo sguardo di Sam, che però stava scavalcando il muretto e non prestava attenzione a noi.

«Ce la fai vestita così» mi chiese Frank dolcemente «o ti devo aiutare?» Gli risposi con una smorfia e saltai dall'altra parte affondando fino alle caviglie nell'erba umida punteggiata di gialli denti di leone.

Tanto tempo prima la casetta era stata divisa in due stanze. Una aveva resistito più o meno intatta - c'era persino una buona parte del tetto -, l'altra invece non era che ruderi di muri e finestre. Convolvoli e muschio e un rampicante con i fiorellini azzurri avevano messo radici nelle crepe. Qualcuno con lo spray aveva scritto SHAZ sulla parete di fianco alla porta, non in maniera molto artistica; il cottage era troppo diroccato per diventare un luogo di incontri regolari, e persino i ragazzini in cerca di un nascondiglio l'avevano abbandonato al suo destino di lento degrado.

«Detective Cassie Maddox» disse Frank. «Il sergente Noel Byrne e l'agente Joe Doherty di Rathowen. Glenskehy è territorio loro.»

«La punizione per i nostri peccati» disse Byrne, come se lo pensasse sul serio. Aveva una cinquantina d'anni, la schiena curva e gli occhi azzurri, annacquati; puzzava di uniforme bagnata e sconfitte.

Doherty era un giovane allampanato con due orecchie infelici, e quando gli tesi la mano reagì con un gran sobbalzo; mi sembrò quasi di percepire il rumore degli occhi che rientravano nelle orbite. Dio solo sa che cosa aveva sentito dire sul mio conto - nella polizia i pettegolezzi circolano più in fretta che nei locali di bingo -, ma in quel momento non c'era tempo per pensarci. Gli sorrisi guardandolo fisso e lui, borbottando qualcosa di incomprensibile, ritrasse la mano come se al contatto con la mia si fosse scottato.

«Ci piacerebbe che la detective Maddox desse un'occhiata al nostro corpo» disse Frank.

«Piacerebbe anche a me» ribatté Byrne, scrutandomi. Dubitai che fosse una battuta a sfondo sessuale, perché non mi sembrava averne l'energia. Doherty ridacchiò nervoso.

«Pronta?» chiese Sam a bassa voce.

«Muoio dalla curiosità» dissi con un tono un po' più sprezzante di quanto avrei voluto. Frank era già entrato e stava scostando i lunghi rami dei rampicanti che avevano occupato il vano della porta mancante tra le due stanze.

«Prima le signore» disse con un inchino. Agganciai gli occhiali allo scollo della camicia, presi un respiro profondo ed entrai.

Doveva essere stata una stanzetta triste e tranquilla. Lunghe lame di luce filtravano dai buchi nel tetto o attraverso il reticolo di rami davanti alle finestre, e tremolavano come raggi di sole sull'acqua; un focolare, spento da un secolo, con i nidi d'uccelli caduti dalla cappa e il gancio arrugginito per appendere il paiolo ancora al suo posto. Una colomba mormorava contenta nei paraggi.

Ma se vi è capitato di vedere un cadavere, sapete bene come modifica l'ambiente intorno: il silenzio enorme, l'assenza divorante, il tempo che si è fermato e le molecole congelate intorno a quella "cosa" immobile che ha conosciuto il segreto finale, il segreto che non potrà mai raccontare. Nella maggior parte dei casi i morti sono soli, nella stanza. Le vittime di omicidi, invece, non sono sole. Il silenzio è un urlo assordante e l'aria è coperta di segni, il corpo esala gli effluvi violenti dell'altro: l'assassino.

La prima cosa che mi colpì in quel momento era l'inconsistenza dei segni lasciati dall'omicida. Mi ero preparata a una scena che non volevo immaginare - un corpo nudo a braccia e gambe spalancate, ferite scure e profonde, troppo numerose da contare, brandelli sparsi in ogni angolo -, invece questa ragazza sembrava essersi adagiata compostamente sul pavimento per esalare l'ultimo respiro, dopo aver scelto il luogo e il momento senza alcun aiuto. Era distesa sulla schiena tra le ombre davanti al camino, con i piedi ordinatamente vicini e le braccia lungo i fianchi. Portava una giacca blu, aperta; una maglietta blu con una stella colorata a batik sul petto, jeans - allacciati - e scarpe da ginnastica. L'unico dettaglio fuori posto erano le mani, strette a pugno. Guardai interrogativa Frank, che si era avvicinato con Sam - E la sorpresa sarebbe? -, però lui ricambiò imperturbabile l'occhiata.

La ragazza era di altezza media, con una corporatura come la mia, compatta e un po' mascolina. La testa era girata verso la parete opposta e nella fioca luce distinguevo solamente i capelli corti e scuri, ricci, e la pelle chiara della curva dello zigomo, la punta del mento. «Guarda» disse Frank, dirigendo il fascio di luce della sua torcia minuscola ma potente e catturando il volto della vittima in una piccola aureola ben definita.

Per un istante rimasi confusa - Sam aveva mentito? - perché io conoscevo quella faccia, l'avevo vista milioni di volte. Poi avanzai di un passo per osservarla meglio e il mondo di colpo ammutolì, si raggelò, precipitò dentro una tenebra rombante al cui centro brillava candida la faccia della ragazza: la mia faccia. La curva del naso, l'arco delle sopracciglia, ogni minuscolo tratto nitido come ghiaccio: ero io con le labbra blu. Immobile, ombre come lividi neri sotto gli occhi. Non mi sentivo né le mani né i piedi, non mi sentivo respirare. Per un secondo pensai di vorticare trascinata non so dove dal vento.

«La conosci?» chiese Frank da un punto imprecisato. «Qualche rapporto?»

Come se fossi diventata cieca, i miei occhi non la vedevano davvero. Era impossibile: un'allucinazione prodotta da una febbre altissima, uno schianto fragoroso contro ogni legge naturale. Mi accorsi di essermi irrigidita sui piedi, con una mano sul calcio della pistola, ogni muscolo teso e pronto a combattere fino alla morte con questa ragazza morta. «No» dissi. La mia voce suonava strana, come se non venisse da me. «Mai vista.»

«Sei stata adottata?»

Sam girò la testa di scatto, sorpreso, ma il movimento brusco mi aiutò a riavermi. «No» dissi. Per un tremendo lunghissimo momento mi domandai se fosse possibile. Avevo visto le fotografie, mia madre che sorrideva stanca dal letto d'ospedale, con me appena nata attaccata al seno. No.

«Da quale parte della famiglia hai preso?»

«Cosa?» Impiegai un secondo a capire. Non riuscivo a distogliere gli occhi dalla ragazza a terra; per battere le palpebre, dovetti fare uno sforzo di volontà. Adesso il trasalimento di Doherty e delle sue orecchie non mi stupiva più. «Dalla parte materna. Mio padre non scopava in giro e... No.»

Frank scrollò le spalle. «Valeva la pena tentare.»

«Si dice che tutti abbiano un doppio, da qualche parte» disse Sam a voce bassa. Era troppo vicino, non capii subito che era pronto a sostenermi, nel caso.

Non sono il tipo che sviene, io. Affondai rapida i denti nel labbro inferiore; la fitta mi rischiarò le idee. «Documenti?»

Dalla brevissima pausa, prima che uno dei due rispondesse, capii che qualcos'altro non andava. "Merda" pensai con un nuovo colpo allo stomaco. "Furto d'identità." Non mi era ben chiaro come, però sapevo che con un po' di creatività quella ragazza poteva essere stata in grado di avere un passaporto uguale al mio e di comprare una BMW con la mia carta di credito.

«Un tesserino universitario» disse Frank. «Chiavi nella tasca sinistra, torcia Maglite nella destra, portafogli nella tasca anteriore dei jeans. Dodici euro e qualche spicciolo, una carta bancomat, un paio di vecchie ricevute e questo.» Prese una busta di plastica per le prove da un mucchietto accanto alla porta e me la mise in mano.

Era un tesserino del Trinity College, lucido e dotato di microchip, diverso dai cartoncini plastificati dei miei tempi. La ragazza nella foto sembrava dieci anni più giovane di quel volto pallido ed esangue sul pavimento. Mi sorrideva con il mio sorriso e portava un berretto a righe sghembo e per un secondo la mia mente vacillò: "Non ho mai avuto un berretto a righe, vero? O forse...". Poi inclinai il tesserino alla luce per leggere il nome in modo da poter dare le spalle agli altri due. MADISON ALEXANDRA F.

Per un vertiginoso attimo capii: eravamo stati noi, io e Frank. Avevamo creato Lexie Madison fibra dopo fibra, le avevamo dato un nome e per qualche mese io le avevo prestato faccia e corpo, e quando ce ne eravamo liberati lei aveva chiesto di più. Aveva impiegato quattro anni a riemergere dalla terra buia e dalle notti di vento, e adesso ci aveva convocati qui a vedere il risultato delle nostre azioni.

«Che cazzo!» esclamai quando ricominciai a respirare.

«Quando gli agenti del posto hanno inserito il nome nel computer» disse Frank riprendendosi la busta di plastica e il tesserino «hanno trovato la segnalazione: "Qualsiasi cosa succeda a questa ragazza, contattatemi immediatamente". Non mi ero preoccupato di cancellarla dal sistema; pensavo che potesse tornare ancora utile, prima o poi. Non si può mai sapere.»

«Già» dissi. «Spiritoso.» Fissai il cadavere sforzandomi di comportarmi da poliziotta: non era un golem, quello, era una creatura in carne e ossa. «Sam, che cosa sappiamo?»

Lui mi lanciò una rapida occhiata indagatrice e, vedendo che non ero intenzionata a svenire o urlare o qualsiasi cosa avesse temuto, annuì. Cominciava a tornare in sé. «Femmina, bianca» disse. «Tra i venticinque e i trent'anni, con un'unica ferita da arma da taglio al petto. Secondo Cooper è morta intorno a mezzanotte, ora più ora meno. Più preciso non può essere: shock, variazioni della temperatura esterna, se c'è stata attività fisica prima del decesso, eccetera.»

Pur andando d'accordo con Cooper, a differenza della maggior parte dei colleghi, ero contenta di non averlo incrociato. La minuscola casa sembrava già troppo affollata, il pavimento troppo calpestato dall'andirivieni dei nostri scarponi, e c'erano già troppi occhi su di me. «È stata pugnalata qui dentro?» chiesi.

Scosse la testa. «Difficile a dirsi. Aspettiamo di sentire il dipartimento, anche se la pioggia scesa stanotte ha ripulito tutto per bene e sul sentiero non troveremo più impronte né tracce di sangue. Per quel che conta, comunque, la mia impressione è che il delitto non sia avvenuto qui. Deve essere rimasta in piedi ancora un po' di tempo, dopo la pugnalata. Vedi qui? Il sangue le è colato su una gamba.» Frank spostò servizievole il raggio di luce. «E c'è fango sulle ginocchia, la stoffa in un punto è lacerata, come se fosse caduta, correndo, magari.»

«Cercava un rifugio» dissi. L'immagine mi montò dentro come il brandello di un incubo dimenticato: il viottolo serpeggiante, lei che corre nel buio incespicando sui sassi, il respiro affannoso, un rombo nelle orecchie. Percepivo la presenza di Frank che in disparte osservava attento, senza parlare.

«Possibile» disse Sam. «Magari l'omicida la inseguiva, oppure lei pensava che la inseguisse. Per quel che ne sappiamo possono aver lasciato una traccia grande come un'autostrada, ma ormai sarà sparita da un pezzo.»

Volevo fare qualcosa con le mani. Passarle fra i capelli, coprirmi la bocca, qualsiasi cosa. Per tenerle ferme, le infilai in tasca. «Dunque, alla fine ha trovato un riparo ed è crollata.»

«Non esattamente. Io credo che sia morta di là.» Sam spostò i rami e indicò con un cenno del mento l'altra stanza. «Abbiamo una pozza di sangue di discrete dimensioni. Impossibile dire quanto, vedremo se il dipartimento ci aiuterà... ma, se è ancora così estesa dopo una notte come questa, tenderei a pensare che all'inizio il sangue fosse davvero tanto. Probabilmente era appoggiata con la schiena a quel muro... La maggior parte del sangue è finita sulla maglietta, sulla pancia e sulla parte posteriore dei jeans. Se fosse stata sdraiata, sarebbe colato lateralmente. Guarda qui.»

Indicò la maglietta e nella mia mente si accese una lampadina: non era un disegno batik. «L'ha attorcigliata per premerla sulla ferita nel tentativo di fermare l'emorragia.»

Rannicchiata nell'angolo: raffiche di pioggia, il sangue che le cola tiepido tra le dita. «Come è arrivata fin qui?» chiesi.

«Il nostro uomo alla fine l'ha trovata» rispose Frank. «O qualcun altro.»

Si piegò, sollevò un piede della ragazza tirando verso l'alto la stringa della scarpa - il mio collo si contrasse, vedendo che la toccava - e puntò la torcia sulla suola: consumata e scura, sporca di terriccio. «È stata trascinata. Da morta, perché sotto non c'è sangue: quando è arrivata qui non sanguinava più. Il tizio che l'ha trovata giura di non averla toccata e io gli credo. Aveva l'aria di chi sta per vomitare da un momento all'altro e non voleva saperne di avvicinarsi più del necessario. Non deve essere stata spostata troppo tempo dopo il decesso. Cooper dice che non c'era ancora rigor mortis, né lividità secondaria, inoltre non è stata molto sotto la pioggia perché è appena umida. Se fosse rimasta all'aperto tutta la notte, sarebbe fradicia.»

Piano piano, mentre i miei occhi si abituavano alla luce fioca, mi rendevo conto che le macchie scure che avevo scambiato per ombre e chiazze di pioggia erano sangue. Sangue ovunque: a strisce sul pavimento, nei jeans inzuppati, coagulato sulle mani, fino ai polsi. Non volevo guardarla in faccia, non volevo guardare in faccia nessuno. Tenni gli occhi fissi sulla maglietta talmente a lungo che la stella più scura cominciò a ondeggiare e confondersi. «Impronte?»

«Zero» rispose Frank. «Nemmeno le sue. Con tutto questo terriccio te le aspetteresti, ma come ha detto Sam... la pioggia. Abbiamo soltanto un mucchio di fango nell'altra stanza con le impronte delle scarpe dell'uomo che ci ha chiamati e delle zampe del cane. Ecco, tra l'altro, perché non mi preoccupava l'idea di farti entrare. Lo stesso vale per il viottolo. E qui...» Spostò la luce della torcia lungo il perimetro della stanza, indugiando negli angoli: terriccio e polvere in uno strato uniforme, perfettamente spazzato e pareggiato. «Era così quando siamo arrivati. Le impronte intorno al corpo sono le nostre, di Cooper e dei due poliziotti locali. Chiunque l'abbia spostata si è trattenuto per rimettere in ordine. In mezzo al campo c'è un ramo spezzato di ginepro, forse staccato dal grosso cespuglio vicino all'entrata; immagino che l'abbia adoperato per spazzare il pavimento prima di andarsene. Vediamo se il dipartimento ci trova sopra sangue o impronte digitali. E senza impronte di scarpe...»

Mi diede un'altra busta delle prove. «Noti niente di strano?»

Era un portafogli bianco di finta pelle, con una farfalla ricamata in argento e alcune macchie rosa pallido. «È stato ripulito» dissi. «Se era nella tasca anteriore dei jeans, come hai detto, e lei ha perso tanto sangue, dovrebbe esserne ricoperto.»

«Esatto. La tasca è tutta incrostata e questo è appena macchiato? Lo stesso vale per torcia e chiavi: niente gocce, solo qualche macchia. A quanto pare il nostro uomo le ha svuotato le tasche e ha ripulito tutto prima di rimettere le cose a posto. Chiederemo al dipartimento di rilevare le impronte, ma scommetto che non troveranno niente di utile. Qualcuno qui si è mosso con molta, molta attenzione.»

«Segni di violenza sessuale?» chiesi. Sam sobbalzò. Io ormai ero ben oltre.

«Cooper non lo assicura fino all'autopsia, comunque non c'è niente che lo faccia pensare. Se siamo fortunati le troviamo addosso del sangue non suo - sono tanti gli aggressori che si feriscono - ma non conterei troppo sul DNA.»

La mia prima impressione - assassino invisibile che non lascia tracce - non era sbagliata. Dopo qualche mese alla Omicidi riconosci "quei casi" da lontano. Con l'ultimo barlume di lucidità ricordai a me stessa che, nonostante tutto, questo non riguardava me. «Fantastico» dissi. «Che cosa avete? Cosa sapete di lei oltre al fatto che frequentava il Trinity e andava in giro con un nome falso?»

«Secondo il sergente Byrne è di queste parti» disse Sam. «Abita in una casa che si chiama Whitethorn House con altri studenti, a circa un chilometro da qui. Altro non sappiamo. Non ho ancora parlato con i suoi coinquilini perché...» Indicò Frank.

«Perché io l'ho pregato di aspettare» disse Frank in tono neutro. «Avrei un'ideuzza da sottoporti prima che partano le indagini.» Inarcò un sopracciglio per indicare i due poliziotti davanti alla porta. «Forse è meglio andare a fare quattro passi.»

«Perché no?» convenni. Il cadavere della ragazza stava provocando uno strano effetto, come se facesse sibilare l'aria, tipo il ronzio impercettibile ma fastidioso emesso da un vecchio televisore senza audio: rendeva difficile pensare. «È possibile che se restiamo troppo tempo nella stessa stanza l'universo si trasformi in antimateria» dissi. Restituii a Frank la busta e mi ripulii la mano sui pantaloni.

Mentre varcavo la soglia della stanza, voltai la testa per guardarla. Frank aveva spento la torcia, ma scostando la vegetazione feci entrare un raggio di sole primaverile, e nella frazione di secondo prima che la mia ombra lo bloccasse lei si stagliò nell'oscurità, con il mento piegato, il pugno contratto e il lungo arco della gola, luminosa, insanguinata e implacabile come lo spettro di me stessa.

Fu l'ultima volta che la vidi. All'epoca non ci pensai - avevo altro per la testa -, e ora sembra impossibile, ma quei dieci minuti, netti come un taglio che attraversa la vita, sono stati gli unici momenti che noi due abbiamo passato insieme.

 

Trovammo i poliziotti dove li avevamo lasciati, afflosciati come poltrone-sacco. Byrne fissava catatonico un punto non ben definito a media distanza, Doherty si studiava un dito come se lo avesse appena tirato fuori dal naso.

«Bene» disse il primo quando riemerse dallo stato di trance e si accorse di noi. «Allora ce ne andiamo. È tutta vostra.»

A volte i poliziotti locali sono meravigliosi: setacciano i dintorni in cerca di particolari infinitesimali, stilano un elenco di possibili moventi, ti forniscono il principale indiziato su un piatto d'argento. Altre volte vogliono soltanto passarti la patata bollente e tornarsene in ufficio a giocare a rubamazzetto, come stava chiaramente accadendo in questo caso.

«Ci servite ancora» rispose Sam, il che mi sembrò un buon segno: non sapere fino a che punto Frank gestisse questa faccenda mi innervosiva. «I tecnici del dipartimento possono aver bisogno di aiuto con le ricerche e io voglio informazioni sulla zona.»

«Non era di queste parti» disse Doherty strofinandosi il dito sul fianco dei pantaloni. Era tornato a fissarmi. «Quelli di Whitethorn House vengono da fuori. Non c'entrano niente con Glenskehy.»

«Fortunati bastardi» borbottò Byrne a testa bassa.

«Però viveva qui» puntualizzò paziente Sam «e qui è morta. Questo significa che dovremo setacciare l'area e che voi, che la conoscete bene, darete una mano.»

Byrne affondò ancora di più la testa nelle spalle. «Sono tutti matti da queste parti» disse cupo. «Matti. Non dimenticatelo.»

«Alcuni dei miei migliori amici sono matti» rispose allegro Frank. «Non scoraggiarti.» E, salutati i due con un gesto, puntò verso la cima della collina calpestando l'erba bagnata.

Sam e io lo seguimmo. Non dovevo guardarlo per sapere che in mezzo alla sua fronte c'era una piccola ruga di preoccupazione, ma non avevo l'energia necessaria per rassicurarlo. Ora che avevo lasciato il cottage provavo un senso di oltraggio, di puro e semplice oltraggio. La mia faccia e il mio nome: come tornare a casa un giorno e trovare nella tua cucina un'altra che prepara tranquilla la cena, e con addosso i tuoi jeans più comodi canta le canzoni dei tuoi CD preferiti. Ero talmente furiosa che mi mancava il respiro. Pensavo a quella fototessera e avrei voluto tirare un cazzotto al mio sorriso stampato sulla sua faccia.

«D'accordo» dissi una volta raggiunto Frank in fondo al campo «è stato divertente. Posso tornarmene al mio lavoro, adesso?»

«La VD deve essere molto più appassionante di quello che pensavo, a giudicare dalla tua fretta» rispose lui fingendosi colpito. «Gli occhiali da sole.»

Li lasciai dov'erano, agganciati allo scollo della camicia. «Se questa ragazza non è stata vittima di un episodio di violenza domestica, e non mi pare di vedere niente che indichi questa ipotesi, non c'entra proprio un cazzo con me. Quindi perché mi hai fatto venire fin qui, esattamente?»

«Ehi, piccola, mi mancavi. Ho preso al volo il primo pretesto che mi è capitato.» Mi sorrise e io ricambiai con un'occhiata scontrosa. Riprese subito: «Pensi sul serio che non c'entri un cazzo? Secondo te quanti di quelli che conosci andranno fuori di testa, domani, e telefoneranno per fare il tuo nome?».

Tutta la rabbia che sentivo svanì all'istante, lasciandomi nello stomaco una spiacevole sensazione di vuoto. Frank, lo stronzo, aveva ragione. Quando la foto della ragazza sarebbe apparsa sui giornali, con la richiesta di aiutare le autorità a identificarla, una marea di gente che aveva conosciuto me come Lexie, lei come Lexie e me come Cassie avrebbe voluto sapere chi era morto e chi eravamo o eravamo state se non eravamo Lexie Madison, con grande sgomento generale. Forse può sembrare incredibile, ma era la prima volta che ci pensavo: non esisteva alcuna possibilità di liquidare la faccenda con un Non la conosco, non voglio conoscerla, grazie per avermi fatto perdere tutta la mattina, ci si vede.

«Sam» dissi «puoi rimandare di un paio di giorni la pubblicazione della foto sui giornali? Il tempo di avvisare la gente.» Non sapevo proprio come me la sarei cavata. Vedi, zia Louisa, abbiamo trovato il cadavere di questa ragazza che...

«Interessante» disse Frank. «Adesso che ne parli, direi che tutto questo si adatta benissimo alla mia ideuzza.» In un angolo del campo c'erano alcuni massi gettati alla rinfusa e coperti di muschio. Lui li raggiunse, ne scelse uno e si sedette, facendo dondolare una gamba.

Conoscevo quel bagliore nei suoi occhi. Significava che se ne stava per uscire, con aria indifferente, con qualcosa di assolutamente pazzesco. «Quale ideuzza?»

«Ecco» cominciò, appoggiando la schiena a un masso e intrecciando le braccia dietro la testa. «Abbiamo di fronte un'opportunità unica e irripetibile, non vi pare? Sarebbe un vero peccato sprecarla.»

«Abbiamo?» disse Sam.

«Abbiamo?» ripetei io.

«Oh, sì, cazzo. Sì.» Un sorrisetto pericoloso gli piegava già gli angoli della bocca. «Abbiamo l'opportunità» spiegò senza fretta «di indagare su un caso di omicidio dall'interno, di inserire un'infiltrata esperta nella vita della vittima.»

Lo fissammo.

«Quando mai capita un'occasione simile? È meraviglioso, Cass. Un'opera d'arte.»

«Arte un corno» dissi. «A che cosa diavolo miri, Frankie?»

Lui spalancò le braccia come se la risposta fosse ovvia. «Guarda, sei già stata Lexie Madison, giusto? Potresti tornare a esserlo. Potresti... No, aspetta, lasciami parlare. E se invece di essere morta lei fosse soltanto ferita? Non capisci? Ti potresti infilare nella sua vita esattamente al punto in cui lei l'ha lasciata.»

«Oh, mio Dio» esclamai. «È per questo che non ci sono né gli uomini del dipartimento né quelli dell'obitorio? È per questo che mi hai fatto vestire come una cretina? Perché nessuno si accorgesse che hai una replicante?» Mi tolsi il berretto e lo infilai nella tracolla. Si trattava di un piano ambizioso da progettare così su due piedi, anche per un uomo come Frank. Doveva essergli venuto in mente pochi secondi dopo essere arrivato sulla scena del delitto.

«Puoi mettere le mani su informazioni che nessun poliziotto avrebbe mai, avvicinarti a quelli che frequentava, identificare i sospetti...»

«Vuoi usarla come esca» disse Sam in tono troppo piatto.

«Amico, voglio usarla come agente investigativo» rispose Frank. «Quello che è, se le mie informazioni non sono errate.»

«Vuoi infilarla dove l'assassino potrebbe tornare a finire il lavoro. Questo significa usarla come esca.»

«E allora? Gli infiltrati sono sempre esche. Non le sto chiedendo di fare niente che non esiterei a fare io stesso se...»

«No» ribatté Sam. «Non se ne parla.»

Frank aggrottò la fronte. «Chi sei tu, sua madre?»

«Sono il responsabile del caso e ti dico di no.»

«Magari dovresti rifletterci un po' più di dieci secondi, amico, prima di...»

Era come se io non ci fossi nemmeno. «Pronto?» dissi.

Si voltarono a guardarmi. «Scusa» disse Sam.

«Ciao» aggiunse Frank, sorridendomi.

«Frank» dissi «questa è l'idea più assurda che abbia mai sentito. Sei completamente fuori di testa. Hai perso ogni senso della misura. Sei...»

«Cosa c'è di tanto assurdo?» chiese lui con aria offesa.

«Cazzo.» Mi passai le mani fra i capelli e feci una giravolta completa su me stessa. Colline, campi, poliziotti rintronati, cottage con cadavere di ragazza: non era un sogno incasinato. «Okay, tanto per cominciare, è impossibile. Non ho mai sentito parlare di niente del genere.»

«È questa la bellezza dell'idea» spiegò Frank.

«Se prendi il posto di qualcuno che esiste veramente è per mezz'ora, per fare qualcosa di specifico. Per una consegna o un ritiro, da qualcuno che non ti conosce. Tu invece stai parlando di scaraventarmi nella vita della ragazza, solo perché le assomiglio un po'...»

«Un po'?»

«Sai di che colore sono i suoi occhi? Se fossero azzurri o...»

«Fidati, piccola. Sono marroni.»

«E se è capace di programmare computer o gioca a tennis? Se è mancina? Non si può fare. Mi brucerei nel giro di un'ora.»

Tirò fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di sigarette tutto spiegazzato e ne pescò una. Ancora quel bagliore negli occhi: gli piaceva la sfida. «Mi fido ciecamente di te. Vuoi fumare?»

«No» risposi, benché ne avessi voglia. Non riuscivo a stare ferma, continuavo a camminare su e giù e a misurare il perimetro del prato che ci separava. "Lei non mi piace nemmeno" avrei voluto dire, il che era totalmente insensato.

Frank scrollò le spalle e accese la sigaretta. «Lascia che sia io a preoccuparmi se si può fare o no. Potrebbe non essere fattibile, lo ammetto, però vorrei verificarlo. Poi?»

Sam guardava da un'altra parte, con le mani sprofondate nelle tasche, lasciandomi sola a fronteggiarlo. «E poi» proseguii «in un certo senso non è eticamente corretto. Avrà una famiglia, degli amici. Hai intenzione di dire loro che è viva e sta bene, che ha soltanto bisogno di qualche punto di sutura, mentre Cooper la sta squartando su un tavolo dell'obitorio? Cristo, Frank.»

«Viveva sotto falso nome, Cass» ribatté lui, e aveva ragione. «Pensi davvero che si tenesse in contatto con la famiglia? Quando li rintracceremo, sarà tutto finito. Per loro non farà differenza.»

«E i coinquilini? I poliziotti hanno detto che vivevano nella stessa casa. Se avesse un fidanzato?»

«Le persone che le volevano bene saranno contente se prendiamo l'uomo che l'ha ammazzata. Con qualsiasi mezzo. È quello che vorrei io.» Soffiò il fumo in alto.

Sam irrigidì le spalle. Credeva che Frank facesse il furbo, ma non aveva mai lavorato sotto copertura, non lo poteva sapere: gli infiltrati sono diversi. Non c'è niente che non farebbero pur di raggiungere l'obiettivo. Inutile discutere con Frank, perché intendeva veramente quello che aveva detto: se gli avessero ucciso un figlio e qualcuno glielo avesse tenuto nascosto per riuscire a catturare l'assassino, lui non avrebbe obiettato. È uno degli aspetti che più affascinano del lavoro sotto copertura: la spietatezza, l'assenza di limiti; roba dura, dura abbastanza da impedirti quasi di respirare. Era una delle ragioni per cui avevo mollato.

«E dopo?» chiesi. «Quando sarà finita gli dici: "Ops, a proposito, ho dimenticato di comunicarvi che la vostra amica è morta tre settimane fa"? Oppure devo continuare a essere Lexie Madison fino alla pensione?»

Frank socchiuse gli occhi, riflettendo. «La ferita potrebbe infettarsi» disse, illuminandosi. «Ti riporteranno in ospedale, dove i medici useranno tutte le risorse della medicina moderna, ma senza successo.»

«Porcaccia miseria!» esclamai. Mi sembrava di non aver fatto altro che imprecare, quella mattina. «Che cosa cavolo te la fa sembrare una buona idea?»

«Perché, hai altre obiezioni? Avanti, sentiamo.»

«Vuoi un'obiezione?» chiese Sam senza distogliere gli occhi dal viottolo. «È maledettamente pericoloso.»

Frank alzò un sopracciglio e piegò la testa indicando Sam, sorridendomi con aria furba. Per uno strano secondo faticai a non ricambiare il sorriso.

«E poi è troppo tardi» dissi. «Byrne e Doherty e Comesichiama con il cane sanno che là dentro c'è un cadavere. Mi stai dicendo che gli puoi far tenere la bocca chiusa solo perché ti fa comodo? Con ogni probabilità Comesichiama ha già parlato con metà Wicklow.»

«Il nome di Comesichiama è Richard Doyle, e non ho alcuna intenzione di fargli tenere la bocca chiusa. Appena abbiamo deciso come comportarci, vado a congratularmi con lui per aver salvato la vita di una giovane donna. Se non avesse mostrato tanta prontezza di spirito chiamandoci subito, sarebbe stata una tragedia. È un eroe, e lo può raccontare a chi vuole. E hai visto Byrne, piccola. Non si tratta di un membro felice della nostra gloriosa confraternita. Se gli prospetto un trasferimento, non solo terrà la bocca chiusa ma farà tacere anche Doherty. Poi?»

«Poi» dissi «è inutile. Sam si è occupato di decine di omicidi e li ha risolti quasi sempre senza bisogno di controfigure. Quello che proponi è un piano che richiede una preparazione di settimane...»

«Giorni» mi corresse lui.

«... e a quel punto avrà inchiodato il colpevole. Se tu non intralci le indagini costringendo tutti a fingere che non sia avvenuto alcun omicidio, per cominciare. Questa storia farà soltanto perdere tempo a te, a me e a tutti.»

«Ti incasinerebbe le indagini?» chiese Frank a Sam. «Parliamone in via ipotetica. Se tu raccontassi al pubblico, per un paio di giorni, diciamo, che si è trattato di un'aggressione anziché di un omicidio... cambierebbe tanto?»

Alla fine Sam sospirò. «No» ammise. «Non credo. Indagare su un tentato omicidio o su uno avvenuto non è molto diverso. E, come ha detto Cassie, dovremo essere comunque discreti per alcuni giorni finché non scopriamo chi è, in modo da non creare troppa confusione. Ma non è questo il punto.»

«Okay» rispose Frank. «Sentite cosa suggerisco. In genere voi trovate un sospetto nel giro di settantadue ore, giusto?»

Sam non parlò.

«Giusto?»

«Giusto. E non vedo perché questa volta dovrebbe andare diversamente.»

«Infatti non è detto» ribatté Frank cordiale. «Oggi è giovedì. Teniamoci aperte tutte le possibilità per il fine settimana. Non diciamo in giro che c'è stato un omicidio. Cassie se ne sta a casa per evitare che l'assassino la veda e noi ci teniamo l'asso nella manica. Io trovo quello che c'è da trovare sulla ragazza, nel caso... ovvio, questo andrebbe fatto per forza, o sbaglio? Non mi intrometto, ti do la mia parola. Se, come hai detto tu, entro domenica sera hai un sospetto io mi ritiro, Cassie torna alla VD, riprendono le procedure standard, nessuno si è fatto male. Se però tu non riuscissi... Be', allora avremmo la nostra alternativa.»

Nessuno di noi rispose.

«Vi sto chiedendo tre giorni, gente» disse Frank. «Nessun impegno. Che danno può fare?»

Sam sembrava parzialmente rassicurato dal discorsetto, mentre io no, perché conoscevo il metodo di Frank: procedere a piccolissimi passi, ognuno all'apparenza innocuo, fino a quando ti trovi in mezzo a qualcosa che non avresti mai voluto affrontare. «Ma perché, Frank?» gli chiesi. «Rispondimi e, d'accordo, passerò un fantastico weekend di primavera chiusa in casa a guardare schifezze alla tivù invece di andarmene a passeggio col fidanzato come una persona normale. Stai parlando di dedicare una grande quantità di tempo e di lavoro a un'impresa che potrebbe rivelarsi completamente insensata. Perché?»

Alzò una mano per proteggersi gli occhi e potermi guardare in faccia, alla luce. «Perché?» ripeté. «Cazzo, Cassie! Perché lo possiamo fare. Perché nella storia delle indagini investigative non si è mai vista un'opportunità del genere. Perché sarà un'esperienza pazzesca. Ma non ti rendi conto? Che cosa ti succede? Sei diventata un'imbrattacarte senza dirmelo?»

Era come se mi avesse tirato un pugno nello stomaco. Mi fermai a guardare le colline, lontane da Frank e Sam e dai poliziotti che allungavano il collo per vedere dentro il cottage il mio doppio stecchito sul pavimento.

Dopo un momento, Frank parlò in tono più dolce: «Mi dispiace, Cass. Non me l'aspettavo. Da quelli della Omicidi forse, non da te. Non pensavo che... credevo potessi farlo. Non avevo capito».

Sembrava sinceramente stupito. Sapevo benissimo che mi stava lavorando ai fianchi e avrei potuto elencare tutte le sue tecniche a una a una, ma non importava, perché aveva ragione. Cinque anni fa, un anno fa, mi sarei tuffata in quest'avventura di incomparabile fascino, sarei stata la prima a controllare se la ragazza aveva i lobi delle orecchie forati e come si pettinava. Guardai verso i campi e con distacco e lucidità pensai: "Che cosa cazzo mi è successo?".

«Va bene» dissi infine. «Quello che racconterete alla stampa non è affar mio, decidetelo voi. Io mi tengo nascosta fino a domenica. Però non ti prometto altro, Frank. Indipendentemente da quello che Sam trova o non trova, non significa che lo farò. È chiaro?»

«Brava ragazza» rispose. Sentivo il trionfo nella sua voce. «Per un momento ho temuto che gli alieni ti avessero piantato un microchip nel cervello.»

«Vaffanculo» dissi girandogli le spalle. Sam non aveva l'aria felice, ma non me ne potevo preoccupare ora. Avevo bisogno di stare da sola a riflettere.

«Io non ho ancora detto sì» precisò.

«È una tua decisione, ovvio» ribatté Frank per niente preoccupato. Sapevo che c'erano in serbo per lui altri scontri. Sam è un uomo dai modi rilassati, ma ogni tanto gli capita di puntare i piedi e a quel punto cercare di fargli cambiare idea è decisamente impossibile. «Però sbrigati. Se siamo d'accordo fino a domenica, dobbiamo far arrivare al più presto un'ambulanza.»

«Fammi sapere cosa decidi» dissi a Sam. «Io vado a casa. Ci vediamo stasera?» Frank mi guardò corrucciato. Gli infiltrati hanno una rete informativa privata di notevole estensione, però si tengono fuori dai pettegolezzi con un certo puntiglio, e Sam e io eravamo stati piuttosto riservati. Mi guardò divertito e vagamente allusivo. Lo ignorai.

«Non so quando finisco» rispose Sam.

Scrollai le spalle. «Ti aspetto.»

«Ci vediamo presto, piccola» disse Frank tutto contento, prendendo un'altra sigaretta dal pacchetto, e con un cenno di saluto sparì.

Sam riattraversò il campo insieme a me, abbastanza vicino da farmi sentire la spalla contro la mia in modo protettivo. Avevo l'impressione che volesse impedirmi di ripassare vicino al cadavere da sola. In realtà io avrei voluto dare un'altra occhiata, meglio se per conto mio, ma siccome sentivo lo sguardo di Frank sulla schiena, passando davanti al cottage non voltai nemmeno la testa.

«Dovevo avvertirti» disse Sam all'improvviso. «Mackey non voleva. Era piuttosto insistente e in quel momento io non ero in grado di ragionare abbastanza da... avrei dovuto dirtelo. Mi dispiace.»

Era ovvio che Frank, come del resto chiunque nel mio assurdo universo, avesse sentito parlare dell'operazione Vestale. «Voleva vedere come l'avrei presa» dissi. «Controllare i miei nervi. Ed è bravo a ottenere quello che vuole. Non preoccuparti.»

«Questo Mackey... è un buon poliziotto?»

Non sapevo come rispondere. "Buon poliziotto" non è una definizione che prendiamo alla leggera, in genere. Comprende una vasta e complessa costellazione di significati diversi. Non ero certa che nel caso di Frank corrispondesse al senso che intendeva Sam o, a pensarci bene, io. «È furbo come un demonio» dissi alla fine «e il colpevole lo becca. In un modo o nell'altro. Gli concedi questi tre giorni?»

Sam sospirò. «Se tu sei d'accordo di startene rintanata in casa nel weekend allora sì, direi di sì. Non farà male a nessuno, in effetti, tenere il caso sotto controllo fino a quando ci siamo chiariti le idee con un'identificazione, un sospetto, qualsiasi cosa. Servirà a limitare la confusione. L'idea di dare false speranze agli amici della ragazza non mi va, però allo stesso tempo credo che qualche giorno di dubbio sulle sue possibilità di ripresa potrebbe attutire il colpo...»

La giornata stava diventando splendida. Il sole asciugava i prati e nel silenzio si sentivano i minuscoli insetti entrare e uscire zigzagando dai fiori di campo. C'era qualcosa nel paesaggio collinare che mi rendeva irritabile, qualcosa di caparbio e reticente, come l'atteggiamento di chi ti volta le spalle. Impiegai un secondo per capire di che si trattava: era un paesaggio deserto. Nemmeno uno degli abitanti di Glenskehy era venuto a vedere che stava succedendo.

Nel viottolo, al riparo da occhi indiscreti, dietro alberi e siepi, Sam mi strinse forte a sé.

«Ho creduto che fossi tu» mormorò tra i miei capelli con un filo di voce tremante. «Ho creduto che fossi tu.»