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Non passai i tre giorni successivi a guardare robaccia alla televisione come avevo detto. Se già non mi riesce di stare ferma normalmente, quando sono nervosa devo proprio muovermi. Quindi - visto che ho scelto questo lavoro per le emozioni che offre - mi dedicai alle pulizie. Passai l'aspirapolvere, strofinai e lucidai ogni centimetro dell'appartamento, fino ai battiscopa e ai fornelli della cucina. Tolsi le tende, le lavai nella vasca e le appesi ad asciugare sulla scala antincendio. Stesi la trapunta sul davanzale e usai perfino il battipanni. Avrei dipinto le pareti, se avessi avuto della pittura. Presi in considerazione l'ipotesi di travestirmi e andare in cerca di un colorificio, ma siccome avevo promesso a Frank di non uscire mi dedicai a pulire la cassetta dello scarico nel bagno.

E ripensai alle sue parole: "Non da te...". Dopo l'operazione Vestale avevo lasciato la Omicidi. Violenza domestica non era granché al confronto, ma almeno era un lavoro tranquillo, anche se mi rendo conto che la scelta dell'aggettivo è strana. Qualcuno picchia qualcun altro oppure non lo picchia; semplice, e tutto quello che devi fare è scoprire se le botte ci sono state oppure no, e come farle cessare. Un lavoro chiaro e inequivocabilmente utile, e io lo volevo a tutti i costi. Ero stanca di sfide, dilemmi morali e complicazioni. "Sei diventata un'imbrattacarte?" Il mio bel completo da ufficio, stirato e appeso all'armadio in attesa del lunedì, mi dava la nausea. Alla fine, non riuscendo più a sopportarne la vista, lo scaraventai dentro l'armadio.

E pensavo in continuazione alla ragazza morta. Mi pareva che nella sua faccia dovesse esserci un indizio, un messaggio segreto in un codice che solo io potevo decifrare, se soltanto avessi avuto la capacità o il tempo di individuarlo. Se fossi stata ancora alla Omicidi avrei rubato una fotografia o una copia del tesserino universitario per guardarmeli in privato. Sam me li avrebbe procurati, se glielo avessi chiesto, ma non l'avevo fatto.

Da qualche parte nella città Cooper stava per eseguire l'autopsia. L'idea mi faceva andare fuori di testa.

Non avevo mai incontrato nessuno che mi assomigliasse neanche vagamente. Dublino pullula di ragazze che a me sembrano tutte uguali, o che quanto meno usano lo stesso spray abbronzante: io magari non sono una bellezza, però non sono anonima. Il padre di mia madre era francese e l'eredità francese e quella irlandese si sono combinate dando vita a qualcosa di molto particolare. Non ho fratelli né sorelle; mi rimangono soltanto alcune zie e alcuni zii e un'allegra banda di secondi cugini, nessuno dei quali mi assomiglia.

I miei genitori sono morti quando avevo cinque anni. Lei faceva la cantante di cabaret, lui il giornalista; una notte di dicembre, mentre rientravano a casa dopo un concerto a Kilkenny, finirono su un tratto di strada scivoloso. L'automobile capottò tre volte - è probabile che mio padre avesse premuto troppo l'acceleratore - e finì capovolta in mezzo a un campo finché un contadino, vedendo i fari accesi, andò a dare un'occhiata. Lui morì l'indomani, lei non arrivò all'ambulanza. Lo racconto subito, in genere, per liberarmi del problema. La gente o ammutolisce o diventa melensa ("Ti devono mancare tanto") e più ci si conosce, più si sentono in diritto di dire cose sdolcinate. Non so mai come rispondere; visto che avevo cinque anni e da allora ne sono passati altri venticinque, credo che non sia fuori luogo dire che ho superato il trauma, più o meno. Mi piacerebbe ricordare i miei genitori abbastanza per sentirne la mancanza, invece mi manca soltanto l'idea di loro, e a volte le canzoni che mi cantava la mamma, e di questo non parlo con nessuno.

Sono stata fortunata. Migliaia di altri bambini in situazioni analoghe sono finiti in pessime famiglie adottive o in scuole-caserma. Prima di andare a Kilkenny i miei mi avevano lasciata dalla sorella di papà e suo marito, a Wicklow. Ricordo il telefono che squilla nel cuore della notte, passi rapidi sulle scale e mormorii insistenti in corridoio, un'automobile con il motore acceso, gente che va e viene per giorni e poi zia Louisa che mi fa sedere sul divano nel salotto in penombra per spiegarmi che sarei rimasta a lungo da loro perché mamma e papà non ritornavano più.

Era molto più anziana di papà, la zia, e lei e zio Gerald non avevano figli. Lui era uno storico; giocavano molto a bridge. Penso che non si siano mai abituati davvero alla mia presenza... Mi avevano dato la stanza degli ospiti, completa di un lettone matrimoniale e piccole suppellettili fragili, con la stampa, inadeguata, della Nascita di Venere, e quando fui abbastanza grande da voler attaccare ai muri dei poster si preoccuparono non poco. Comunque per dodici anni e mezzo mi nutrirono, mi mandarono a scuola, ai corsi di ginnastica e alle lezioni di musica, accarezzandomi sulla testa con aria distratta ma affettuosa e lasciandomi per lo più in pace. In cambio io facevo in modo che non sapessero quando marinavo la scuola, quando cadevo da posti sui quali non sarei dovuta salire, quando venivo punita o che avevo cominciato a fumare.

Era stata - e anche questo sembra scioccare la gente - un'infanzia felice. I primi mesi passai un sacco di tempo rintanata in fondo al giardino a piangere fino a vomitare e a insultare i bambini del vicinato che cercavano di fare amicizia. Ma i bambini sono creature pragmatiche, sopravvivono nelle situazioni peggiori, e anch'io, dopo un lungo periodo, dovetti accettare il fatto che niente avrebbe riportato in vita i miei genitori e smettere di ignorare le numerose cose vive intorno a me: Emma, che abitava nella casa accanto e che si affacciava dal muretto, la mia nuova bicicletta rosso fiammante nel sole e i gattini selvatici nella baracca, tutte cose che con insistenza cercavano di richiamare la mia attenzione nell'attesa che mi riscuotessi e tornassi a giocare. Ho scoperto presto che rimpiangere ciò che si è perduto è uno spreco inutile.

Mi disintossicai con una cura intensiva di nostalgia, il mio equivalente del metadone, ma meno tossico, meno banale, meno incline a portare alla pazzia: coltivando la mancanza di qualcosa che non avevo mai avuto. Quando compravo le merendine con i miei compagni di gioco, ne conservavo metà per una sorella immaginaria (le tenevo in fondo all'armadio, dove si trasformavano in una poltiglia appiccicosa che si infilava nelle scarpe), e nel letto facevo spazio per lei, se Emma o un'altra bambina non si fermavano a dormire. Quando l'orribile Billy MacIntyre, che in classe sedeva nel banco dietro al mio, si pulì il naso sulle mie trecce, il mio fratello immaginario lo picchiò in attesa che diventassi abbastanza grande per farlo da sola. Nella mia fantasia, vedendoci insieme gli adulti pensavano: "Oh, guarda, non sono identici?".

Non cercavo affetto, per niente. Ciò che volevo era qualcuno cui appartenere; qualcuno che con la sua esistenza rappresentasse una garanzia, la prova concreta che eravamo uniti per sempre. Dalle foto vedo che assomiglio a mia madre, e a nessun altro. Non so se riuscite a immaginarlo. A scuola tutte le mie compagne avevano il naso di famiglia o i capelli del padre, gli stessi occhi delle sorelle. Persino Jenny Bailey, che era stata adottata, sembrava imparentata con il resto della classe: erano gli anni Ottanta e in Irlanda erano tutti imparentati fra loro, in un modo o nell'altro. Quand'ero piccola, il fatto di non avere nessuno per cui preoccuparmi mi faceva sentire quasi invisibile. Niente testimoniava il mio diritto di esserci. Forse venivo da chissà dove, ero stata lasciata sulla terra dagli alieni, rapita dagli elfi, creata in laboratorio dalla CIA, e se un giorno qualcuno si fosse presentato a reclamarmi niente al mondo avrebbe potuto trattenermi.

Se questa ragazza misteriosa fosse entrata nella mia classe, un mattino di tanti anni fa, mi avrebbe reso felice. Poiché non era accaduto, io ero cresciuta, mi ero fatta una ragione della mia solitudine e avevo smesso di rimuginare. Ora, di colpo, mi trovavo con la migliore immagine riflessa di me che potessi concepire, e la cosa non mi piaceva affatto. Mi ero abituata a essere sola, e il legame con questa ragazza mi faceva l'effetto di un paio di manette scattate all'improvviso intorno ai miei polsi, talmente strette da affondare nella carne.

Inoltre sapevo perché aveva assunto l'identità di Lexie Madison. Era una scena netta e nitida nella mia mente, come se fosse successo a me, e nemmeno questo mi piaceva. Da qualche parte in città, al bancone di un pub affollato o in un negozio mentre era intenta a scegliere un vestito, qualcuno alle sue spalle l'aveva apostrofata: "Lexie? Lexie Madison? Cielo, non ti vedo da secoli!". Dopo di che le era bastato agire con cautela e fare le domande giuste ("È passato tanto tempo, non ricordo, che cosa stavo facendo l'ultima volta che ci siamo visti?"), guadagnando piano piano l'accesso alle informazioni. Non era sicuramente una stupida, la ragazza.

Se molti casi di omicidio si rivelano scontri fatali di intelligenze fra omicida e inquirenti. Questo era diverso. Per la prima volta il mio antagonista era la vittima: provocatoria, aggrappata strettamente ai suoi segreti e perfettamente speculare, troppo uguale per essere vera.

All'ora di pranzo di sabato avevo rimuginato così tanto che, salita sul piano della cucina, presi da sopra gli armadietti la scatola delle scarpe dove conservavo i miei Documenti Ufficiali. Ne scaraventai il contenuto sul pavimento e controllai il certificato di nascita. Maddox, Cassandra Jeanne, femmina, tre chili e duecentocinquanta grammi.

«Scema» dissi a voce alta, e rimisi a posto la scatola.

 

Quel pomeriggio venne a trovarmi Frank. Ero ormai talmente stufa di stare ferma - l'appartamento è piccolo e non c'era più niente da pulire - che sentire la sua voce al citofono mi fece addirittura piacere.

«In che anno siamo?» chiesi quando arrivò in cima alle scale. «Chi c'è al governo?»

«Piantala di lamentarti» rispose lui abbracciandomi. «Hai tutta la casa a disposizione. Pensa se fossi un cecchino nascosto in un buco senza poter muovere un muscolo, costretta a pisciare dentro una bottiglia. E ti ho anche portato delle provviste.»

Mi diede un sacchetto della Tesco con alcuni generi di prima necessità: biscotti al cioccolato, sigarette, caffè macinato e due bottiglie di vino.

«Sei un angelo, Frank» gli dissi. «Mi conosci anche troppo bene.» In effetti era così: nonostante fossero trascorsi quattro anni, ricordava che fumo Lucky Strike leggere. Non era una sensazione rassicurante, ma del resto non voleva neppure esserlo.

Frank fece una smorfia distaccata. «Hai un cavatappi?»

Mi si alzarono subito le antenne, però reggo abbastanza bene l'alcol e lui sapeva che non sarei stata così stupida da sbronzarmi. Gli allungai il cavatappi e andai a prendere due bicchieri.

«Bel posticino» disse mentre apriva la prima bottiglia. «Avevo paura di trovarti in qualche fasullo appartamento da yuppie pieno di cromature.»

«Con il mio stipendio da poliziotta?» A Dublino i prezzi delle case sono simili a quelli di New York, solo che a New York con gli stessi soldi ti danno anche New York. Il mio appartamento in affitto è un monolocale all'ultimo piano di un grande palazzo georgiano ristrutturato. Il camino in ferro battuto è originale, c'è spazio quanto basta per un futon, un divano e i miei libri; in un angolo il pavimento è in pendenza, una famiglia di gufi abita nel sottotetto e dalle finestre si vede la spiaggia di Sandymount. A me piace.

«Con lo stipendio di due poliziotti. Non stai con il nostro buon Sammy?»

Sedetti sul bordo del futon e gli tesi il bicchiere da riempire. «Da pochi mesi. Non siamo ancora arrivati alla convivenza.»

«Credevo che foste insieme da più tempo... sembrava piuttosto protettivo, giovedì. È vero amore?»

«Non sono affari tuoi» dissi toccando il suo bicchiere con il mio. «Salute. Dunque: che ci fai qui?»

Sembrò offeso. «Pensavo che un po' di compagnia ti avrebbe fatto piacere. Cominciavo a sentirmi in colpa all'idea di averti chiusa qui dentro da sola...» Gli lanciai un'occhiataccia, e rendendosi conto che non attaccava lui sorrise. «Sei troppo furba per me, lo sai? Temevo che potessi essere affamata, che ti annoiassi, o avessi un così disperato bisogno di una sigaretta da decidere di uscire a comprare qualcosa. C'è una possibilità su mille che ti veda qualcuno che conosce la nostra Lexie, ma perché correre rischi?»

Suonava plausibile, eppure conoscevo la sua abitudine di gettare esche in varie direzioni per distrarti dal grosso amo in agguato proprio sotto il tuo naso. «Frankie, sono ancora intenzionata a non farlo» dissi.

«Comprensibile» rispose imperturbabile lui. Bevve un lungo sorso di vino e si sistemò più comodamente sul divano. «Ho fatto due chiacchiere con il capo, a proposito, e a questo punto è ufficialmente un'indagine congiunta: squadra Omicidi e sezione Infiltrati. Probabilmente il tuo Sam te l'ha detto.»

No. Sam se n'era rimasto a casa sua nelle ultime due notti ("Mi devo svegliare alle sei, non c'è bisogno che lo faccia anche tu. A meno che tu non abbia bisogno di me... Te la cavi da sola?"); dopo l'incontro sulla scena del delitto non lo avevo più visto. «Sono certa che ne saranno tutti felici» dissi. Le operazioni congiunte sono una sciagura per le parti coinvolte, perché in genere finiscono per ridursi a interminabili quanto mutili scontri di livelli di testosterone.

Scrollò le spalle. «Sopravviveranno. Vuoi sentire cosa abbiamo scoperto sulla ragazza?»

Certo che sì. Lo volevo come un alcolista vuole la bottiglia: quanto bastava per ignorare la realtà del fatto che era una pessima idea. «Visto che sei venuto fin qui» dissi «sentiamo.»

«Ottimo» rispose lui rovistando nel sacchetto della spesa in cerca delle sigarette. «Dunque: compare la prima volta nel febbraio del 2002, quando apre un conto in banca presentando il certificato di nascita di Alexandra Madison. Usa il certificato, la dichiarazione della banca e la somiglianza fisica per farsi dare i tuoi documenti dall'UCD, che poi usa per iscriversi al Trinity per il dottorato in letteratura.»

«Un tipo organizzato.»

«Senz'altro. Organizzata, creativa e convincente. Bravissima, non avrei saputo fare meglio. Non ha mai chiesto il sussidio di disoccupazione, mossa intelligente. Si è trovata un lavoro in un bar del centro, ha lavorato a tempo pieno tutta l'estate e in ottobre ha cominciato l'università. Il titolo della sua tesi - ti piacerà - è "Altre voci: identità, dissimulazione e verità". Tratta delle donne che sono diventate scrittrici con una falsa identità.»

«Forte» dissi. «Aveva anche il senso dell'umorismo.»

Frank mi guardò canzonatorio. «Non devi fartela piacere per forza, piccola» disse dopo un momento. «Accontentiamoci di trovare chi l'ha ammazzata.»

«Trovalo tu. Io no. C'è altro?»

Si infilò la sigaretta tra le labbra e prese l'accendino. «Quindi è al Trinity. Fa amicizia con altri quattro specializzandi e frequenta quasi esclusivamente loro. Nel settembre scorso uno dei quattro eredita da un prozio una casa nella quale si trasferiscono tutti insieme. Whitethorn House, poco fuori Glenskehy, a nemmeno un chilometro dal posto dove è stata trovata morta. Mercoledì sera esce a fare una passeggiata e non torna più. Gli altri quattro si forniscono un alibi a vicenda.»

«Tutte cose che avresti potuto raccontare al telefono» dissi.

«Sì» ribatté lui rovistando in una tasca della giacca «però non avrei potuto farti vedere queste. Eccoli: i Fantastici Quattro. I coinquilini.» Appoggiò alcune fotografie sul tavolino.

Un'istantanea scattata in una giornata d'inverno, con il cielo grigio e una spruzzata di neve sul terreno: cinque persone davanti a una grande casa georgiana, con le teste vicine e i capelli mossi dal vento. Lexie è in mezzo, avvolta nella giacca che le avevo visto nel cottage, e ride e la mia mente rifà quella sbandata improvvisa: "Quando ho...?". Frank mi osservava con aria famelica. Appoggiai la foto sul tavolo.

Le altre erano immagini prese da un video amatoriale, sfocate ai bordi dove i soggetti erano in movimento, stampate in un ufficio della Omicidi: la stampante lascia una striscia d'inchiostro nell'angolo in alto a destra. Quattro immagini delle figure intere, quattro primi piano, tutti scattati nella stessa stanza con la stessa tappezzeria logora a fiorellini come sfondo. Un enorme abete, senza decorazioni, in un angolo in due delle foto: poco prima di Natale.

«Daniel March» disse Frank. «Non Dan né tantomeno Danny: Daniel. È quello che ha ereditato la casa. Figlio unico, orfano, vecchia famiglia angloirlandese. Il nonno ha perso quasi tutto in cattivi affari negli anni Cinquanta, ma al piccolo Danny rimane abbastanza per una piccola rendita. Siccome ha una borsa di studio, non paga le tasse universitarie. La sua tesi, e non ti sto prendendo in giro, è sull'oggetto inanimato come narratore nella poesia epica medievale.»

«Non è scemo» dissi. Daniel era grande e grosso, quasi un metro e novanta e di stazza adeguata, con lucidi capelli scuri e mascella quadrata. Seduto su una sedia con i braccioli, stava togliendo con delicatezza da una scatola un gingillo di vetro e guardava verso la macchina fotografica. I vestiti che indossava - camicia bianca, pantaloni neri, morbido cardigan grigio - sembravano costosi. Nel primo piano i suoi occhi grigi dietro gli occhiali con la montatura in acciaio erano freddi come il ghiaccio.

«Decisamente non scemo. Nessuno di loro lo è, men che meno lui. Dovrai starci attenta.»

Ignorai le sue parole. «Justin Mannering» riprese. Justin era impigliato in una fila di luci natalizie e le guardava con aria confusa. Alto anche lui, ma magro e prematuramente professorale: i capelli corti, color topo, già con i segni di un'incipiente calvizie, occhialini privi di montatura, una faccia allungata e gentile. «Di Belfast. Tesi su amore sacro e amor profano nella letteratura rinascimentale, qualsiasi cosa sia l'amore profano; quello che costa un paio d'euro al minuto, direi. La madre è morta quando lui aveva sette anni, padre risposato, due fratellastri, Justin non torna a casa spesso. Ma papà - paparino è avvocato - paga ancora le tasse e tutti i mesi gli manda i soldi. Facile la vita per qualcuno, eh?»

«Non è colpa loro se le famiglie sono ricche» risposi distrattamente.

«Potrebbero trovarsi un fottuto lavoro, no? Lexie dava ripetizioni, faceva la sorveglianza durante gli esami scritti delle matricole, trascriveva i voti... aveva lavorato in un bar fino a quando non si erano trasferiti a Glenskehy, però fare la pendolare era complicato. Tu non lavoravi, mentre studiavi?»

«Come cameriera in un pub, e mi faceva schifo. Se ne avessi avuto la possibilità me lo sarei risparmiato. Farsi dare pizzicotti sul sedere da impiegati ubriachi non ti trasforma necessariamente in una persona migliore.»

Scrollò le spalle. «Non mi piacciono quelli che trovano tutto facile. A proposito: Raphael Hyland, detto Rafe. Un altezzoso stronzetto. Papi è un banchiere di Dublino, trasferito a Londra negli anni Settanta. Madre supermondana. Divorzio quando lui aveva sei anni, mollato subito in collegio e spostato ogni due anni circa con gli avanzamenti del paparino in carriera, che si poteva permettere collegi sempre più cari. Rafe vive con gli interessi del suo fondo fiduciario. La tesi che sta preparando riguarda il teatro giacobiano.»

Rafe era sdraiato sul divano con in mano un bicchiere e in testa un berretto da babbo natale, e fungeva, con un certo successo, da elemento decorativo. Era di una bellezza fuori dal comune, di quel genere che spinge gli altri maschi a fare commenti sprezzanti a voce bassa. Alto e magro come Justin, con una faccia tutta zigomi e curve pericolose, dorato dalla testa ai piedi: folti capelli biondo scuro, il tipo di carnagione che sembra sempre un po' abbronzata, occhi color tè, allungati come quelli di un predatore. Sembrava la maschera funeraria di un faraone egizio.

«Accidenti» esclamai. «All'improvviso la tua proposta mi sembra più allettante.»

«Se fai la brava non vado a raccontare al tuo uomo che l'hai detto. Comunque è molto probabile che il tizio sia gay» disse con inquietante prevedibilità. «Ultima ma non meno importante: Abigail Stone. Detta Abby.»

Non era proprio una bellezza, Abby - piccola, capelli castani lunghi fino alle spalle, naso camuso -, eppure c'era qualcosa di particolare nella sua faccia: la strana forma delle sopracciglia e la piega della bocca le davano un'aria originale che attirava l'attenzione. Sedeva davanti a un fuoco di torba intenta a infilare ghirlande di popcorn, ma rivolgeva alla persona che azionava la videocamera - presumibilmente Lexie - un'occhiata beffarda, e il movimento di una mano mi faceva pensare che avesse appena lanciato un popcorn contro l'obiettivo.

«Lei ha una storia diversa» disse Frank. «Nata a Dublino, padre mai visto, la madre l'ha data in adozione quando aveva dieci anni. Si è diplomata, è entrata al Trinity e facendosi un culo pazzesco ha finito con il massimo dei voti. Tesi sulle classi sociali nella letteratura vittoriana. Si è mantenuta lavorando come donna delle pulizie e dando ripetizioni ai ragazzini; adesso che non deve più pagare l'affitto - Daniel non chiede niente a nessuno - guadagna qualche soldo all'università con le lezioni e facendo l'assistente del suo professore. Andrete d'accordo.»

Anche colti così di sorpresa, i quattro ti facevano venire voglia di guardarli ancora. In parte per l'assoluta luminosa perfezione dell'insieme... mi pareva di sentire il profumo del pan di zenzero nel forno e le carole in sottofondo, mancava giusto un pettirosso sul davanzale per il ritratto natalizio da cartolina. In parte per com'erano vestiti, in modo austero, quasi da puritani: le camicie immacolate dei maschi, la piega impeccabile dei pantaloni, la lunga gonna di lana di Abby ripiegata con modestia intorno alle ginocchia, non un marchio in vista. Quando frequentavo io l'università ci vestivamo con cose che sembravano essere state lavate una volta di troppo in una lavanderia scadente con un detersivo di bassa qualità, e infatti era così. L'impeccabilità di questi ragazzi era tale da risultare inquietante. Forse visti singolarmente sarebbero sembrati sottotono, o addirittura noiosi, nell'orgia dublinese dell'ostentazione di marchi famosi; ma in una visione d'insieme la loro aria distaccata e provocatoria li rendeva ben più che soltanto eccentrici, come se arrivassero da un altro secolo, lontano e straordinario. Come la maggior parte degli agenti investigativi - e Frank lo sapeva, era ovvio - non mi riusciva di distogliere lo sguardo da qualcosa che non capivo.

«Un bel gruppo» dissi.

«Uno strano gruppo, direi, secondo quel che dice il resto della facoltà di letteratura. I quattro si sono incontrati all'inizio del college, quasi sette anni fa. Da allora sono inseparabili, non hanno tempo per nessun altro. Non risultano particolarmente simpatici: gli altri studenti, cosa strana, li trovano molto chiusi. Invece la nostra ragazza è riuscita a inserirsi non si sa come, e appena arrivata, direi. Altri hanno cercato di fare amicizia con lei, ma non era interessata. Aveva messo gli occhi su questo gruppo.»

La capivo, e questo me la rendeva un po' più simpatica. Qualsiasi cosa fosse stata, non era una ragazza dai gusti dozzinali. «Che cosa gli hai detto?»

Fece una smorfia. «Che, una volta arrivata al cottage, lo shock e il freddo hanno provocato un coma ipotermico che le ha rallentato il battito cardiaco - chiunque l'avrebbe creduta morta - bloccando l'emorragia e prevenendo eventuali danni agli organi. Secondo Cooper è "ridicolo da un punto di vista scientifico ma plausibile per chi non sappia di medicina", il che a me sta bene. Per ora nessuno ha sollevato dubbi.»

Accese una sigaretta e soffiò qualche anello di fumo verso il soffitto. «È ancora incosciente e potrebbe non farcela. Non si può mai dire.»

Non mi potevo accontentare. «Vorranno andare a trovarla» dissi.

«L'hanno chiesto. Sfortunatamente per motivi di sicurezza in questo momento non possiamo dire dove si trova.»

Lui si stava divertendo. «Come l'hanno presa?»

Rifletté a lungo, con la testa appoggiata allo schienale del divano, fumando lentamente. «Scossi» disse infine. «È naturale, direi. Però non ti saprei dire se è perché la loro amica è stata accoltellata o se fra loro ce n'è uno terrorizzato all'idea che se si riprende racconta quello che è successo. Sono molto collaborativi, rispondono a tutte le domande, per niente reticenti, nulla del genere; è solo dopo che ti rendi conto che in realtà ti hanno detto ben poco. Uno strano gruppetto, Cass: difficile da decifrare. Mi piacerebbe vedere come te la cavi con loro.»

Raggruppai le fotografie e gliele restituii. «D'accordo» dissi. «Ti chiedo ancora una volta perché sei venuto fin qui a farmele vedere.»

Scrollò le spalle e mi guardò facendo gli occhioni innocenti. «Per sapere se ne riconoscevi qualcuno. Questo avrebbe modificato...»

«Non li conosco. Parla chiaro, Frank. Che cosa vuoi da me?»

Sospirò. Riordinò con cura il mucchietto di fotografie e le infilò di nuovo nella tasca della giacca.

«Voglio sapere se sto perdendo il mio tempo» rispose a bassa voce. «Ho bisogno di sapere se sei sicura al cento per cento di volertene tornare in ufficio, lunedì mattina, e dimenticare che questo sia mai successo.»

Dalla sua voce erano sparite l'allegria e la disinvoltura, e lo conoscevo abbastanza per sapere che soprattutto in momenti come questo era davvero pericoloso. «Non so se l'opzione di dimenticare mi è stata concessa» dissi guardinga. «Mi sento tirata dentro, non mi piace e non voglio entrarci.»

«Ne sei sicura? Perché in questi due giorni mi sono fatto un bel culo per spremere chiunque in cerca di dettagli sulla vita di Lexie Madison...»

«Avresti dovuto farlo in ogni caso. Piantala di farmi sentire in colpa.»

«... e se sei sicura al cento per cento, allora non ha senso perdere il tuo tempo e il mio fingendo di assecondarmi.»

«Me l'hai chiesto tu di assecondarti» precisai. «Solo tre giorni, nessun impegno, bla bla bla.»

Annuì pensieroso. «E non hai fatto altro. Mi hai assecondato e basta perché alla sezione Violenza domestica sei contenta. Non hai dubbi.»

La verità è che Frank aveva toccato un punto nevralgico, è la sua specialità. Forse era stato il fatto di rivederlo, con il suo sorriso amaro e la parlantina veloce che mi riportavano ai tempi in cui lavorare era entusiasmante, ma la voglia era quella di prendere la rincorsa e tuffarmici. Forse era l'aria frizzante della primavera, che mi stuzzicava, forse la mia incapacità di restare infelice troppo a lungo. Qualunque fosse la ragione, avevo l'impressione di essere sveglia per la prima volta da mesi, e all'improvviso l'idea di tornare in ufficio, lunedì - benché non avessi alcuna intenzione di ammetterlo con lui - mi faceva star male. Lavoro con uno zotico che si chiama Maher, porta cardigan da golfista, trova tutti gli accenti non irlandesi fonte di infinito spasso e respira con la bocca aperta quando scrive al computer, e all'improvviso non ero certa di poter trascorrere un'altra ora in sua compagnia senza tirargli in testa la cucitrice.

«Questo che cosa c'entra con il caso?»

Spense la sigaretta. «Pura curiosità» disse. «La Cassie Maddox che conoscevo io non sarebbe stata felice di un lavoretto da ufficio che poteva fare anche con la mano sinistra. Tutto qui.»

Di colpo e con violenza, lo volevo fuori da casa mia. La faceva sembrare troppo piccola e ingombra di cose, asfissiante. «Sì, be'...» dissi raccogliendo i bicchieri per portarli nel lavello, «è passato tanto tempo.»

«Cassie» mi chiamò con la sua voce più gentile. «Che cosa ti è successo?»

«Ho trovato Gesù Cristo» dissi scaraventando i bicchieri nel lavello «e il mio Salvatore Privato non approva che io giochi con la testa del mio prossimo. Ho subito un trapianto di cervello, ho preso il morbo della mucca pazza, sono stata pugnalata, sono invecchiata e mi è venuto un po' di buon senso, chiamalo come ti pare, Frank, perché io non lo so che cosa è successo. So soltanto che voglio pace e tranquillità, tanto per cambiare, e che questo caso del cazzo e questa tua idea del cazzo non me le darebbero. È chiaro?»

«Sì» rispose in un tono talmente ragionevole da farmi sentire stupida. «Dipende da te. Ma se ti prometto di non parlarne più, mi dai un altro bicchiere di vino?»

Mi tremavano le mani. Aprii il rubinetto e non risposi.

«Possiamo andare d'accordo. Come hai detto tu è passato tanto tempo. Possiamo discutere un po' del tempo, io ti faccio vedere le foto di mia figlia e tu mi racconti del tuo nuovo ragazzo. Che ne è stato di Comesichiama con cui stavi, l'avvocato? Mi è sempre sembrato un po' troppo a modo per te.»

Il mio nuovo lavoro alla sezione Infiltrati non aveva avuto un buon effetto su Aidan. Mi aveva scaricata perché mancavo agli appuntamenti, non gliene spiegavo il motivo e non volevo raccontare come passavo le giornate. Diceva che tenevo più al lavoro che a lui. Sciacquai i bicchieri e li misi sullo scolatoio.

«A meno che tu non voglia stare un po' da sola a pensarci» aggiunse sollecito. «Lo capirei. Si tratta di una decisione importante.»

Non riuscii a impedirmi di ridere. Frank può essere davvero stronzo, quando vuole. Se lo avessi buttato fuori adesso, sarebbe stato come dire che prendevo in considerazione la sua idea demenziale. «Okay» dissi. «Va bene. Bevi quello che ti pare. Ma se parli un'altra volta di questo caso ti tiro la bottiglia in testa. Siamo d'accordo?»

«Perfetto» rispose tutto contento. «Di solito devo pagare per divertirmi così.»

«Lo faccio gratis quando vuoi.» Gli lanciai i bicchieri, lui li asciugò sulla camicia e prese la bottiglia.

«Allora» cominciò «com'è il nostro Sammy, nell'alcova?»

Arrivammo in fondo alla prima bottiglia e attaccammo la seconda. Frank mi riferì i pettegolezzi del reparto, le notizie che non arrivano alle altre squadre. Capivo perfettamente che cosa stava facendo, però era piacevole risentire il gergo, i nomi, le battute pericolose e i ritmi sincopati. Giocammo a "ti-ricordi": la volta in cui io ero a una festa e avendo bisogno di farmi arrivare un'informazione urgente lui aveva spedito un agente a interpretare la parte dell'innamorato respinto che strillava sotto la finestra ("Lexiiiiiiie!") fino a quando non ero uscita; la volta in cui stavamo facendo un aggiornamento su una panchina di Merrion Square e vedendo avvicinarsi un compagno di università ero scappata gridando a pieni polmoni che Frank era un pervertito. Mi resi conto che averlo intorno era bello, che mi piacesse o no. Un tempo c'era spesso gente - amici, il mio vecchio partner, spaparanzati sul divano fino a notte fonda, musica di sottofondo e tutti un po' alticci - ma da parecchio non veniva nessuno, a parte Sam, e da ancora più tempo non ridevo tanto, e mi faceva piacere.

«Sai» disse in tono meditativo dopo un bel po', scrutando il fondo del bicchiere. «Non hai ancora detto no.»

Mi mancava l'energia per innervosirmi. «Ho detto forse qualcosa che suoni lontanamente come un sì?»

Fece schioccare le dita. «Senti, mi è venuta un'idea. Domani sera abbiamo un incontro. Perché non ci vieni? Potrebbe aiutarti a decidere se vuoi essere dei nostri.»

E... bingo: l'amo in mezzo alle mille diverse esche, il vero scopo dietro i biscotti al cioccolato e gli aggiornamenti e le preoccupazioni per la mia salute psichica. «Cazzo, Frank» dissi «ti rendi conto di quanto sei prevedibile?»

Sorrise, senza la minima vergogna. «Non puoi rimproverare a un uomo di provarci. Sul serio, dovresti venire alla riunione. Fino a lunedì mattina le indagini ufficiali non cominciano, quindi in sostanza siamo io e Sam che ci incontriamo a fare il punto su quel che abbiamo trovato fin qui. Non ti incuriosisce?»

Certo che mi incuriosiva. Tutte le informazioni di Frank non mi avevano detto l'unica cosa che volevo sapere: com'era, quella ragazza? Mi sdraiai sul futon e accesi un'altra sigaretta. «Credi veramente che ce la potremmo fare?» chiesi.

Lui rifletté. Si versò un altro bicchiere di vino e agitò la bottiglia nella mia direzione; io feci segno di no con la testa. «In circostanze normali» rispose infine tornando sul divano «direi di no. Qui però non sì tratta di circostanze normali, e abbiamo un paio di vantaggi in più rispetto al solito. Innanzitutto, la ragazza è esistita soltanto per tre anni, sotto tutti gli aspetti. Non è come se dovessimo affrontare la storia di una vita intera. Non dovrai frequentare genitori e fratelli, non incontrerai arniche d'infanzia e nessuno verrà a chiederti se ti ricordi il primo ballo scolastico. Secondo, durante questi tre anni la sua esistenza sembra essere stata molto circoscritta: ha frequentato un gruppo ristretto di persone, ha studiato in una piccola facoltà, lavorato sempre nello stesso posto. Niente rete familiare né di colleghi e amici.»

«Stava facendo la specializzazione» precisai. «Io non so un tubo di letteratura, Frank. Ho finito i tre anni di psicologia con il massimo dei voti e basta. Non conosco la letteratura inglese.»

Frank scrollò le spalle. «Nemmeno lei, a quanto ne sappiamo, eppure se la cavava. Se ce l'ha fatta lei ce la puoi fare anche tu. Anche in questo caso siamo stati fortunati: poteva scegliere farmacia, o ingegneria. E se con la tesi sarai impantanata, be'... chi se ne frega? Per ironia della sorte la coltellata ci viene comoda: ti si può rifilare lo stress post-traumatico, una bella amnesia, quello che ci pare, insomma.»

«Fidanzati? C'è un limite a quello che sono disposta a fare.»

«No, la tua virtù è al sicuro. Un'altra cosa a nostro vantaggio: hai presente le foto? La nostra ragazza aveva un telefonino e a quanto pare i cinque lo adoperavano per riprendersi. La qualità delle immagini non è eccelsa, però la memory card era super ed è piena di clip: lei e gli altri quattro fuori la sera, al picnic, che traslocano nella baracca, la rimettono a posto, tutto. Perciò disponi del materiale per imparare la sua voce, il linguaggio del corpo, i modi particolari di parlare, il tono dei rapporti fra loro, tutto quello che si potrebbe chiedere. E tu sei brava, Cassie, sei un'agente che lavora sotto copertura in maniera eccezionale. Messi insieme tutti gli elementi direi che abbiamo una percentuale di possibilità di farcela piuttosto alta.»

Finì l'ultimo goccio nel bicchiere e prese la giacca. «È stato bello rivederti, piccola. Hai il mio numero di cellulare. Fammi sapere cosa decidi per domani sera.»

E se ne andò. Fu soltanto quando sentii la mia porta di casa richiudersi alle sue spalle che mi resi conto di cosa avevo dimenticato di chiedere: "E al college, niente ragazzo?" come se stessi controllando il piano in cerca di punti deboli, come se stessi prendendo in considerazione l'idea di farlo sul serio.

 

Frank aveva sempre avuto un certo talento per andarsene al momento giusto. Dopo la sua partenza rimasi a lungo seduta sul davanzale, fissando, senza vederli, i tetti delle case vicine. Quando mi alzai per versarmi altro vino mi accorsi che aveva lasciato qualcosa sul tavolino.

Era la fotografia di Lexie e compagni in posa davanti a Whitethorn House. Con la bottiglia in una mano e il bicchiere nell'altra mi fermai a osservarla, pensando di voltarla e lasciarla lì fino a quando Frank non fosse venuto a riprendersela; per un momento considerai anche la possibilità di darle fuoco nel portacenere. Poi la presi in mano e tornai a sedermi sul davanzale.

Difficile dire l'età. Ne dichiarava ventisei, ma avrebbe potuto dimostrarne diciannove o trenta. La pelle era perfetta, niente rughe o cicatrici o tracce di varicella. Qualsiasi cosa le fosse accaduta prima di imbattersi in Lexie Madison, le era scivolata addosso ed era svanita come nebbia lasciandola incontaminata, senza un segno. Io sembravo più vecchia: l'operazione Vestale mi aveva regalato le prime rughe intorno agli occhi e ombre che non se ne andavano neanche con una buona notte di sonno. Mi sembrava già di sentire Frank: "Hai perso una vagonata di sangue e sei stata in coma per giorni, le occhiaie sono perfette, non cercare di nasconderle con il trucco".

In piedi, alle spalle di Lexie, i suoi compagni in posa mi guardavano sorridenti, con i lunghi cappotti mossi dal vento e la sciarpa di Rafe che era un bagliore rosso. L'angolazione della foto era sbilenca; avevano appoggiato la macchina fotografica sopra una base, usando l'autoscatto. Non c'era il fotografo a ordinare loro di sorridere. Quei sorrisi erano privati, per rivedersi in futuro, per me.

E dietro, Whitethorn House occupava quasi tutta l'immagine. Era un edificio dalle linee semplici, una grande casa georgiana grigia a tre piani, con le finestre che diventavano più piccole salendo, per dare l'illusione ottica di una maggiore altezza. La porta era blu scuro, con la vernice scrostata in più punti, e le due brevi rampe di scale erano di pietra. Tre file ordinate di camini, e spessi strati d'edera che ricoprivano il muro fino in cima. Di fianco alla porta due colonne scanalate e sopra una lunetta a coda di pavone: nessun'altra decorazione, solo la bellezza della struttura architettonica.

Questa passione del paese per la proprietà immobiliare scorre nel sangue della sua gente, è una corrente originaria, inarrestabile come il desiderio. Secoli passati a essere buttati fuori, per strada, da un capriccio del padrone di casa, ti insegnano che nella vita è fondamentale possedere il tetto sotto cui abiti. Ecco perché i prezzi sono quelli che sono: qualsiasi immobiliarista sa che ti può chiedere anche mezzo milione per un appartamento con una sola camera da letto; se si mettono in combutta per non lasciarci alternative, gli irlandesi si venderanno un rene, lavoreranno cento ore alla settimana e pagheranno. Non so come - forse è a causa del mio sangue in parte francese -, ma io sono sprovvista di questo gene specifico. L'idea di un'ipoteca sulle spalle mi rende nervosa. Mi piace vivere in un appartamento in affitto: con un mese di preavviso e un paio di scatoloni me ne posso andare quando mi pare.

Tuttavia, se mai desiderassi una casa, assomiglierebbe molto a questa. Non aveva niente in comune con le anonime pseudocase che acquistano i miei amici, scatolette in mezzo al nulla vendute con un corredo di ridicoli eufemismi ("gioiello architettonico in nuovissima zona residenziale") che costano venti volte quel che guadagni e sono costruite per durare fino a quando gli speculatori non se ne sono liberati. Questa era una casa vera, una casa seria, con la forza, la fierezza e la grazia necessarie per sopravvivere a chiunque le posasse sopra gli occhi. Piccoli fiocchi di neve ricoprivano le foglie di edera restando sospesi davanti alle finestre buie, e il silenzio era tale che avevo l'impressione di poter penetrare con una mano attraverso la superficie patinata della fotografia, arrivando a toccarne le fredde profondità.

Avrei potuto scoprire chi era quella ragazza e che cosa le era accaduto senza bisogno di andare all'incontro del giorno dopo. Sam mi avrebbe informata, se avessero trovato la sua identità o individuato un sospetto; forse mi avrebbe permesso addirittura di seguire l'interrogatorio da dietro il vetro. Però dentro di me sapevo che se anche lui non avesse trovato il nome della ragazza e il suo assassino, io sarei rimasta a interrogarmi per sempre su tutto il resto. La casa scintillava nella mia mente come uno di quei castelli delle favole che compaiono per un giorno soltanto, stregati, invitanti, con quelle quattro algide figure di guardiani e all'interno segreti troppo oscuri. La mia faccia era la parola d'ordine che avrebbe fatto aprire quella porta. Whitethorn House era pronta a sparire nel nulla nell'istante stesso in cui avessi detto di no.

Mi accorsi di tenere la foto a pochi centimetri dal naso; ero seduta sul davanzale da tanto di quel tempo che ormai era scesa la notte e i gufi sul tetto si preparavano a spiccare il volo. Finii il vino e guardai il mare diventare color del tuono, la luce intermittente del faro all'orizzonte. Quando mi sembrò di essere abbastanza ubriaca da riuscire a restare indifferente al suo trionfo, mandai un SMS: A CHE ORA È LA RIUNIONE?

La risposta di Frank arrivò dopo dieci secondi: 7 IN PUNTO, CI VEDIAMO LÌ. Era rimasto con il cellulare in mano ad aspettare che io accettassi.

 

Quella sera litigai con Sam per la prima volta. Era probabilmente ora, visto che ci frequentavamo da tre mesi senza nemmeno un battibecco, però la scelta del momento mi sembrò pessima.

Ci eravamo messi insieme pochi mesi dopo il mio trasferimento dalla Omicidi. Non so bene come sia andata, non ricordo granché di quel periodo. Mi pare di aver comprato un paio di maglioni molto deprimenti, il tipo di indumento che cerchi quando vorresti metterti a letto e andare in letargo per qualche anno, il che ogni tanto mi fa venire dei dubbi sulla saggezza di iniziare un rapporto in quelle condizioni. Io e Sam avevamo fatto amicizia durante l'operazione Vestale ed eravamo rimasti uniti dopo il crollo generale - così succede con i casi da incubo, o si diventa molto intimi o ci si allontana - e, prima che il caso venisse chiuso, avevo capito che era un uomo d'oro, anche se una relazione era l'ultimo dei miei pensieri.

Arrivò da me intorno alle nove. «Ciao, bella» disse con un bacio e un abbraccio appassionato. Aveva le guance gelate dal vento. «Che buon profumo.»

In casa aleggiava l'aroma della salsa di pomodoro con aglio ed erbe aromatiche. Stavo preparando un sugo elaborato e il pacchetto con i ravioli era pronto, in base al principio che le donne seguono fin dall'alba dei tempi: se gli devi dire qualcosa che non vuole sentire, assicurati che ci sia del buon cibo in tavola. «Sono diventata un animale domestico» dissi. «Ho pulito e riordinato. Ciao, caro, come è andata la giornata?»

«Ah, bene» rispose lui in tono vago. «Ci arriveremo, alla fine.» Togliendosi la giacca guardò il tavolino: due bottiglie di vino, cavatappi, bicchieri. «Frequenti uomini affascinanti di nascosto?»

«Frank» dissi. «Non particolarmente affascinante.»

Il sorriso sparì. «Oh. Cosa voleva?»

Avevo sperato di rimandare la discussione a più tardi. Per essere una detective, la mia abilità a ripulire la scena del crimine fa decisamente schifo. «Voleva farmi venire alla riunione di domani sera» risposi nel tono più noncurante possibile, mentre controllavo se il pane all'aglio era pronto. «Ci è arrivato per vie traverse, ma era il vero scopo della sua visita.»

Sam ripiegò la giacca e la poggiò sullo schienale del divano. «Cosa gli hai risposto?»

«Ci ho pensato molto» dissi. «Voglio venire.»

«Non ne aveva il diritto» ribatté lui a bassa voce. Una vampata di rossore gli era salita alle guance. «Venire qui di nascosto, fare pressione su di te approfittando del fatto che io non ci fossi...»

«Avrei preso la stessa decisione anche con te presente» dissi. «Sono adulta, Sam. Non ho bisogno di protezione.»

«Quell'uomo non mi piace» ribatté seccamente. «Non mi piace come ragiona e non mi piace come lavora.»

Chiusi lo sportello del forno. «Sta cercando di risolvere il caso. Magari non condividi i suoi metodi...»

Sam si scostò i capelli dagli occhi con un gesto brusco. «No» disse. «Non è così. Non c'entra con il caso. Quel Mackey... questo caso non lo riguarda più degli altri miei casi, eppure non l'ho mai visto venire a cercare di manovrare a destra e a sinistra. È qui per quella cazzata della sostituzione di persona. Trova divertente l'idea di buttarti in mezzo a un gruppo di gente sospettata di un omicidio solo perché può farlo, e poi aspettare di vedere che cosa succede. È fuori di testa.»

Presi i piatti dalla credenza. «E se anche fosse? In fondo si tratta di partecipare a una riunione. Perché tante storie?»

«Quel demente ti sta usando, ecco perché tante storie. Dopo l'anno scorso non sei più stata tu...»

Le sue parole mi colpirono con una scarica repentina e dolorosa, come se avessi toccato una recinzione elettrica. Mi voltai di scatto, dimenticando la cena; i piatti glieli avrei voluti tirare in testa. «No, Sam. Non farlo. Non tirarlo in ballo.»

«C'è già, in ballo. Il tuo amico Mackey ti ha dato un'occhiata, ha capito che qualcosa non va e ha immaginato che non avrebbe incontrato difficoltà a trascinarti in questo progetto demenziale...»

L'atteggiamento possessivo di Sam, in piedi a gambe divaricate e con i pugni affondati nelle tasche: il mio caso, la mia donna. Appoggiai con forza i piatti sul piano di lavoro. «Non me ne fotte un cazzo di quello che ha immaginato e non mi sta trascinando da nessuna parte. La mia decisione non c'entra niente con ciò che Frank vuole, non c'entra con lui e basta. Certo, ha provato a farmi pressione, ma gli ho detto di andare al diavolo.»

«Stai facendo esattamente quello che ti ha chiesto, altro che mandarlo al diavolo.»

Per un folle secondo mi chiesi se Sam non fosse geloso, e che cosa avrei dovuto fare, in questo caso. «E se non vengo alla riunione invece farò esattamente quello che mi chiedi tu. Significa forse che ti permetto di manovrarmi? Ho deciso io di venire, domani. Pensi che non sia in grado di prendere una decisione da sola? Cazzo, Sam, quello che è successo l'anno scorso non mi ha lobotomizzata!»

«Non ho detto questo. Solo che non sei più stata la stessa da quando...»

«Sono me stessa, Sam. Guardami bene: questa cazzo di persona sono io. Ho lavorato come infiltrata per armi, prima dell'operazione Vestale. Quindi per piacere lascia perdere.»

Ci fissammo e dopo un momento, a voce bassa, lui disse: «Sì, è vero, è così».

Si lasciò cadere sul divano e si passò le mani sulla faccia. Di colpo sembrava esausto, e provai una fitta di dolore pensando alla giornata che doveva aver passato. «Scusa» disse. «Per aver cominciato.»

«Non voglio litigare» risposi. Mi tremavano le ginocchia e non capivo come mai avessimo finito per scontrarci, visto che sostanzialmente eravamo dalla stessa parte. «Solo... lascia perdere, okay? Per favore, Sam. Ti prego.»

«Cassie» disse. Sulla sua bella faccia rotonda c'era un'angoscia che non avevo mai visto. «Non posso farlo. E se... Oddio. Se ti succedesse qualcosa? Per un mio caso, che non c'entrava con te. Non potrei mettere le mani sul responsabile e non potrei neanche continuare a vivere. Non posso.»

Sembrava annientato. Non sapevo se abbracciarlo o prenderlo a calci. «Che cosa ti fa pensare che questo caso non abbia niente a che vedere con me?» chiesi. «La ragazza è la mia sosia, Sam. Se ne andava in giro con la mia faccia e il mio nome. Come fai a essere sicuro che il tuo assassino abbia ammazzato la donna giusta? Rifletti. Una studentessa che passa il suo tempo a leggere la stramaledetta Charlotte Brontë o una poliziotta che ha fatto arrestare decine di persone: quale delle due è più probabile che abbia dei nemici?»

Seguì un lungo silenzio. Anche Sam aveva preso parte all'operazione Vestale. Conoscevamo entrambi almeno una persona che sarebbe stata felice di farmi fuori senza esitare, e che per di più era perfettamente in grado di farlo. Sentivo il mio cuore battere forte contro le costole.

«Pensi che...»

«Non mi interessano casi particolari» tagliai corto anche troppo bruscamente. «Il fatto è che per quanto ne sappiamo potrei già essere coinvolta. E non voglio dovermi guardare alle spalle per il resto dei miei giorni. Io non potrei vivere così.»

Trasalì. «Non sarebbe per il resto dei tuoi giorni» disse sottovoce. «Spero di poterti promettere almeno questo: ho intenzione di prenderlo, lo sai.»

Mi appoggiai al piano di lavoro della cucina e inspirai. «Lo so, Sam. Mi dispiace. Non intendevo...»

«Se, Dio non voglia, cercava te, abbiamo una ragione in più per tenerti fuori dalle indagini e lasciare che sia io a trovarlo.»

Il profumo del sugo stava assumendo una sfumatura acre: qualcosa cominciava a bruciare. Spensi il fornello, spostai il tegame e la pentola - nessuno dei due aveva voglia di mangiare, al momento - e sedetti a gambe incrociate sul divano, di fronte a Sam.

«Mi stai trattando come se io fossi la tua fidanzata» dissi. «Non lo sono, quando si tratta di lavoro. Nel lavoro sono una collega.»

Mi sorrise con tristezza. «Non potresti essere tutt'e due?»

«Mi piacerebbe» dissi. Rimpiansi di aver finito il vino perché era evidente che quell'uomo aveva bisogno di bere qualcosa. «Davvero. Però non in questo modo.»

Dopo un po' lui sospirò e appoggiò la testa allo schienale del divano. «Quindi vuoi farlo» disse. «Seguire il piano di Mackey, intendo.»

«No. Però vorrei sapere qualcosa sul conto di questa ragazza. Ecco perché dico che mi piacerebbe partecipare alla riunione. Non c'entra con Frank e con la sua idea demenziale. Vorrei solo sapere di lei.»

«Perché?» Sam raddrizzò la schiena e mi afferrò le mani, costringendomi a guardarlo. C'era una sfumatura tesa nella sua voce, un misto di frustrazione e preghiera. «Che cosa c'entra con te? Non avevate nessun rapporto, non era tua amica, niente. È una coincidenza, Cassie: una giovane donna che voleva rifarsi una vita ed è incappata nell'occasione perfetta.»

«Lo so» dissi. «Lo so, Sam. Non sembra nemmeno una bella persona; forse non mi sarebbe piaciuta, se ci fossimo incontrate. E questo, infatti, è il nocciolo della questione. Non voglio esserne ossessionata. Non voglio continuare a farmi domande sul suo conto. Sapendo qualcosa di più spero di poter dimenticare che sia mai esistita.»

«Ho un sosia che vive a Wexford» ribatté Sam. «Fa l'ingegnere, non so altro di lui. All'incirca una volta all'anno qualcuno mi si avvicina, mi dice che siamo identici e mi chiama Brendan. Ci facciamo una risata, a volte mi scattano una foto col telefonino per farla vedere a lui e tutto finisce lì.»

Scossi la testa. «In questo caso è diverso.»

«In che senso?»

«Prima di tutto il tuo sosia non è stato ammazzato.»

«Senza offesa a Brendan» disse Sam «ma non me ne importerebbe un accidente. A meno che il caso non toccasse a me, non sarebbe un problema mio.»

«Questa ragazza, invece, è un mio problema» dissi. Le mani di Sam erano grandi, calde e solide attorno alle mie, e i capelli gli ricadevano sugli occhi come gli succede sempre quando è preoccupato. Era un sabato sera di primavera; avremmo dovuto essere a passeggio lungo qualche spiaggia, circondati dall'oscurità, dalle onde e dai chiurli, oppure intenti a sperimentare un nuovo piatto con la musica a tutto volume o, ancora, seduti a un tavolo appartato di uno di quei rari pub fuori mano dove gli avventori cantano ballate ben oltre l'orario di chiusura. «Vorrei che non lo fosse, ma purtroppo lo è.»

«C'è qualcosa che non capisco.» Sam aveva lasciato ricadere le mie mani sulle ginocchia e le guardava accigliato, accarezzandomi con il pollice una nocca con ritmo regolare, automatico. «Quello che vedo io è un caso di omicidio di media difficoltà con una coincidenza che potrebbe capitare a chiunque. Certo, quando l'ho vista sono rimasto sconvolto, ma solo perché ho pensato che fossi tu. Una volta chiarito che non eri tu, ho pensato che sarebbe tornato tutto alla norma. Invece tu e Mackey vi comportate come se questa ragazza significasse qualcosa di speciale per voi; come se si trattasse di una faccenda personale. Cos'è che mi sfugge?»

«In un certo senso si tratta di una faccenda personale, è vero.» dissi. «Per Frank in parte è proprio come dici tu, la trova una fantastica avventura. Però c'è dell'altro. Lui è responsabile della creazione di Lexie Madison, lo è stato durante gli otto mesi in cui io lavoravo sotto copertura, e continua a esserlo.»

«Ma questa ragazza non è Lexie Madison. È una ladra di identità; se domani mattina vado giù negli uffici della sezione Frodi te ne trovo cento come lei. Lexie Madison non esiste. L'avete inventata voi.»

Le sue mani si erano strette di nuovo intorno alle mie. «Lo so» dissi. «Ed è proprio questo il problema.»

Un angolo della bocca gli si contrasse. «Come ho già detto, il tuo amico è matto.»

Non ero del tutto in disaccordo con lui. Ho sempre pensato che una delle ragioni del leggendario coraggio di Frank risiedesse nella sua incapacità di mantenersi in contatto con la realtà. Per lui ogni operazione è come un videogioco, solo più appassionante perché in palio c'è qualcosa di grosso e i risultati sono tangibili e duraturi. Si tratta di una frattura tra immaginazione e realtà di dimensioni infinitesimali, e lui è abbastanza astuto da non lasciarla affiorare; e intanto, mentre in ogni situazione copre tutte le basi con grande intelligenza, freddo e controllato, con una parte di sé resta convinto di essere il personaggio di un film interpretato da Sean Connery.

Me ne sono accorta perché è qualcosa che riconosco. Anche per me il confine tra realtà e fantasia non è ben definito. La mia amica Emma, che ama ragionare in termini di causa-effetto, dice che questo è dovuto al fatto che i miei genitori sono morti quando io ero troppo piccola per capire davvero ciò che mi era successo: un giorno c'erano e il giorno dopo non c'erano più, schiantandosi contro quel confine con tale forza e velocità da danneggiarlo in più punti. Quando ero Lexie Madison, per otto mesi lei era stata reale, una sorella perduta o abbandonata lungo il cammino; un'ombra racchiusa chissà dove dentro di me, come le tracce di un gemello viste una volta, per caso, ai raggi X. Prima ancora che tornasse a cercarmi, sapevo di essere in debito nei suoi confronti perché ero io la sopravvissuta.

Presumibilmente non era questo che Sam voleva sentirsi dire; aveva già abbastanza preoccupazioni senza che aggiungessi le mie stramberie. Cercai invece - per essere il più possibile sincera - di parlargli del lavoro di infiltrata. Gli spiegai come l'esperienza muta per sempre le tue percezioni, come i colori diventano talmente intensi da accecarti e l'aria assume una consistenza diversa, arricchendosi di dettagli; come cambia il tuo modo di camminare quando impari a tenerti in equilibrio come un surfista mentre trascorri ogni attimo nell'incertezza di un'onda troppo rapida e pericolosa. Gli spiegai che dopo non mi ero più fatta una canna con gli amici né calato niente nei locali perché nessuno sballo mi sembrava paragonabile. Gli dissi com'ero brava, un talento naturale, più brava di quanto sarei mai stata nella VD anche tra un milione di anni.

Quando finii vidi che lui mi guardava con una piccola ruga di preoccupazione tra le sopracciglia. «Che cosa mi stai dicendo?» chiese. «Che vorresti tornare a lavorare con loro?»

Aveva allontanato le sue mani dalle mie. Lo guardai, seduto sul mio divano con i capelli arruffati su un lato. «No» dissi «non vorrei tornare.» Rimasi a osservare la sua faccia rasserenarsi. «Non vorrei assolutamente.»

 

Questa è la parte che non gli raccontai: agli agenti infiltrati capitano brutte cose. Ogni tanto finiscono ammazzati, in genere perdono amici, mogli e mariti, fidanzate e fidanzati. Due o tre a volte si inselvatichiscono, passano dall'altra parte in modo talmente graduale da non rendersene conto fino a quando è troppo tardi, e finiscono con un prepensionamento discreto. Alcuni, e non sono mai quelli che ti aspetti, perdono il controllo, senza preavviso: un mattino si svegliano e all'improvviso si rendono conto di quello che stanno facendo e rimangono raggelati come un acrobata che guarda giù dal filo su cui sta camminando. McCall era uno di questi: si era infiltrato in un gruppo scissionista dell'IRA e non sapeva cosa fosse la paura, fino a quando una sera telefonò da una cabina davanti a un pub. Non riusciva a ritornare dentro, disse, e non riusciva a camminare perché le gambe gli tremavano troppo. Piangeva. "Venite a prendermi" diceva. "Voglio tornare a casa." Quando lo conobbi io lavorava all'Archivio. Altri prendono la direzione opposta, la più letale: quando la pressione diventa insopportabile, perdono la capacità di avere paura anche quando dovrebbero. Non tornano più a casa. Sono come i piloti della Prima guerra mondiale, i migliori, invincibili e spericolati, che al loro ritorno scoprono che non c'è posto per ciò che sono diventati. Alcuni diventano definitivamente degli infiltrati perché il lavoro li ha inghiottiti. Io non ho mai avuto paura di essere uccisa e non ho mai temuto che mi saltassero i nervi. Il mio è un genere di coraggio che dà il meglio nello scontro diretto; sono pericoli diversi, più raffinati e insidiosi, che mi piegano. Sono altre le cose che mi preoccupano. Un giorno Frank mi disse - non so se a torto o a ragione, e comunque a Sam non lo raccontai - che gli infiltrati migliori sono fatti di una stoffa che nell'ordito nasconde un filo già marcio.