9
«Bene, bene, bene» disse quella sera Frank. «Sai che giorno è oggi, vero?»
Non ne avevo idea. Con una parte di me ero ancora a Whitethorn House. Dopo cena Rafe aveva tirato fuori dallo sgabello del pianoforte una vecchia raccolta ingiallita di canzoni e aveva insistito con il periodo tra le due guerre, mentre Abby, intenta a rovistare tra i tessuti nella stanza vuota, cantava: «Oh, Johnny, how you can love», e Daniel e Justin lavavano i piatti, e il ritmo che saliva dai miei piedi, dolce e tentatore, correva giù fino al prato e fuori dal cancello sul retro.
Per un istante avevo pensato di restarmene a casa e lasciare Frank, Sam, e il mio controllore misterioso ai loro marchingegni per una sera. In fondo non succedeva niente di interessante, fuori. Era diventata una serata nuvolosa, una pioggerellina pungente schizzava con insistenza la cerata collettiva che avevo infilato prima di uscire e non mi piaceva tenere accesa la torcia mentre parlavo al telefono; non vedevo a dieci centimetri dal naso. Un'intera setta di allegri accoltellatori avrebbe potuto ballare la macarena intorno al cottage e io non me ne sarei nemmeno accorta.
«Se è il tuo compleanno, dovrai aspettare per il regalo.»
«Spiritosa. È domenica, piccola. E a meno che io non mi sbagli di grosso, sei ancora a Whitethorn House, al calduccio come un cucciolo. Il che vuol dire che abbiamo vinto la prima battaglia: sei arrivata in fondo alla prima settimana. Congratulazioni, detective. Ormai ti sei inserita.»
«Penso di sì» risposi. Avevo smesso di contare i giorni, a un certo punto, e mi sembrava un buon segno.
«Allora» disse. Lo sentivo mettersi comodo, abbassare la radio sulle parole indignate di un ascoltatore; era a casa, qualunque luogo considerasse casa, dopo che Olivia lo aveva buttato fuori. «Facciamo un riassunto della prima settimana.»
Mi sedetti sopra un muretto e indugiai un secondo per chiarirmi le idee, prima di rispondere. Dietro l'apparente disinvoltura Frank è una macchina da lavoro: pretende che il rapporto gli venga fatto puntualmente e lo vuole chiaro, esaustivo e succinto.
«Prima settimana» dissi. «Mi sono inserita nella casa di Alexandra Madison e nel luogo di studio con successo: nessuno ha mostrato di nutrire sospetti. Ho perquisito la casa per quanto mi è stato possibile senza trovare niente che ci indichi una direzione specifica.» Più o meno corrispondeva al vero; forse il diario una direzione la indicava, ma per il momento non avevo capito quale. «Mi sono resa quanto più disponibile possibile sia con i conoscenti, cercando di restare sola con ciascuno durante il giorno e la sera, sia con gli sconosciuti, rendendomi visibile durante le passeggiate. Non sono mai stata avvicinata da nessuno che non fosse già dentro il nostro radar, ma a questo punto ciò non esclude un aggressore sconosciuto; può darsi che stia prendendo tempo. Sono stata in contatto svariate volte in privato con tutti i conviventi e un certo numero di studenti e insegnanti, ma l'impressione è che siano sostanzialmente preoccupati per le mie condizioni, anche se Brenda Grealey ha insistito un po' più del lecito sui dettagli, ma penso che si tratti di gusto dell'orrido. Nessuna reazione all'aggressione o al ritorno di Lexie ha fatto scattare campanelli d'allarme. Pare che i conviventi abbiano tenuto nascosta agli inquirenti la vera portata delle loro sofferenze, ma conoscendoli non lo giudico un comportamento sospetto. Sono molto riservati con gli esterni.»
«Non dirmelo» ribatté Frank. «Cosa ti suggerisce l'istinto?»
Mi spostai in cerca di un punto del muretto da cui non spuntasse niente di duro. Era un pochino più complicato di come avrebbe dovuto essere, visto che non intendevo parlare né a lui né a Sam del diario o dell'impressione di essere seguita. «Penso che ci stia sfuggendo qualcosa» dissi alla fine. «Qualcosa di importante, forse il tuo uomo misterioso, o il movente, forse... Non so. Ho questa impressione fortissima che qualcosa non sia ancora venuto a galla. Mi sento sempre come se fossi sul punto di individuare cos'è e invece...»
«Riguarda i coinquilini? L'università? La gravidanza? La parte di May-Ruth?»
«Non lo so. Onestamente non lo so.»
Le molle del divano cigolarono quando Frank si spostò: aveva preso qualcosa da bere, lo sentii deglutire. «Posso dirti questo: il prozio non c'entra niente. Eri completamente fuori strada» disse. «L'ha ammazzato la cirrosi; dopo trenta o quarant'anni chiuso in casa a bere, ha passato gli ultimi sei mesi in ospedale a morire. Nessuno dei cinque è andato a trovarlo. Daniel non vedeva Simon da quando era piccolo, stando a quanto ho scoperto.»
Mi era capitato di rado di essere tanto contenta d'aver sbagliato, però la notizia mi lasciava con la stessa sensazione che avevo avuto per tutta la settimana: quella di inseguire un miraggio. «Perché lasciargli la casa, allora?»
«Per mancanza di opzioni. Nella famiglia muoiono giovani; gli unici due parenti in vita erano Daniel e suo cugino Edward Hanrahan, figlio della figlia del vecchio Simon. Eddie è uno yuppie che lavora per una società immobiliare. A quanto pare secondo Simon Danny Boy rappresentava il minore dei mali. Forse il tipo studioso gli piaceva di più dello yuppie, o forse voleva che la casa restasse a qualcuno con il suo stesso cognome.»
Bravo Simon. «A Eddie non dev'essere andata a genio.»
«No, infatti. Non era legato al vecchio più di quanto lo fosse Daniel, però ha impugnato lo stesso il testamento con la scusa che il bere aveva sbarellato il nonno. Ecco perché per l'omologazione c'è voluto tanto. Una mossa stupida, ma il nostro Eddie non è una volpe. Il medico di Simon ha confermato che il suo paziente era un uomo alcolizzato e insopportabile, ma perfettamente in grado di intendere e di volere. Fine della storia. Niente di poco chiaro.»
Mi lasciai scivolare lungo il muretto. Non mi sarei dovuta sentire frustrata, visto che non avevo mai pensato sul serio che la banda avesse mescolato il veleno alla pasta adesiva per la dentiera dello zio, tuttavia non riuscivo a liberarmi della sensazione che intorno a Whitethorn House girasse qualcosa di fondamentale, qualcosa che avrei dovuto scoprire. «Ah, bene» dissi. «Era soltanto un'ipotesi. Mi spiace averti fatto perdere tempo.»
Frank sospirò. «Figurati. Vale sempre la pena controllare.» Se mi avessero ripetuto quella frase un'altra volta avrei ammazzato qualcuno con le mie mani. «Se ti sembra che siano degli individui loschi, vuol dire che probabilmente lo sono. Non in quella direzione specifica, forse.»
«Non ho mai detto che sono loschi.»
«Pochi giorni fa pensavi che avessero potuto soffocare lo zio con un cuscino.»
Alzai il cappuccio per coprirmi la faccia - pioveva più forte, sottilissimi aghi freddi, e volevo tornare a casa. Decidere che cosa fosse più inutile tra quella conversazione e quella mia ronda notturna era difficile. «Non lo pensavo. Ti ho solo chiesto di controllare, perché non si sa mai. Non riesco a immaginarli come una manica di assassini.»
«Ehm» rispose lui. «Sei sicura di non escluderlo perché sono personcine tanto a modo?»
Dal suo tono di voce non capivo se mi stava provocando o mettendo alla prova, trattandosi di Frank forse un po' tutte e due le cose. «Dài, Frankie, mi conosci abbastanza bene, mi hai chiesto cosa mi suggeriva l'istinto e io ti ho risposto. Ho passato praticamente ogni momento della giornata con queste quattro persone e non ho trovato alcun indizio di un movente, nessuna sfumatura di senso di colpa - e, come dicevamo prima, se uno di loro l'avesse fatto gli altri lo saprebbero. Uno di loro almeno un attimo di cedimento dovrebbe averlo avuto. Credo che tu abbia ragione al cento per cento quando dici che nascondono qualcosa, ma non credo che sia questo.»
«D'accordo» disse Frank in tono vago. «Dunque: per la seconda settimana hai due compiti. Il primo è di individuare che cosa solletica il tuo sesto senso. Il secondo, cominciare a esercitare un po' di pressione sui tuoi coinquilini e vedere di scoprire cosa si tengono per sé. Fin qui gli è andata liscia - il che va bene, l'avevamo programmata così -, ma adesso è arrivato il momento di dare un giretto di vite. Mentre lavori ti raccomando di tenere a mente una cosa: ti ricordi le due chiacchiere fra ragazze con Abby, l'altra sera?»
«Sì» dissi. E provai una sensazione strana al pensiero che avesse ascoltato la conversazione, qualcosa di simile a un'offesa. Avrei voluto ribattere: "Era una conversazione privata".
«I pigiama party vanno sempre forte. Te l'avevo detto che era una ragazzina sveglia. Che cosa pensi: sa chi è il paparino?»
Non ero ancora riuscita a stabilirlo. «È molto probabile che sia in grado di indovinarlo con buona approssimazione, ma non ne è sicura. E non ha alcuna intenzione di dirmi che ipotesi ha fatto.»
«Tienila d'occhio» disse Frank prendendo un altro sorso della sua bibita. «Ha un po' troppo spirito di osservazione per i miei gusti. Pensi che lo racconterà ai ragazzi?»
«No.» Su questo non avevo bisogno di riflettere. «Ho l'impressione che Abby sia molto brava a farsi gli affari suoi e a lasciare che gli altri si risolvano i loro drammi da soli. Ha parlato della gravidanza per non farmi sentire troppo sola, nel caso avessi avuto voglia di parlarne, ma una volta chiarito il concetto è passata oltre, mai più un accenno, un riferimento. Non dirà niente. Senti... li interrogherai ancora?»
«Non lo so» disse Frank con una nota di diffidenza nella voce, non gli piace rendere conto delle sue intenzioni. «Perché?»
«Se li interroghi non nominare il bambino. Okay? Voglio dare io la notizia. Con te stanno in guardia, quindi avremmo una reazione falsata, mentre con me no.»
«Va bene» rispose dopo un momento. Voleva farlo sembrare un favore a me, però non mi sfuggì la vena di soddisfazione: apprezzava il mio modo di ragionare. E a me faceva piacere che qualcuno lo apprezzasse. «Attenta al tempismo giusto. Beccali quando sono ubriachi o qualcosa del genere.»
«Non è che si ubriachino, veramente. Diventano un po' brilli, magari. Non mi sfuggirà il momento giusto.»
«D'accordo. Ecco che cosa penso: Abby si è tenuta la notizia della gravidanza per sé, e non solo con noi, non ne ha parlato nemmeno con Lexie e adesso la nasconde ai ragazzi. Tendiamo a considerarli una grossa entità con un unico grande segreto, ma non è così semplice. Ci sono delle incrinature tra loro. Forse tutti condividono lo stesso segreto e forse ognuno ha i propri o entrambe le ipotesi. Cerca le incrinature. E tienimi informato.»
Stava per chiudere la telefonata. «Nessuna novità sulla nostra ragazza?» chiesi. May-Ruth. Non so perché ma non riuscivo a pronunciare ad alta voce il suo nome, persino nominarla adesso mi faceva un effetto strano, elettrizzante. Ma se aveva scoperto dell'altro lo volevo sapere.
Frank sbuffò. «Hai mai provato a fare fretta all'FBI? Hanno sempre una scorta personale di madri accoltellatrici e padri stupratori; il piccolo caso di qualcun altro non è una delle loro priorità. Non aspettarti niente. Se e quando avranno qualcosa da dirci ce lo diranno. Tu concentrati a trovare un paio di risposte alle mie domande.»
Frank aveva ragione, all'inizio li avevo considerati un'unità. I conviventi, spalla a spalla, belli e inseparabili come un gruppo in un quadro, tutti luminosi allo stesso modo, come i mobili antichi lucidati a cera. Soltanto dopo la prima settimana erano diventati reali e li avevo visti come individui separati e distinti con le loro specifiche bizzarrie e debolezze. Sapevo che dovevano esserci delle incrinature. Un'amicizia di quel genere non si materializza in fondo all'arcobaleno in una mattina di morbida e luminosa foschia hollywoodiana. Perché duri a lungo e diventi così stretta e spontanea, bisogna lavorarci sul serio. Chiedetelo a qualunque pattinatore su ghiaccio o ballerino o acrobata, chiunque si guadagni da vivere con la grazia dei suoi movimenti: non c'è niente che richieda più impegno della naturalezza.
Minuscole crepe, all'inizio: impalpabili come nebbia, impossibili da identificare. Eravamo in cucina, lunedì mattina, a colazione. Rafe aveva fatto il suo numero da "Bingo Bongo vuole caffè" e poi era sparito a cercare di svegliarsi del tutto. Justin stava tagliando l'uovo fritto in striscioline precise, Daniel mangiava le salsicce con una mano mentre con l'altra prendeva appunti sui margini di una fotocopia con un testo in norreno, e Abby sfogliava un quotidiano vecchio di una settimana trovato nella facoltà d'Arte e io chiacchieravo di niente senza rivolgermi a nessuno in particolare. Avevo alzato il mio livello energetico a poco a poco, una faccenda più complessa di come potrebbe sembrare. Più parlavo, infatti, e più diventava probabile che facessi un passo falso; d'altra parte l'unico modo per ottenere qualcosa di utile da quei quattro era farli sentire a loro agio, e ciò poteva succedere soltanto se tutto era nella norma, che nel caso di Lexie non voleva dire stare molto in silenzio. Stavo raccontando alla cucina di queste quattro orrende ragazze nella mia classe del giovedì, un argomento non pericoloso.
«Per quello che ne so in realtà sono una persona sola. Si chiamano tutte Orla o Fiona o Aoife e parlano come se fossero state operate di adenoidi e hanno tutte gli stessi capelli finti diritti e finto biondo, e nessuna di loro fa mai le letture che deve fare. Non so perché vengano a perdere tempo all'università.»
«Per incontrare dei ragazzi ricchi» disse Abby senza alzare gli occhi dal giornale.
«Una l'ha trovato, infatti. Un tizio con l'aria da giocatore di rugby. La settimana scorsa l'aspettava dopo le lezioni e ti giuro che quando sono uscite tutte e quattro dalla porta ha fatto una faccia terrorizzata e poi ha alzato la mano in direzione della ragazza sbagliata, prima che quella giusta gli saltasse addosso. Non riesce a distinguerle nemmeno lui.»
«Guarda qualcuno che si sente meglio» mi disse Daniel sorridendo.
«Chiacchierona» aggiunse Justin mettendo nel mio piatto un altro pezzettino di pane tostato. «Per curiosità, sei mai stata zitta per più di cinque minuti consecutivi?»
«Sì. A nove anni, quando mi è venuta la laringite e per cinque giorni non ho potuto dire neanche una parola. Tremendo. Continuavano a portarmi brodo di pollo e fumetti e cose noiose da fare e io cercavo di spiegare che mi sentivo benissimo e volevo alzarmi ma loro non facevano che ripetere che dovevo stare tranquilla e far riposare la gola. Da piccoli voi...»
«Accidenti» esclamò all'improvviso Abby interrompendo la lettura. «Le ciliegie. La data di scadenza era ieri. Qualcuno ha ancora fame? Potremmo metterle nei pancake o qualcosa del genere.»
«Non ho mai sentito parlare di pancake alla ciliegia» disse Justin. «Che idea disgustosa.»
«Non vedo perché. Se si possono fare con i mirtilli...»
«Ci sono le focaccine con le ciliegie» aggiunsi addentando il mio toast.
«Il principio è completamente un altro» disse Daniel. «Si tratta di ciliegie candite. Acidità e livello di umidità...»
«Possiamo provare. Costano un fantastiliardo, non ho alcuna intenzione di lasciarle marcire.»
«Io provo tutto» dissi con spirito collaborativo. «Voglio un pancake alla ciliegia.»
«Oddio, no» disse Justin con un piccolo fremito di disgusto. «Portiamocele a scuola e mangiamole a pranzo.»
«Rafe no» disse Abby ripiegando il giornale per andare ad aprire il frigorifero. «Vi ricordate quello strano odore che proveniva dalla sua sacca? Aveva infilato mezza banana nella tasca interna e se l'era dimenticata. D'ora in avanti non gli si dà niente senza accertarsi che lo mangi. Lex, mi aiuti ad avvolgerle?»
Era stato talmente lieve che non avevo notato ciò che era successo. Dividemmo le ciliegie in quattro pacchetti da mettere con i panini per il pranzo e poi finì che se le mangiò quasi tutte Rafe e io mi dimenticai della faccenda fino alla sera dopo.
Avevamo lavato le tende meno sbrindellate e le stavamo mettendo nelle stanze vuote più per isolare le finestre dal freddo che per una questione estetica - per riscaldare l'intera casa disponevamo di una stufetta elettrica e del camino, perciò l'inverno doveva essere artico. Justin e Daniel si stavano occupando della stanza al primo piano, e noi di quelle al secondo. Io e Abby passavamo i ganci a Rafe quando sentimmo un tonfo pesante, uno strillo di Justin e poi la voce di Daniel: «Tutto a posto, sto bene».
«Che succede?» chiese Rafe in bilico sul davanzale, appeso con una mano al bastone delle tende.
«Qualcuno è caduto da qualcosa» rispose Abby stringendo ancora dei ganci fra i denti «oppure sopra qualcosa. Credo che sopravvivrà.»
Poi arrivò un'esclamazione soffocata da sotto e Justin chiamò: «Lexie, Abby, Rafe, venite! Venite a vedere!».
Corremmo giù. Lui e Daniel erano in ginocchio sul pavimento circondati da un'esplosione di strani vecchi oggetti e per un secondo pensai che uno di loro si fosse fatto davvero male. Poi vidi che cosa stavano guardando. In mezzo a loro due c'era un sacchetto di cuoio tutto macchiato, e Daniel teneva tra le mani una pistola.
«Scendendo dalla scaletta» spiegò Justin «ha fatto rovesciare un mucchio di roba e questa gli è caduta proprio sui piedi. Non riuscivo nemmeno a capire che cosa fosse, nel casino, solo Dio sa che cos'altro ci può essere qui in mezzo.»
Era una Webley, un gioiello che brillava tra le incrostazioni di terriccio. «Mio Dio» esclamò Rafe inginocchiandosi accanto a Daniel per toccare la canna. «È una vecchia Webley Mark Six. Erano le armi d'ordinanza nella Prima guerra mondiale. Il tuo prozio matto o forse no, Daniel, quello a cui assomigli: potrebbe essere stata sua.»
Daniel fece un cenno affermativo. Ispezionò la pistola per un momento, poi la aprì: scarica. «William» disse. «Sì, potrebbe essere stata sua.» Chiuse il cilindro e la impugnò con cautela e delicatezza.
«È conciata male» disse Rafe «ma la si può ripulire. Basteranno due giorni a bagno in un buon solvente e un po' di lavoro di spazzola. Immagino che chiedere anche i proiettili sarebbe pretendere troppo.»
Daniel gli sorrise, un rapido e imprevisto sorriso. Capovolse la custodia e un pacchetto di cartone sbiadito con le munizioni cadde sul pavimento.
«Che meraviglia» disse Rafe scuotendo la scatoletta. Dal rumore l'avrei detta quasi piena, almeno nove o dieci proiettili. «La rimettiamo in sesto in un secondo. Compro io il solvente.»
«Non giocate con quella cosa se non sapete quello che fate» disse Abby. Era l'unica a non essersi avvicinata a guardare, e non sembrava apprezzare il ritrovamento. Io non sapevo cosa pensare. La Webley era una bellezza e mi sarebbe piaciuto avere l'occasione di provarla, però allo stesso tempo l'incarico dell'infiltrato entra in una fase completamente nuova se c'è una pistola in giro. A Sam non sarebbe piaciuto.
Rafe alzò gli occhi al cielo. «Che cosa ti fa pensare che io non lo sappia? Mio padre mi ha portato a caccia da quando avevo sette anni, prendo un fagiano in volo tre colpi su cinque. Un anno siamo andati in Scozia...»
«Ma è legale questa cosa?» voleva sapere Abby. «Non dovremmo avere un porto d'armi?»
«È un'eredità» disse Justin. «Non l'abbiamo acquistata, l'abbiamo ereditata.»
Ancora quel plurale. «Il porto d'armi non te lo danno quando la compri, sciocco» dissi io. «È per tenere un'arma che lo devi avere.» Avevo già deciso che avrei lasciato che fosse Frank a spiegare a Sam come mai, benché la pistola non fosse mai stata registrata, noi non l'avremmo confiscata.
Rafe alzò un sopracciglio. «Non volete sentire? Io vi sto raccontando la tenera storia di un legame tra padre e figlio e voi parlate di leggi. Quando mio padre aveva scoperto che sparavo bene ogni anno mi teneva a casa da scuola per una settimana, durante la stagione della caccia. Erano le uniche occasioni in cui non mi trattava come la pubblicità vivente dei metodi contraccettivi. Per il mio sedicesimo compleanno...»
«Sono piuttosto sicuro che ufficialmente il porto d'armi è necessario» disse Daniel «ma penso che potremmo lasciar perdere, almeno per ora. Ne ho avuto abbastanza della polizia per un po'. Quando pensi di poter procurare il solvente, Rafe?»
Lo guardava con i suoi occhi color ghiaccio e fermi, senza battere le palpebre. Per un secondo Rafe non abbassò i suoi, poi scrollando le spalle gli prese la pistola. «In settimana, direi. Non appena trovo un posto dove lo vendono.» La riaprì con molta più perizia di Daniel e si mise a esaminare la canna.
Fu allora che mi tornarono in mente le ciliegie, le mie chiacchiere e Abby che mi interrompeva. Fu la nota nella voce di Daniel a farmi ricordare: la stessa fermezza, calma e inflessibile, come una porta che si chiude. Impiegai un secondo a ricordare di che cosa stavo parlando prima che gli altri cambiassero abilmente argomento di conversazione. Qualcosa a proposito della laringite, del fatto di essere stata costretta a letto, nell'infanzia.
Verificai la mia teoria più tardi, quella stessa sera, quando, dopo che Daniel ebbe riposto il revolver e noi finito di appendere le tende, ci ritrovammo tutti in salotto. Abby aveva terminato la sottogonna della bambola e stava cominciando a cucire un vestito; aveva il grembo coperto dei pezzetti di stoffa che avevo selezionato domenica.
«Avevo delle bambole, da bambina» dissi. Se la mia teoria era corretta non rischiavo troppo perché gli altri dovevano aver saputo poco dell'infanzia di Lexie. «Avevo una collezione...»
«Tu?» chiese Justin con un sorrisino ironico. «L'unica cosa che collezioni è la cioccolata.»
«A proposito» si intromise Abby «non ne hai? Magari con le nocciole?»
Ecco subito il diversivo. «Io avevo una collezione» insistei. «Avevo le quattro sorelle di Piccole donne, si poteva prendere anche la madre ma era una tale insopportabile bacchettona che non ne volevo sapere. In effetti non volevo neanche le figlie, ma questa zia...»
«Perché non ti prendi le bambole di Piccole donne?» chiese in tono lamentoso Justin a Abby «e butti via quel mostruoso feticcio?»
«Se continui a rompere ti giuro che una di queste mattine te la trovi sul cuscino che ti fissa.»
Rafe mi osservava, con le palpebre semiabbassate sugli occhi dorati, mentre faceva un solitario con le carte. «Continuavo a dirglielo che non mi piacevano, le bambole» ripresi sovrastando i versetti orripilati di Justin «ma lei non lo voleva capire. Era...»
Daniel alzò gli occhi dal libro. «Niente passato» disse. Doveva averlo già detto, a giudicare dal tono definitivo.
Seguì un lungo silenzio non troppo piacevole. Il fuoco scoppiettava nel camino, Abby aveva ripreso a tentare di combinare insieme i pezzetti di stoffa. Rafe continuava a guardarmi, io tenevo la testa china sul libro di Rip Corelli, A lei piacciono sposati, ma sentivo il suo sguardo.
Per qualche ragione il passato - tutti i nostri passati - era tassativamente bandito. Si comportavano come gli strani conigli di Watership Down che non rispondono a nessuna domanda che cominci per "dove".
C'era dell'altro: Rafe ne doveva essere al corrente. Aveva forzato i limiti di proposito. Non sapevo bene quali tasti volesse toccare, esattamente, e perché - forse quelli di tutti, forse era soltanto un capriccio -, comunque si trattava di una crepa, di un'incrinatura in una superficie altrimenti perfetta.
L'amico dell'FBI di Frank si fece vivo mercoledì. Capii che era successo qualcosa, e qualcosa di grosso, non appena rispose al telefono.
«Dove sei?» chiese.
«Un viottolo qualsiasi, non saprei. Perché?»
Un gufo gridò poco lontano, dietro di me; mi voltai di scatto, in tempo per vederlo sparire fra i rami a pochi metri, ali aperte, lieve come cenere. «Che cos'è stato?» chiese brusco Frank.
«Un gufo. Respira, Frank.»
«Hai con te la pistola?»
Non l'avevo. Ero stata talmente assorta in Lexie e nei Fantastici Quattro da dimenticare che dovevo scovare quello che c'era fuori, non dentro la casa, e che con ogni probabilità voleva scovare me. Più ancora della nota di disapprovazione nella voce di Frank fu il fatto di averla dimenticata a provocarmi una fitta dolorosa di avvertimento nella pancia. Sta' concentrata.
Lui colse l'attimo di esitazione e partì all'attacco. «Rientra. Immediatamente.»
Sono fuori da appena dieci minuti. Si domanderanno...»
«Lascia che si domandino quello che vogliono. Non vai in giro disarmata.»
Mi voltai e imboccai il viottolo sotto lo sguardo del gufo che faceva oscillare un ramo, sagoma dalle orecchiette aguzze contro il cielo. Davanti a casa, dove il sentiero si allargava lasciando poco spazio per un'imboscata, indugiai. «Cos'è successo?»
«Stai rientrando?»
«Sì. Cos'è successo?»
Frank espirò. «Preparati, piccola. L'amico americano ha rintracciato i genitori di May-Ruth Thibodeaux. Vivono da qualche parte in North Carolina, non hanno nemmeno il telefono. Ha mandato un uomo a portargli la notizia e a vedere se trovava qualcosa. E indovina che cosa ha scoperto?»
Un istante prima che riuscissi a dirgli di piantarla con gli indovinelli e arrivare al dunque capii. «Non è lei.»
«Centro! May-Ruth Thibodeaux è morta di meningite a quattro anni. L'agente dell'FBI ha mostrato loro la foto, non l'avevano mai vista.»
Mi colpì come un'enorme boccata di ossigeno purissimo, avrei voluto ridere così tanto che quasi mi girava la testa, come un'adolescente innamorata. Mi aveva presa in giro per bene - pick-up e bar dei miei stivali - e non riuscivo a pensare che "Tanto di cappello, ragazza". Di colpo sembrava un gioco da ragazzi, una ragazzina ricca che si fingeva povera mentre la rendita del suo fondo fiduciario cresceva, perché questa ragazza era stata davvero incredibile. Si era presa in carico la vita, tutto della sua vita, con la leggerezza di un fiore di campo appuntato nei capelli, da buttare via in qualsiasi momento lungo la strada che aveva imboccato. Quello che io non avevo saputo fare neppure una volta, lei l'aveva fatto con la stessa naturalezza con cui ci si lava i denti. Nessuno al mondo, né amici, né parenti, nemmeno Sam o altri uomini mi avevano colpito come lei. Avrei voluto sentire quel fuoco bruciare nelle mie ossa, quel vento di tempesta levigare la mia pelle, sapere se una libertà simile odorava di ozono o temporale o polvere da sparo.
«Porca puttana» dissi. «Quante volte lo ha fatto?»
«Io vorrei sapere perché. Non fa che confermare la mia teoria. Qualcuno la stava cercando e non voleva abbandonare la caccia. Lei prende l'identità di May-Ruth non so dove - forse da una tomba, o da un necrologio su un vecchio giornale - e ricomincia da capo. Lui la rintraccia e lei riparte, questa volta per lasciare il paese. Non si fa una cosa simile se non si ha paura. Comunque alla fine l'ha trovata.»
Arrivata al cancello mi appoggiai a un montante e respirai profondamente. Al chiaro di luna il viale sembrava molto strano, ciliegi in fiore e ombre così densi che terra e alberi si confondevano formando una lunga galleria. «Sì» dissi. «Alla fine l'ha trovata.»
«E non voglio che adesso trovi te.» Frank sospirò. «Detesto ammetterlo, ma può darsi che il nostro Sam avesse ragione, Cass. Se vuoi mollare fingi di stare male questa notte, e domani mattina ti faccio portare via.»
Era una notte immobile, non c'era un alito di vento a soffiare tra i rami dei ciliegi. Dal viale arrivava un debole suono dolcissimo, una voce di donna cantava: «The steed my true love rides on...». Un pizzicorio sulle braccia. Ancora oggi mi chiedo se Frank stesse bluffando; se fosse davvero pronto a tirarmi fuori di lì o se sapesse già prima di aver finito di formulare la proposta che a quel punto la mia risposta poteva essere una sola.
«No» dissi. «Me la cavo. Rimango.»
«With silver he is shod before...»
«D'accordo» rispose, e non suonava per niente sorpreso. «Porta sempre la pistola con te e tieni gli occhi aperti. Se salta fuori qualche novità, qualsiasi cosa, te lo faccio sapere.»
«Grazie, Frank. Ci sentiamo domani. Stessa ora, stesso luogo.»
Era Abby che cantava. La luce morbida della lampada illuminava la sua finestra: si stava spazzolando i capelli con colpi lenti e distratti. «In yon green hill do dwell...» In sala da pranzo i ragazzi sparecchiavano, Daniel con le maniche arrotolate con precisione fin sopra il gomito, Rafe brandiva una forchetta per spiegare qualcosa, Justin scuoteva la testa. Mi appoggiai al grande tronco di un ciliegio ad ascoltare la voce di Abby che si spiegava da sotto le tende della finestra aperta e solcava l'immenso cielo nero.
Dio solo sapeva quante vite si fosse lasciata alle spalle, Lexie, fino al giorno in cui una di queste l'aveva trovata, qui, a casa. "Io posso entrare" pensai. "In qualsiasi momento posso correre su per quei gradini, aprire la porta ed entrare."
Piccole incrinature. Giovedì sera eravamo di nuovo in giardino, dopo cena - montagne di arrosto di maiale con patate al forno e verdure e poi torta di mele, non mi stupiva che Lexie pesasse più di me. Bevevamo del vino cercando di raccogliere le energie per fare qualche lavoretto. Mi si era staccato il cinturino dell'orologio e seduta nell'erba cercavo di riattaccarlo con la lima per le unghie di Lexie, la stessa che avevo usato per girare le pagine del suo diario. Il chiodino continuava a scapparmi di mano.
«Al diavolo gli orologi, i chiodini e la sodomia» sbottai.
«È una cosa molto molto illogica da dire» commentò oziosamente Justin. «Che cos'hai contro la sodomia?»
Mi si rizzarono le antenne. Mi ero già chiesta se Justin fosse gay ma dalle ricerche di Frank non era emerso niente - nessun fidanzato o fidanzata - e poteva anche darsi che fosse un sensibilone con la passione per la vita domestica. Se fosse stato gay perlomeno avrei potuto cancellare il suo nome dalla lista dei possibili padri.
«Justin, per l'amor del cielo, smettila di essere tanto compiaciuto» disse Rafe che era sdraiato sull'erba con gli occhi chiusi e le braccia ripiegate dietro la testa.
«Tu sei omofobico» ribatté l'altro. «Se avessi detto "Al diavolo il sesso" e Lexie avesse risposto "Cos'hai contro il sesso?" non l'avresti accusata di compiacimento.»
«L'avrei accusata io» disse Abby accanto a Rafe. «L'avrei accusata di vantarsi della sua vita amorosa mentre noi non ne abbiamo mezza.»
«Parla per te» ribatté Rafe.
«Oh, tu. Tu non conti. Non ci racconti mai niente. Potresti avere una relazione appassionata con tutta la squadra di hockey femminile del Trinity e non ne sapremmo niente.»
«In effetti non ho mai avuto una storia con nessuna giocatrice di hockey» le rispose Rafe compassato.
«Abbiamo una squadra femminile di hockey?» volle sapere Daniel.
«Non farti venire delle fantasie» ribatté Abby.
«Penso che si tratti proprio del mistero di Rafe» dissi io. «Non capite, siccome mantiene questo misterioso riserbo siamo costretti a immaginarlo impegnato in attività inenarrabili alle nostre spalle, che seduce intere squadre di hockey e scopa come un riccio. Invece secondo me non ci racconta mai niente perché non ha niente da raccontare: la sua vita amorosa è addirittura meno intensa della nostra.» Rafe mi guardò di sottecchi con un minuscolo enigmatico sorriso.
«Non è possibile» disse Abby.
«Nessuno mi chiede della mia tempestosa relazione con la squadra maschile?» chiese Justin.
«No» rispose Rafe. «Nessuno ti chiederà delle tue tempestose relazioni perché per cominciare sappiamo che ce le racconterai per filo e per segno e poi sono noiose come la fame.»
«Be'» disse Justin dopo un momento. «Questo mi rimette al mio posto. Anche se, detto da te...»
«Cosa?» chiese Rafe alzandosi per appoggiarsi sulle braccia e guardandolo con freddezza. «Detto da me cosa?»
Nessuno fiatava. Justin si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli accuratamente con l'orlo della camicia, Rafe accese una sigaretta.
Abby mi guardò, come per darmi un segnale. Mi tornarono in mente i video: "Si capiscono" aveva osservato Frank. Era compito di Lexie allentare la tensione con qualche commento sfrontato che permettesse agli altri di alzare gli occhi al cielo, ridere e andare oltre. «Ah, al diavolo gli orologi... e la fornicazione generica» dissi mentre il chiodino del cinturino schizzava un'altra volta nell'erba. «Siamo tutti d'accordo almeno su questo?»
«Che cos'hai contro la fornicazione generica?» chiese Abby. «Non voglio fornicare in modo specifico.»
Persino Justin rise e Rafe smise di fare il broncio e, appoggiata la sigaretta sulla ringhiera della veranda, mi aiutò a cercare il chiodino. Mi attraversò un'onda di felicità: ci avevo azzeccato.
«Quel detective si è presentato davanti alla mia classe delle matricole» disse Abby venerdì sera, in automobile. Justin era tornato a casa prima - si era lamentato tutto il giorno del mal di testa sebbene a me sembrasse più malumore, e, avrei detto, nei confronti di Rafe - quindi eravamo tutti con la macchina di Daniel, bloccati sulle due corsie insieme a migliaia di impiegati con l'aria suicida e stronzi decerebrati con i SUV. Appannavo con il mio fiato il finestrino e giocavo a Tic tac toe da sola.
«Quale?» chiese Daniel.
«O'Neill.»
«Ehmm. Che cosa voleva questa volta?»
Abby gli sfilò la sigaretta che teneva tra le dita e la usò per accendere la sua. «Voleva sapere perché non andiamo in paese» disse.
«Perché sono tutti dei ritardati» rispose Rafe rivolto al suo finestrino. Seduto accanto a me, anzi sprofondato sul sedile, continuava a infilare un ginocchio nello schienale di Abby. Il traffico lo mandava fuori, in genere, ma un umore così cattivo confermava la mia sensazione che fra lui e Justin qualcosa non andasse per il giusto verso.
«E tu che cosa gli hai detto?» chiese Daniel allungando il collo con l'intenzione di spostarsi sull'altra corsia; le automobili erano avanzate di un paio di centimetri.
Lei scrollò le spalle. «Gliel'ho detto. Abbiamo provato ad andare al pub, ci hanno trattati male e non siamo più tornati.»
«Interessante» rispose lui. «Penso che potremmo aver sottovalutato il detective O'Neill. Lex, gliene hai parlato tu del paese?»
«Non mi è mai passato per la testa.» Vinsi la mia mano a tic tac toe e alzai i pugni in segno di vittoria. Rafe mi guardò scontroso.
«Be'» disse Daniel «siamo a questo punto. Devo ammettere di averlo più o meno ignorato, O'Neill, ma se ci è arrivato senza l'aiuto di nessuno è più intelligente di quello che sembra. Mi domando se... ehm.»
«È più fastidioso di quello che sembra» disse Rafe. «Almeno Mackey l'ha piantata. Quand'è che ci lasceranno in pace?»
«Mi hanno pugnalata, cazzo» dissi io risentita. «Potevo morire. Vogliono sapere chi è stato. E anch'io, tra l'altro. Tu no?» Rafe fece spallucce e tornò a guardare in cagnesco il traffico.
«Gli hai detto dei graffiti?» chiese Daniel a Abby. «O delle effrazioni?»
Lei scosse la testa. «Non l'ha chiesto e io non gli ho fornito l'informazione spontaneamente. Pensi...? Posso telefonargli e dirglielo.»
Nessuno mi aveva parlato di graffiti o effrazioni. «Pensate che sia stato uno del paese a pugnalarmi?» chiesi abbandonando il mio gioco sul finestrino e protendendomi fra i sedili davanti. «Sul serio?»
«Non sono sicuro» rispose Daniel. Non capivo se stesse rispondendo a me o a Abby. «Devo valutare le opzioni. Per il momento penso che la cosa migliore da fare sia lasciar perdere. Se il detective O'Neill si è accorto della tensione con il paese scoprirà il resto da solo, prima o poi, non c'è bisogno di richiamare la sua attenzione.»
«Insomma, Rafe» esclamò Abby girandosi per colpire l'altro sul ginocchio. «Piantala.» Rafe sospirò rumorosamente e accavallò le gambe contro la portiera. Il traffico si era allentato, Daniel imboccò lo svincolo che ci portava fuori dalla strada a due carreggiate e accelerò.
Quando telefonai a Sam, quella sera, sapeva già tutto sulle scritte e le effrazioni. Aveva trascorso gli ultimi giorni a Rathowen a rovistare negli archivi in cerca di notizie su Whitethorn House.
«C'è sicuramente un problema. L'archivio è pieno di cose.» La sua voce aveva quel tono indaffarato e assorto che gli viene quando è su una buona pista - Rob diceva che sembrava di vederlo scodinzolare, quasi. Era la prima volta che lo sentivo allegro da quando Lexie Madison era esplosa come una bomba nelle nostre vite. «A Glenskehy non succede niente, eppure negli ultimi tre anni si sono verificati quattro furti a Whitethorn House: uno risale al 2002, poi nel 2003, altri due mentre il vecchio Simon era ricoverato.»
«Hanno portato via qualcosa? Cosa cercavano?» Avevo un po' accantonato l'idea di Sam secondo la quale Lexie era stata uccisa per un pezzo d'antiquariato, dopo aver visto la qualità del lascito di zio Simon, però se nella casa c'era stato qualcosa che valesse un'effrazione...
«No, niente del genere. Non è mai stato rubato niente, secondo Simon March - anche se Byrne sostiene che in casa c'era una tale baraonda che potrebbe non essersi accorto se mancava qualcosa - e non c'erano segni che lasciassero pensare a un furto. Hanno rotto un paio di vetri all'entrata posteriore, sono entrati e hanno devastato la casa: tagliato le tende e pisciato sul divano, la prima volta, mandato in frantumi un sacco di porcellane la seconda, cose di questo genere. Non si tratta di furti. Qui c'entra un risentimento.»
La casa... il pensiero che un piccolo bastardo zoticone si aggirasse per le stanze rompendo quello che gli saltava in mente e lasciando una pozza di piscio sul divano, mi provocava un furore così violento da stupirmi; volevo prendere a pugni qualcosa. «Affascinante» dissi. «Sicuri che non siano stati dei ragazzini? Non è che a Glenskehy ci sia molto da fare, il sabato sera.»
«Aspetta» disse Sam. «C'è dell'altro. Per circa quattro anni, prima che Lexie e amici si trasferissero, quella casa è stata oggetto di vandalismi circa una volta al mese. Mattoni lanciati dalle finestre, bottiglie contro i muri, un topo morto nella cassetta delle lettere e scritte sui muri. Alcune dicevano» - fruscio di pagine del block-notes che venivano girate - "Fuori gli inglesi", "A morte i proprietari di case", "Viva l'IRA".»
«Pensi che sia stata l'IRA a uccidere Lexie Madison?» Questo caso era stranissimo, è vero, però mi sembrava un'ipotesi altamente improbabile.
Sam rise di gusto. «Oddio, no. Non è nel loro stile. Comunque c'è qualcuno a Glenskehy e dintorni che considera i March inglesi e padroni e non li trova di suo gusto. E senti questa: due scritte distinte, una del 2001 e l'altra del 2003, dicevano "Fuori chi assassina i bambini".»
«Assassini di bambini?» chiesi sbalordita, e per una frazione di secondo la mia linea temporale si confuse e pensai alla breve gravidanza nascosta di Lexie. «Che diamine? Che cosa c'entrano i bambini?»
«Non lo so ma lo scoprirò. Qualcuno nutre un rancore preciso - non nei confronti degli amici di Lexie, visto che è cominciato molto prima, e non nei confronti del vecchio Simon. "Inglesi", "assassini", al plurale - non si riferiscono al vecchio. Ce l'hanno con tutta la famiglia: con Whitethorn House e chiunque ci abiti.»
Il viottolo era troppo appartato e ostile, troppi gli strati d'ombra che ricordavano vecchi fatti accaduti in un punto o l'altro tra le sue curve. Mi spostai all'ombra di un tronco e mi ci appoggiai contro con la schiena. «Perché non ne abbiamo mai saputo niente?»
«Perché non l'avevamo chiesto. Eravamo concentrati sul fatto che il bersaglio fosse Lexie, o comunque si chiami, e non ci era venuto in mente che lei potesse essere - come si dice? - un danno collaterale. La colpa non è né di Byrne né di Doherty. Certo, non si sono mai occupati di un omicidio, e non sanno come comportarsi. Non gli è passato per la testa che ci sarebbe servito saperlo.»
«Che cosa ne dicono?»
Sam espirò lentamente. «Non dicono granché. Non hanno sospetti, non hanno idea di cosa significhi assassini di bambini e mi hanno augurato buona fortuna se volevo scoprire qualcosa di più. Sostengono di non sapere sul conto di Glenskehy più del giorno in cui sono arrivati. Gli abitanti sono molto chiusi, non amano la polizia né i forestieri; quando succede qualcosa nessuno ha visto niente e nessuno ha sentito niente e tendono a risolversi i problemi fra di loro, in privato. Secondo Byrne e Doherty la gente dei paesi vicini pensa che quelli di Glenskehy siano fuori di testa.»
«E si sono limitati a ignorare i vandalismi?» Mi accorsi della durezza nella mia voce. «Hanno preso in mano i rapporti e hanno detto: "Ah, be', non ci possiamo fare niente", permettendo a qualcuno di continuare a prendere di mira la casa?»
«Hanno fatto del loro meglio» rispose subito Sam con fermezza, perché qualsiasi poliziotto, anche quelli come Doherty e Byrne per lui sono fratelli. «Dopo la prima volta hanno detto a Simon March di procurarsi un cane da guardia o un sistema di allarme. Lui ha risposto che odiava i cani e che gli allarmi erano per finocchi e che era perfettamente in grado di badare a se stesso, mille grazie. Byrne e Doherty hanno avuto l'impressione che possedesse un'arma... quella che avete trovato, forse. Non gli era sembrata una bella idea, visto che era quasi sempre ubriaco, ma non potevano farci molto; quando gliel'hanno chiesto esplicitamente lui ha negato. E non potevano certo obbligarlo a far installare un allarme, se non lo voleva.»
«E una volta ricoverato in ospedale? Sapevano che la casa era disabitata, tutti lo sapevano, nella zona, e sapevano anche che sarebbe stata un bersaglio facile...»
«Ogni sera durante la ronda passavano a controllare» rispose Sam. «Cos'altro potevano fare?»
Suonava stupito, e mi resi conto di aver alzato la voce. «Hai detto "prima che Lexie e amici si trasferissero"» dissi in tono più gentile. «E poi cos'è successo?»
«Gli atti di vandalismo non sono finiti, però rallentati sì. Byrne è andato a fare due chiacchiere con Daniel, gli ha spiegato la situazione e lui non è sembrato molto preoccupato. Da allora solo due incidenti: un sasso lanciato alla finestra in ottobre e una scritta in dicembre: "Stranieri all'inferno". Questo è l'altro motivo per cui Byrne e Doherty non ci hanno detto niente. Per quanto li riguardava era una storia chiusa.»
«Quindi dopotutto potrebbe essersi trattato di una vendetta contro il vecchio Simon.»
«È possibile, ma non credo. Punterei su un cosiddetto conflitto permanente.» Sam sembrava quasi divertito; il fatto di avere qualche elemento solido cambiava tutto per lui. «Sedici rapporti riportano l'ora dell'incidente, ed è sempre tra le undici e mezzo e l'una di notte. Questa non è una coincidenza. È proprio l'orario di chi attacca Whitethorn House.»
«Quando chiudono i pub» dissi.
Rise. «Esatto. Immagino un paio di ragazzotti che vanno a bere e ogni tanto gli prende male, e con l'alcol riaffiora il coraggio degli antenati e quando vengono buttati fuori dal pub partono per Whitethorn House con un paio di mattoni o della vernice spray o qualsiasi cosa trovino sottomano. Gli orari del vecchio Simon erano perfetti per loro: entro le undici e mezzo era quasi sempre incosciente - sono le due occasioni in cui manca l'ora nel rapporto, perché non ha sporto denuncia fino a quando non si è ripreso, l'indomani mattina - o quantomeno troppo ubriaco per rincorrerli. Le prime due volte che sono entrati era in casa che dormiva e non si è svegliato. Per fortuna aveva una buona serratura alla porta della sua camera da letto, o il cielo sa che cosa sarebbe potuto succedere.»
«Poi siamo arrivati noi» dissi. Me ne accorsi con un secondo di ritardo: loro si erano trasferiti, io no, ma Sam non sembrò farci caso. «E adesso tra le undici e mezzo e l'una di notte ci sono cinque persone giovani e sveglie in casa. Fare casino non risulta più così divertente con tre ragazzoni che se ti beccano te le danno di santa ragione.»
«E due ragazzone» aggiunse Sam, e ancora una volta percepii la sua contentezza. «Scommetto che tu e Abby qualche pugno glielo tirereste. È quello che stava per succedere quando è arrivato il sasso dalla finestra. Erano tutti in salotto, poco prima di mezzanotte quando il sasso è entrato in cucina e non appena si sono resi conto dell'accaduto sono scattati tutti e cinque all'inseguimento. Gli ci è voluto un minuto a capire che cosa stava succedendo perché non erano in cucina, e così l'hanno perso. "Buon per lui" ha detto Byrne. Era successo quarantacinque minuti prima che chiamassero la polizia - prima hanno setacciato tutti i sentieri per cercarlo - e anche dopo tutto quel tempo erano furibondi. Il tuo amico Rafe ha detto a Byrne che se avesse preso quel tipo sua madre non lo avrebbe riconosciuto. Lexie ha detto che intendeva, e sto citando "prenderlo a calci nelle palle così forte che per farsi una sega si sarebbe dovuto ficcare una mano in gola".»
«E brava» dissi.
Sam rise. «Sì, sapevo che avresti apprezzato. Gli altri hanno avuto abbastanza buon senso da non rilasciare dichiarazioni simili a un poliziotto, però Byrne dice che pensavano tutti la stessa cosa. Li ha ammoniti a non farsi giustizia da soli, ma non sa quanta parte del suo discorso sia arrivata a segno.»
«Non me la sento di biasimarli» dissi. «In fondo la polizia non è stata molto utile nel loro caso. E la scritta?»
«Non c'era in casa nessuno. Era una domenica sera ed erano andati a cena e al cinema in città. Al loro ritorno, poco dopo mezzanotte, l'hanno trovata sulla facciata. Era la prima volta che restavano fuori fino a tardi da quando avevano traslocato. Può darsi che sia stata una coincidenza ma non credo. La faccenda dell'inseguimento aveva instillato un po' di rispetto nel nostro vandalo, o vandali, ma o teneva d'occhio la casa o ha visto la macchina uscire dal paese e non tornare. Ha colto l'occasione.»
«Quindi tu pensi che non sia una faccenda paese-contro-Grande-Casa, dopotutto?» chiesi. «Bensì un tizio solitario mosso da risentimento personale?»
La sua prima risposta fu un suono poco convinto, poi disse: «Non esattamente. Hai sentito cos'è successo quando il gruppo ha cercato di entrare da Regan's a bere qualcosa?»
«Abby ha detto che gliel'hai chiesto. Ha accennato al fatto che non erano stati accolti bene ma senza entrare nei dettagli.»
«È successo un paio di giorni dopo il trasloco. Una sera entrano nel pub, si siedono a un tavolo. Daniel si avvicina al banco e il barista non lo vede. Per dieci minuti, a un metro di distanza, e con quattro gatti nel locale e Daniel che ripete "Due pinte di Guinness per favore e...", il barista va avanti a lucidare un bicchiere e a guardare la tivù. Alla fine Daniel rinuncia, torna dagli altri, confabulano e decidono che forse il vecchio Simon è stato buttato fuori una volta di troppo e che i March non sono simpatici. Quindi si alza Abby - pensano che sia una carta migliore dell'inglese e del ragazzo dal Nord. Nel frattempo Lexie attacca bottone con i vecchi seduti al tavolo vicino nel tentativo di capire che cosa cavolo sta succedendo. Nessuno le risponde, nessuno la guarda; le voltano la schiena e continuano a conversare fra loro.»
«Cristo» esclamai. Non è facile come sembra ignorare cinque persone sedute proprio vicino a te che per di più cercano di attirare la tua attenzione. Un simile controllo sull'istinto richiede molta concentrazione; richiede una buona ragione, solida. Cercavo di tenere d'occhio il sentiero in entrambe le direzioni contemporaneamente.
«Justin si inquieta e vuole andare via, Rafe si arrabbia e vuole restare, Lexie si sforza sempre più di convincere i vecchi a parlare - offre cioccolatini, racconta barzellette - e un gruppo di tizi più giovani in un angolo comincia a guardarli male. Nemmeno Abby era dell'idea di cedere, però lei e Daniel decidono che la situazione poteva sfuggire di mano da un momento all'altro. Hanno trascinato fuori gli altri e non sono più tornati.»
Il vento passò con un fruscio leggero tra le foglie e fu come se il sentiero si alzasse per venirmi incontro. «Insomma i rancori sono diffusi in tutto il paese» dissi «ma agisce una persona sola, al massimo due.»
«È quello che penso. E non sarà uno scherzo scoprire di chi si tratta. A Glenskehy ci sono circa quattrocento abitanti, contando le fattorie dei dintorni, e nessuno vorrà collaborare a restringere il cerchio.»
«Qui forse ti posso aiutare io. Posso fare il profilo, o provarci, almeno: nessuno raccoglie dati psicologici sui vandali come si fa con i serial killer, quindi sono congetture, le mie, ma siccome esiste uno schema forse se ne ricava qualcosa.»
«Accetto le congetture» rispose Sam tutto contento. Sentii che voltava delle pagine e che spostava il telefono per prepararsi a scrivere. «Anzi, accetto qualsiasi cosa. Avanti.»
«Okay» dissi. «Stai ovviamente cercando qualcuno del posto, nato e cresciuto a Glenskehy. Quasi sicuramente maschio. Penso a un singolo più che a un gruppo: gli atti di vandalismo spontaneo sono quasi sempre perpetrati da gruppi, però le campagne di odio pianificate e protratte nel tempo come nel nostro caso in genere sono personali.»
«Dimmi qualcosa di lui.» La voce di Sam era poco chiara, doveva tenere il telefono sotto la mascella per scrivere.
«Se è cominciato quattro anni fa deve avere tra i venticinque e i trent'anni - di solito gli atti vandalici vengono commessi da persone giovani, e questo è troppo metodico per essere un adolescente. Non una grande carriera scolastica, forse un diploma, nient'altro. Vive con i genitori o la moglie o la fidanzata: gli attacchi non si sono mai svolti nel cuore della notte, quindi a casa c'è qualcuno che lo aspetta entro una certa ora. Lavora, un lavoro che lo tiene occupato per tutto il giorno, perché in caso contrario ci sarebbero stati episodi anche di mattina, quando sono tutti fuori casa e non c'è in giro nessuno. Anche il lavoro dev'essere in zona, non va a Dublino né da altre parti; un'ossessione del genere ci dice che il paese è tutto il suo mondo. È un lavoro che non lo soddisfa, molto al di sotto delle sue capacità intellettuali o della sua preparazione, o quantomeno è quello che pensa lui. È probabile che abbia già avuto qualche grana: con vicini, ex fidanzate, magari datori di lavoro; non è uno che va d'accordo con l'autorità. Forse varrebbe la pena verificare con Byrne e Doherty se ci sono faide locali o denunce per molestie.»
«Se il mio uomo ha molestato qualcuno di Glenskehy» disse tetro Sam «escludo che l'abbiano denunciato alla polizia. Avranno messo insieme un gruppetto e una sera gliele avranno suonate. E neanche questo sarà stato denunciato.»
«No, hai ragione» dissi. Un lampo di movimento nel campo dall'altra parte del viottolo, una striscia scura che piegava l'erba. Troppo piccolo per essere una persona, comunque si immerse nell'ombra di un albero. «Un'altra ipotesi: la campagna ai danni di Whitethorn House potrebbe essere stata messa in moto da uno scontro con Simon March - sembra un vecchio irascibile, potrebbe aver fatto incazzare qualcuno - comunque nella testa del tuo vandalo risale a qualcosa di più complesso. Secondo lui riguarda un bambino, o dei bambini, morti, e hai detto che Byrne e Doherty non ne sanno niente? Da quanto tempo sono qui?»
«Doherty da appena due anni, Byrne dal 1997. Dice che la scorsa primavera c'è stata una morte in culla e che qualche anno prima una bambina è caduta dentro un pozzetto di malta liquida in una delle fattorie - riposino in pace - tutto qui. Niente di sospetto sulle due morti e nessun legame con Whitethorn House. Dal computer non è saltato fuori niente nella zona.»
«Allora stiamo cercando un fatto che risale più indietro nel tempo» dissi «come pensavi tu. Dio sa quanto lontano. Ti ricordi cosa mi hai raccontato dei Purcell che abitano dalle tue parti?»
Una pausa. «Allora non lo troveremo mai. Non certo negli archivi.»
La maggior parte degli archivi pubblici irlandesi bruciarono nell'incendio del 1921, durante la Guerra civile. «Non ci servono gli archivi. Qui sono tutti al corrente di tutto, te lo garantisco. Indipendentemente da quando è successo, lo riguarda in modo diretto, non può esserne così ossessionato perché ha letto la notizia sul giornale. Per lui non è una storia che appartiene al passato; è reale, fresca, un rancore fondato su un crimine da vendicare.»
«Stai dicendo che è matto?»
«No» risposi. «Non matto come si intende di solito. È troppo prudente, aspetta il momento giusto, si ritira dopo essere stato inseguito... Se fosse schizofrenico, diciamo, o bipolare, non avrebbe tanto autocontrollo. Non soffre di una malattia mentale, però è ossessionato al punto che sì, d'accordo, lo potresti definire un pochino squilibrato.»
«Può diventare violento? Contro le persone, intendo, non contro la proprietà privata.» La voce di Sam mi arrivava più chiara, doveva essersi raddrizzato.
«Non lo so» risposi cauta. «Non parrebbe nel suo stile -avrebbe potuto abbattere la porta della camera da letto del vecchio Simon e spaccargli la testa con un attizzatoio in qualsiasi momento e non lo ha fatto. Però visto che sembra agire soltanto quando ha bevuto mi fa pensare che abbia un brutto rapporto con l'alcol, che sia uno di quelli che dopo quattro o cinque pinte tirano fuori una nuova personalità e non bella. Con l'alcol tutto diventa meno prevedibile, e come ho detto per lui si tratta di una vera ossessione. Se avesse avuto l'impressione che il nemico volesse inasprire il conflitto - correndogli dietro quando ha tirato il sasso alla finestra, per esempio - avrebbe potuto alzare il tiro.»
«Sai a cosa corrisponde al cento per cento, vero?» mi chiese Sam dopo una pausa. «Stessa età, del posto, intelligente, controllato, esperienza di crimini ma non violenti...»
Corrispondeva al profilo dell'assassino che gli avevo fatto a casa mia. «Sì» risposi. «Lo so.»
«Mi stai dicendo che potrebbe trattarsi dello stesso uomo. L'omicida.»
Ancora quella striscia d'ombra più scura nell'erba, silenziosa sotto la luna. Una volpe, forse, a caccia di un topo di campagna. «Potrebbe essere» dissi. «Non possiamo escluderlo.»
«Se si tratta di una faida familiare Lexie non era il bersaglio specifico, la sua vita non c'entra niente con il paese e quindi non c'è bisogno che tu rimanga lì. Puoi tornare a casa.»
La speranza che sentivo nella sua voce mi fece trasalire. «Sì» dissi «forse. Ma non penso che siamo già a questo punto. Non abbiamo un legame concreto tra gli atti vandalici e l'omicidio; magari non sono collegati, e una volta che usciamo dal gioco non ci possiamo più rientrare.»
Una frazione di pausa. Poi: «D'accordo. Lavorerò per cercare quel legame, allora. E, Cassie...».
Il tono era più sobrio, teso. «Starò attenta» gli dissi. «Sono sempre attenta.»
«Tra le undici e mezzo e l'una di notte è la fascia in cui è stata uccisa.»
«Lo so. Non ho notato niente di losco nei paraggi.»
«Hai la pistola?»
«Sempre, fuori di casa. Frank mi ha già sgridata.»
«Frank» ripeté lui e sentii tornare nella sua voce quella sfumatura di riserbo e distacco. «Bene.»
Aspettai a lungo al riparo dell'albero, finita la telefonata. Sentii il fruscio dell'erba e il flebile grido della vittima del misterioso predatore. Quando tutto tornò tranquillo e nel buio si muovevano soltanto le foglie più piccole, imboccai il sentiero diretta a casa.
Al cancello posteriore mi fermai, lo feci oscillare ascoltando il lento cigolio dei cardini e guardando la casa, in fondo al giardino. Sembrava diversa, quella sera. La pietra grigia risultava piatta e inespugnabile come il muro di un castello, e il bagliore dorato che usciva dalle finestre non aveva più un'aria confortevole, bensì di sfida, di avvertimento, come un piccolo fuoco di bivacco nel bel mezzo di una foresta. Il chiaro di luna sbiancava il prato trasformandolo in un grande mare increspato, e la casa, alta e immobile, era esposta a ogni lato; sotto assedio.