8

 

Che esperienza incredibile, quella prima settimana. Ripensandoci, credo che anche oggi mi ci ritufferei da capo, come nel mare più invitante. Nel bel mezzo di una complicata indagine per omicidio, con Sam che passava scrupolosamente al setaccio la gentaglia di vario tipo incontrata durante il mio periodo alla Omicidi e Frank che provava a spiegare la nostra situazione all'FBI senza sembrare un pazzo totale, io non dovevo fare altro che vivere la vita di Lexie. Mi dava una sensazione di allegria, pigrizia e coraggio, come quando si marina la scuola nel giorno più bello di primavera, sapendo che alla lezione di scienze la tua classe dovrà sezionare le rane.

Martedì tornai all'università, e nonostante fossi consapevole che mi aspettavano al varco infinite occasioni di commettere errori, ne avevo un gran desiderio. Trinity mi era piaciuta fin dalla prima volta, con le sue secolari pietre grigie, i mattoni rossi, gli acciottolati; ne percepisci le stratificazioni dei passi di tutti gli studenti smarriti che hanno sciamato attraverso Front Square prima di te e insieme a te, la tua impronta che si aggiunge alle altre e viene archiviata, messa al sicuro. Se qualcuno non avesse deciso per me che dovevo lasciare l'università, forse sarei diventata un'eterna studentessa come questi quattro. Invece - e forse sempre grazie alla stessa persona - ero diventata una poliziotta. Mi piaceva l'idea che il cerchio si chiudesse, restituendomi al posto che sentivo mio di diritto e mi era stato negato. Una strana vittoria tardiva, forse, ottenuta a dispetto di ogni sfavorevole aspettativa.

«Devo avvisarti che i pettegoli hanno fatto gli straordinari» disse Abby appena salita in macchina. «Le ipotesi più disparate: un grossa consegna di coca andata a finire male, o un immigrato clandestino che avresti sposato in cambio di una bella cifra per poi ricattarlo, nonché un ex fidanzato violento appena uscito di galera dove aveva scontato una pena per lesioni aggravate ai tuoi danni. Quindi preparati.»

«Inoltre» aggiunse Daniel superando una Explorer che occupava due corsie «potremmo essere stati noi, singolarmente o in varie combinazioni, per i più svariati motivi. Nessuno l'ha detto a chiare lettere, ovviamente, tuttavia la supposizione viene spontanea.» Entrò nel parcheggio dell'università mostrando il tesserino identificativo alla guardia. «Che cosa pensi di dire se qualcuno ti fa delle domande?»

«Non ho ancora deciso» risposi. «Pensavo di spiegare che sono l'erede di un regno lontano e che una fazione rivale mi sta dando la caccia, ma non riesco a decidere quale. Cosa dite, sembro una Romanov?»

«Assolutamente sì» rispose Rafe. «Erano tutti dei mostri privi di mento. Sì, fai così.»

«Tu sii gentile, altrimenti racconto a tutti che mi hai aggredita con una mannaia in un attacco di rabbia provocato dall'abuso di stupefacenti.»

«Non lo trovo divertente» ribatté Justin. Non era venuto con la sua macchina - mi avevano dato la sensazione di voler restare uniti, per il momento -, quindi sedeva dietro fra me e Rafe, assorto a togliere alcuni schizzi di terra dal finestrino per ripulirsi poi subito le dita nel fazzoletto.

«Be', neanche la settimana scorsa è stata divertente direi, tutt'altro. Comunque adesso sei tornata...» disse Abby voltandosi verso di me con un sorriso. «Brenda Tutta-Tette mi ha domandato - avete presente quel tremendo sussurro confidenziale che ha? - se era stato "uno di quei giochetti sfuggiti di mano". Mi sono limitata a raggelarla con un'occhiata, però adesso sono pentita di non averle detto niente di emozionante.»

«Ciò che mi sconcerta» disse Daniel aprendo la portiera «è che quella donna sia così convinta che siamo pazzescamente interessanti. Se sapesse la verità!»

Scesa dall'auto, vidi per la prima volta cos'aveva inteso dire Frank parlando dell'impressione che facevano sulla gente. Mentre percorrevamo il lungo viale tra i campi sportivi si verificò un cambiamento, una trasformazione sottile eppure nettissima, come quando l'acqua si trasforma in ghiaccio: si avvicinarono, camminando spalla a spalla, in sincronia, la schiena diritta, la testa alta, le espressioni indecifrabili. La facciata era perfetta, quando arrivammo ai cancelli della facoltà, una barricata impenetrabile, quasi tangibile, gelida e scintillante come diamante. Per il resto della settimana ogni volta che qualcuno cercava di darmi una bella occhiata sporgendo la testa dal fondo del corridoio per curiosare verso i nostri box di lettura, o allungando il collo da dietro il giornale mentre eravamo in coda per il tè, la barricata si voltava compatta come una formazione a testuggine romana, affrontando l'intruso con quattro paia di occhi impassibili, fino a farlo, o farla, arretrare. Raccogliere pettegolezzi si rivelava difficile; persino Brenda Tutta-Tette, chinandosi sulla mia scrivania, prima ammutolì e poi mi chiese di prestarle una penna.

La tesi di Lexie si rivelò molto più intrigante di come l'avevo immaginata. Frank mi aveva mostrato soprattutto le parti che parlavano delle Brontë, di Currer Bell quando, con l'incendio provocato dalla "folle nella soffitta", si liberava della schiva Charlotte, la verità sotto falso nome; non proprio una lettura rassicurante, date le circostanze, ma più o meno prevedibile. Prima di morire, invece, stava lavorando a qualcosa di molto più raffinato: Rip Gorelli, famoso per Vestita per uccidere, che in realtà era Bernice Matlock, una bibliotecaria dell'Ohio che aveva condotto una vita irreprensibile scrivendo sconci capolavori pulp nel tempo libero. Cominciava a piacermi il modo in cui funzionava la sua mente.

Mi preoccupava l'idea che il suo supervisore volesse da me qualcosa di valido da un punto di vista accademico - Lexie non era una sciocca, e il suo lavoro era arguto e originale e presentato bene, mentre io ero fuori esercizio da anni. In effetti il supervisore mi preoccupava fin dall'inizio. I suoi studenti non avrebbero notato alcuna differenza - a diciotto anni chiunque abbia superato i venticinque appartiene alla categoria generica degli adulti che non ti interessano -, invece qualcuno che aveva trascorso con lei molte ore in privato era tutta un'altra storia. Un solo incontro bastò a rassicurarmi. Il supervisore era un uomo ossuto e cortese, un po' sconnesso e talmente sconvolto dallo "sfortunato incidente" da non riuscire neanche a guardarmi negli occhi, e mi raccomandò di prendermi tutto il tempo che ritenevo necessario e di non preoccuparmi minimamente delle scadenze per la consegna. Avrei passato volentieri qualche settimana in biblioteca a leggere storie di investigatori duri e dame che portavano soltanto guai.

E la sera c'era la casa. Quasi ogni giorno ce ne occupavamo un po', a volte per un paio d'ore, altre soltanto per venti minuti: scartavetrando la scala, selezionando il contenuto di uno scatolone lasciato da zio Simon, facendo a turni per salire in cima alla scaletta a cambiare i portalampada a soffitto in cattivo stato. I lavori peggiori - smacchiare le ceramiche dei bagni - ricevevano lo stesso tempo e la stessa cura delle attività più appassionanti; tutti e quattro trattavano la casa come un meraviglioso strumento, uno Stradivari o un Bösendorfer trovato in una collezione di tesori perduti, da restaurare con pazienza e ammirazione, e un amore assoluto. Non credo di avere mai visto Daniel più rilassato del giorno in cui si sdraiò sul pavimento della cucina con un paio di pantaloni malandati e una camicia a scacchi a dipingere il battiscopa, ridendo di qualcosa che gli stava raccontando Rafe, mentre Abby si chinava su di lui per intingere il suo pennello, sporcandogli la guancia di vernice con la punta della sua coda di cavallo.

Erano tutti molto "fisici". All'università non ci si sfiorava nemmeno, ma a casa c'era sempre qualcuno che toccava qualcun altro: la mano di Daniel sulla testa di Abby mentre passava dietro la sua sedia, il braccio di Rafe sulla spalla di Justin quando esaminavano i ritrovamenti di una stanza in disuso, Abby sul dondolo con le gambe sulle mie e su quelle di Justin, io e Rafe vicini a leggere accanto al camino. Frank aveva detto le banalità di rito su omosessualità e orge, ma per quanto restassi all'erta per cogliere qualsiasi tipo di implicazione sessuale - vista la gravidanza di Lexie - non coglievo niente. Era qualcosa di più strano, e più forte: diversamente dalla maggior parte della gente, non avevano limiti e confini tra di loro. Una convivenza media prevede un livello piuttosto intenso di lotte territoriali - tese trattative per il monopolio del telecomando, riunioni domestiche per decidere se il pane sia da considerare un bene comune o personale; la convivente di Rob aveva crisi di nervi che duravano tre giorni se lui le toccava il burro. Questi invece: da quanto vedevo tutto apparteneva a tutti, fatta eccezione per la biancheria intima, per fortuna. I ragazzi prendevano le cose a caso dall'armadio, qualsiasi cosa andasse bene andava bene; io non riuscivo a capire quali magliette appartenessero ufficialmente a Lexie e quali a Abby. In caso di necessità non esitavano a strappare un foglio dal quaderno più vicino; a prendere un pezzo di toast dal piatto più a portata di mano o a bere dal primo bicchiere che capitava a tiro.

Non ne parlai a Frank perché sarebbe servito soltanto a farlo passare dai commenti sulle orge a qualche oscuro avvertimento contro il pericolo comunista, mentre io apprezzavo quei confini indistinti. Mi ricordavano qualcosa di caldo e solido che non riuscivo a definire bene. C'era un'enorme incerata verde lasciata dallo zio Simon; veniva tenuta nell'armadio tra giacche e cappotti, e apparteneva a chiunque dovesse uscire sotto la pioggia; la prima volta che l'indossai per andare a fare la mia passeggiata serale sentii un brivido strano, inebriante, come quando si tiene per la prima volta un ragazzo per mano.

Era giovedì quando riuscii a capire di cosa si trattava. Le giornate cominciavano ad allungarsi verso l'estate, era una bella serata tiepida e dopo cena avevamo portato sul prato una bottiglia di vino e una torta di pan di Spagna, io avevo intrecciato una catenella con le margherite e cercavo di allacciarla intorno al polso. A questo punto avevo accantonato il progetto di non toccare alcol - sembrava poco in carattere con Lexie, spingeva tutti a ripensare alla coltellata e a irrigidirsi, senza contare che gli effetti della combinazione di antibiotici e alcol mi sarebbero potuti tornare comodi per togliermi dai guai in qualsiasi momento - quindi ero leggermente e felicemente brilla.

«Altra torta» chiese Rafe richiamando la mia attenzione con un colpetto del piede.

«Prenditela da solo, ho da fare.» Avevo rinunciato all'idea di allacciarmi il braccialetto e lo stavo mettendo a Justin.

«Sei una pigrona, lo sai?»

«Senti chi parla» e mi passai una gamba dietro la testa - tutta la ginnastica fatta da bambina mi ha resa molto elastica - facendogli una boccaccia da sotto il ginocchio. «Sono attiva e in salute, guarda.»

Rafe sollevò pigramente un sopracciglio. «Non eccitarmi.»

«Sei un pervertito» ribattei con tutta la dignità consentita dalla posizione.

«Piantatela» intervenne Abby. «Ti farai saltare i punti e siamo tutti troppo ubriachi per portarti al pronto soccorso.»

Avevo completamente dimenticato gli immaginari punti di sutura, e per un attimo presi in considerazione l'idea di simulare qualche danno, poi decisi di lasciar perdere. Il lunghissimo tramonto sul prato, l'erba che solleticava i piedi scalzi e forse anche l'alcol mi facevano sentire allegra e con la testa vuota. Era passato molto tempo dall'ultima volta che mi ero sentita così, ed era piacevole. Girai la testa per guardare di sottecchi Abby. «I punti sono a posto. Non sono nemmeno più arrossati.»

«Perché fino a questo momento non avevi cercato di annodarti su te stessa» ribatté Daniel. «Fa' la brava.»

Di solito reagisco male al paternalismo, invece questa volta lo trovai gentile, confortevole. «Sì, papà» risposi, e districandomi persi l'equilibrio cadendo addosso a Justin.

«Uffa, via di qui» esclamò lui agitando mollemente una mano. «Ma quanto pesi?» Mi accomodai con la testa sulle sue ginocchia, osservando il tramonto. Justin mi solleticava il naso con uno stelo d'erba.

Ero rilassata, o perlomeno mi auguravo di sembrarlo, ma i pensieri correvano veloci. Mi ero appena accorta - Sì, papà - che cosa mi ricordava tutta quella messa in scena: mi ricordava una famiglia. Magari non proprio una famiglia regolare, sebbene io non fossi un'esperta, piuttosto una famiglia da libro delle favole o da vecchio telefilm, il genere di nucleo rassicurante in cui nessuno invecchia, al punto che cominci a farti delle domande sui livelli ormonali degli attori. Questi cinque incarnavano proprio questo: Daniel nel ruolo del padre affettuoso ma distante, Justin e Abby che facevano a turno la parte della mammina protettiva e del primogenito altezzoso, Rafe il figlio di mezzo, lunatico, e Lexie, ultima arrivata, la sorellina capricciosa da viziare e prendere in giro.

Con ogni probabilità nessuno di loro era più informato di me su come funziona una vera famiglia e mi sarei dovuta accorgere subito che si trattava di un dato che li accomunava: Daniel orfano, Abby adottata, Justin e Rafe esiliati, Lexie chissà cosa, ma certo non troppo legata ai genitori. Mi era sfuggito, perché anche per me si trattava di una modalità standard. In modo cosciente o inconscio avevano raccolto tutti i piccoli ritagli che erano riusciti a trovare e costruito la loro immagine personale di una famiglia, e poi ci si erano adattati.

I quattro non dovevano avere più di diciotto anni quando si erano incontrati. Li osservai da sotto le ciglia - Daniel che guardava la bottiglia controluce per verificare se fosse rimasto del vino, Abby che scacciava le formiche dal piatto della torta - e mi chiesi che ne sarebbe stato di loro se durante il percorso si fossero perduti.

Mi stavano venendo un sacco di idee, ma siccome erano tutte fumose e fulminee decisi che stavo troppo bene per provare a dar loro una forma. Potevano aspettare qualche ora, fino alla passeggiata. «Anch'io» gli dissi, e allungai il bicchiere per un altro goccio.

 

«Sei ubriaca?» chiese Frank. «Mi sei sembrata un po' rallentata, prima.»

«Tranquillo. Ho bevuto un paio di bicchieri a cena. Non bastano per definirmi ubriaca.»

«Meglio così. Magari a te sembra una vacanzina, ma io non voglio che ti rilassi. Devi stare all'erta.»

Bighellonavo lungo il viottolo in salita pieno di buche che partiva dal cottage. Avevo pensato parecchio a come Lexie fosse finita lì. Avevamo preso per buono che fosse in fuga e non riuscendo ad arrivare a Whitethorn House o al villaggio - perché l'assassino le bloccava la strada o perché stava perdendo rapidamente le forze - si era infilata nel nascondiglio più vicino che conosceva. N aveva cambiato le cose, dal mio punto di vista. Ammesso che si trattasse di una persona, anziché di un pub o di un programma radiofonico o una partita di poker, dovevano pur aver avuto un posto dove incontrarsi, e il fatto che nell'agenda non fosse indicato nessun luogo poteva significare soltanto che usavano ogni volta lo stesso. E se gli incontri avvenivano nottetempo, invece che di giorno, il cottage era perfetto: appartato, comodo, al riparo da vento e pioggia, protetto da eventuali attacchi di sorpresa. Era possibile che Lexie si stesse già dirigendo al cottage quella notte, prima di essere aggredita, e che avesse continuato per la sua strada, come guidata dal pilota automatico, dopo che N le aveva teso l'imboscata; o forse sperava di trovare nel cottage N per chiedergli aiuto.

Non proprio il tipo di traccia ideale, per un detective, ma non avendo niente di meglio dedicavo gran parte delle mie passeggiate a gironzolare nella zona, nella speranza che una sera o l'altra N mi desse una mano sbucando all'improvviso. Mi ero trovata un posticino comodo nel viottolo da cui potevo tenere d'occhio il cottage mentre parlavo al telefono con Frank o con Sam. Gli alberi erano abbastanza fitti da nascondermi, in caso di bisogno, ed era sufficientemente isolato per impedire che qualche contadino mi sentisse parlare e mi inseguisse con il fedele fucile. «Sto all'erta» dissi. «E ti devo fare una domanda. Ricordami una cosa: il prozio di Daniel è morto in settembre?»

Sentii che Frank sfogliava le pagine; o aveva portato la documentazione a casa oppure era ancora in ufficio. «Il 3 febbraio. Daniel ha avuto le chiavi il 10 settembre. Ci deve essere voluto un po' di tempo per l'omologazione del testamento. Perché me lo chiedi?»

«Puoi scoprire com'è morto il vecchio e dove si trovavano i nostri cinque quel giorno? E perché c'è voluto tanto tempo per l'omologazione? Quando la nonna mi ha lasciato dei soldi in eredità sei settimane dopo li avevo in tasca.»

Frank fischiò. «Stai pensando che abbiano fatto fuori il povero prozio Simon per prendersi la casa? E che poi Lexie abbia perso la testa?»

Sospirai e mi passai una mano nei capelli cercando il modo di spiegarmi. «Non esattamente. Anzi, non penso a niente del genere. È solo che riguardo alla casa si comportano in maniera molto strana. Tutti e quattro, Frank. Ne parlano come se fosse casa loro, non solo di Daniel - "Dobbiamo mettere i doppi vetri, bisogna prendere una decisione sul giardino dei semplici, noi..." - e si comportano come se la considerassero una residenza permanente, come se potessero dedicare anni alla ristrutturazione perché vivranno lì per sempre.»

«Sarà perché sono giovani» rispose Frank comprensivo. «A quell'età si pensa che i compagni di università e le convivenze dureranno per sempre. Dagli qualche anno e finiranno nei sobborghi, in una bella villetta bifamiliare, e passeranno le domeniche pomeriggio a comprare nei negozi di bricolage il necessario per sistemare il giardino.»

«Non sono così giovani. E hai sentito come parlano: sono decisamente troppo coinvolti nella casa e fra loro. Non hanno altri interessi. Non penso che abbiano fatto fuori il prozio, sto andando alla cieca. Comunque, visto che hai sempre detto che secondo te nascondono qualcosa, è meglio controllare qualsiasi stranezza.»

«Giusto» rispose Frank. «Lo farò. Non vuoi sapere come ho impiegato la giornata?»

Nella voce quella corrente sotterranea di eccitazione: poche cose al mondo gli facevano tanto effetto. «Assolutamente» dissi.

L'eccitazione si trasformò in un sorriso soddisfatto che mi sembrava quasi di vedere. «L'FBI ha trovato le impronte digitali della nostra ragazza.»

«Merda? Di già?» Quelli dell'FBI sono bravi ad aiutarci quando ci servono, però in genere sono sommersi di lavoro arretrato.

«Ho dei contatti nelle basse sfere.»

«D'accordo» dissi. «Chi è?» Non so perché ma mi tremavano le ginocchia. Mi appoggiai con la schiena a un tronco.

«May-Ruth Thibodeaux, nata in North Carolina nel 1975, denunciata come scomparsa nell'ottobre del 2000 e ricercata per furto d'auto. Impronte e foto corrispondono.»

Respiravo con un piccolo affanno. «Cassie?» chiamò Frank dopo un attimo. Lo sentii fare un tiro della sigaretta. «Ci sei?»

«Sì. May-Ruth Thibodeaux.» Pronunciare il suo nome mi procurò un formicolio lungo la schiena. «Che cosa sappiamo?»

«Non molto. Niente fino al 1997, quando si è trasferita a Raleigh da non si sa quale buco e ha trovato lavoro come cameriera in un bar aperto tutta la notte. Strada facendo è riuscita in qualche modo a studiare, perché al Trinity si è iscritta al corso di specializzazione, ma sembrerebbe più un'autodidatta, una che ha studiato da privatista, perché non compare in nessun liceo e in nessun college della zona. Niente precedenti.» Soffiò fuori il fumo. «La sera del 10 ottobre 2000 ha preso in prestito la macchina del fidanzato per andare al lavoro ma non c'è mai arrivata. Un paio di giorni dopo lui ne ha denunciato la scomparsa. La polizia non gli ha dato retta, pensando che lo avesse piantato e basta. Lo hanno torchiato un po' nel caso l'avesse ammazzata e buttata chissà dove, ma aveva un buon alibi. Nel dicembre dello stesso anno la macchina è stata ritrovata a New York, in un parcheggio di quelli a lungo periodo del JFK.»

Era molto fiero di sé. «Bel colpo, Frank» dissi automaticamente. «Congratulazioni.»

«Siamo qui per soddisfarvi» rispose sforzandosi di suonare modesto.

Dunque aveva soltanto un anno meno di me. Quando io giocavo con le biglie sotto la pioggerellina nel giardino di Wicklow lei scorrazzava per qualche cittadina assolata, a piedi nudi al bancone del bar o sul cassone di un pick-up lungo strade sterrate, fino a quando un bel giorno si era messa al volante e aveva continuato a guidare.

«Cassie?»

«Sì?»

«Il mio contatto farà altre ricerche per vedere se la ragazza non si fosse fatta qualche nemico lungo la strada... qualcuno che potrebbe averla rintracciata fin qui.»

«Non è un'ipotesi malvagia» dissi cercando di ragionare in fretta. «Se lo scopri fammelo sapere. Come si chiamava il fidanzato?»

«Brad, Chad, Chet, uno di quei ridicoli nomi americani...» Fruscio di carte. «Il mio uomo ha fatto qualche telefonata e a quanto pare il ragazzo non è stato assente neanche un giorno dal lavoro in questi ultimi mesi. È impossibile che abbia fatto un salto su questa riva dello stagno per ammazzare la sua ex. Chad Andrew Mitchell. Perché?»

Niente N. «Così, per curiosità.»

Frank aspettava, in silenzio, ma anch'io sono molto brava a quel gioco. «D'accordo» disse infine. «Ti tengo aggiornata. L'identificazione forse non ci porterà da nessuna parte, comunque non è male sapere qualcosa di lei. È più semplice farsene un'idea, non trovi?»

«Oh, sì» risposi. «Assolutamente.»

Non era vero. Chiusa la telefonata restai a lungo appoggiata all'albero a guardare il profilo cadente del cottage che piano piano spariva e ricompariva con il passaggio delle nuvole davanti alla luna, pensando a May-Ruth Thibodeaux. Restituirle un nome, una città natale, una storia, non mi faceva bene: era stata una persona in carne e ossa, non soltanto un'ombra proiettata dalla mia mente e da quella di Frank, era stata viva. Per trenta lunghi anni noi due ci saremmo potute incontrare.

All'improvviso pensai che avrei dovuto saperlo; un oceano di distanza, eppure, mi pareva, avrei dovuto sentirne lo stesso la presenza, di tanto in tanto avrei dovuto alzare gli occhi dalle biglie o dal libro che stavo studiando o dal rapporto su un caso, come se qualcuno mi avesse chiamata per nome. Lei aveva percorso migliaia di chilometri avvicinandosi a tal punto da infilarsi dentro il mio nome, come una sorella minore nel cappotto ereditato dalla maggiore, si era diretta verso di me con la precisione di una bussola e quasi mi aveva trovata. Io ero a un'ora di macchina da lei e avrei dovuto saperlo; avrei dovuto capirlo in tempo e fare l'ultimo passo, quello che ci avrebbe fatte incontrare.

 

Quella settimana le uniche ombre nelle nostre vite vennero dall'esterno. Stavamo giocando a poker, venerdì sera - si giocava molto a carte, fino a notte fonda, soprattutto poker alla texana o 110, a volte picchetto se erano solo due ad averne voglia. Si puntavano vecchie monetine da dieci pence prese da un enorme barattolo trovato in soffitta, però giocavano tutti molto seriamente: ognuno partiva con lo stesso numero di monete e se si usciva si restava fuori, la possibilità di prendere in prestito qualcosa dalla scorta non era prevista. Lexie era stata una discreta giocatrice, come me; le sue mosse non erano sempre ragionevoli però aveva imparato a trarre vantaggio dell'imprevedibile, specialmente nelle mani con grosse puntate. Al vincitore spettava il diritto di scegliere il menu della cena del giorno dopo.

Quella sera c'era Louis Armstrong sul giradischi e Daniel aveva comprato un sacchettone di Doritos con tre salse diverse per accontentare tutti. Armeggiavamo tra le varie ciotole sbreccate usando il cibo per distrarci a vicenda - funzionava soprattutto con Justin, che perdeva completamente la concentrazione se temeva che stessi per far cadere una goccia di salsa sul tavolo. Avevo appena sbaragliato Rafe - se non aveva niente faceva casino con le salse, se invece aveva una mano buona si ficcava Doritos in bocca a manciate; mai giocare a poker con un detective, ed ero tutta indaffarata a vantarmene, quando il suo telefono squillò. Spinse la sedia sulle gambe posteriori e afferrò l'apparecchio che era appoggiato su uno scaffale.

«Pronto» disse alzando il medio nella mia direzione. La sedia tornò sul pavimento con tutte e quattro le gambe di colpo e la sua faccia cambiò: raggelata, chiusa dietro la maschera arrogante e indecifrabile che portava all'università e quando c'erano estranei in giro. «Papà» aggiunse.

Senza battere ciglio gli altri gli si strinsero intorno; la si sentiva nell'aria, una tensione che si solidificava mentre si schieravano al suo fianco. Io, che gli ero seduta proprio accanto, ebbi il piacere di sentire l'urlo: «...nuove opportunità... un piede dentro... cambiare idea...?».

Le narici di Rafe vibrarono come se avesse sentito una puzza sgradevole. «Non mi interessa» disse.

Il volume della tirata lo costrinse a chiudere gli occhi. Colsi quanto bastava per capire che passare la giornata a leggere commedie era da finocchi, e che il figlio di un certo Bradbury aveva appena guadagnato il suo primo milione e che parlare con lui invece era sprecare il fiato. Rafe teneva il telefono con due dita a qualche centimetro dall'orecchio.

«Chiudi, per l'amor di Dio» sussurrò Justin. Aveva un'espressione angosciata. «Chiudigli il telefono in faccia.»

«Non può» rispose Daniel a bassa voce. «Dovrebbe, è evidente, tuttavia... Un giorno ci arriverà»

Abby scrollò le spalle. «Bene, allora...» E mescolò le carte con un movimento rapido ed elegante e le distribuì per cinque giocatori. Daniel le sorrise e avvicinò la sedia, pronto.

La voce al telefono non scendeva di volume, si sentiva con regolarità la parola "cazzo" usata in una grande quantità di contesti diversi. Rafe aveva abbassato il mento sul petto come se stesse cercando di resistere a un vento di burrasca. Justin gli sfiorò un braccio; lui spalancò gli occhi e ci guardò arrossendo fino ai capelli.

Avevamo già messo le nostre puntate. Io avevo delle carte infime - un sette e un nove di semi diversi - ma capivo benissimo che cosa stavano cercando di fare gli altri. Stavamo riportando Rafe tra noi, e il pensiero di fare parte della squadra e partecipare a quella manovra ebbe un effetto inebriante su di me, una sensazione talmente piacevole da fare male. Per una frazione di secondo pensai a Rob che metteva un piede intorno alla mia caviglia, sotto la scrivania, quando O'Kelly mi faceva le ramanzine. Sventolai le mie carte sotto il naso di Rafe e pronunciai senza suono: «Aspettiamo te».

Batté le palpebre. Sollevai un sopracciglio e con il mio più malizioso sorriso alla Lexie aggiunsi in un sussurro: «Se non hai paura che ti massacri un'altra volta».

L'espressione raggelata si allentò un pochino. Diede un'occhiata alle sue carte, poi posò il telefono sul ripiano più vicino, cautamente, e lasciò dieci pence sul tavolo. «Perché sto bene dove sto» disse rivolto al telefono. La voce era quasi normale, però era ancora rosso di rabbia.

Abby gli fece un sorrisetto, servì abilmente tre carte e le voltò. «Lexie ha una scala» disse Justin guardandomi con gli occhi socchiusi. «Conosco quella faccia.»

Il telefono, che aveva speso un sacco di soldi per comunicare con Rafe, non intendeva vederli buttati nel cesso. «No» disse Daniel. «Forse ha qualcosa, ma certo non una scala. Vedo.»

Non ero nemmeno vicina a una scala, ma non era questo il punto; nessuno avrebbe chiuso fino a quando Rafe non fosse tornato tra noi. Il telefono rilasciò una roboante dichiarazione su un Lavoro Vero. «In altre parole in un ufficio» ci informò Rafe. La sua schiena era meno rigida. «E addirittura, un giorno, forse, se faccio un buon gioco di squadra e penso in maniera originale e lavoro meglio degli altri, non di più, un ufficio dotato di finestra. Oppure sto mirando troppo alto?» chiese al telefono. «Che cosa ne pensi?» Mimò per Justin: "Ti vedo e rilancio".

Il telefono - che ovviamente si rendeva conto d'essere stato insultato, pur non capendo bene come - dichiarò qualcosa di bellicoso a proposito dell'ambizione e del fatto che era arrivato il momento di crescere e cominciare a vivere nel mondo reale.

«Ah» esclamò Daniel alzando gli occhi. «Ecco un concetto che mi ha sempre affascinato: il mondo reale. È un gruppo molto particolare di gente quello che usa questa definizione, avete notato? A me sembra più che evidente che tutti viviamo nel mondo reale: respiriamo ossigeno vero, mangiamo cibo vero, la terra sotto i nostri piedi è solida per tutti nello stesso modo. Però è chiaro che queste persone hanno una definizione di realtà molto più circostanziata, una definizione per me molto misteriosa, e un bisogno quasi patologico di costringere gli altri ad allinearsi alla loro definizione.»

«È gelosia» disse Justin osservando le carte prima di gettare altre due monete sul mucchietto in mezzo al tavolo. «L'uva acerba eccetera.»

«Nessuno» disse Rafe al telefono gesticolando al nostro indirizzo per dirci di parlare a bassa voce. «È la televisione. Passo le giornate guardando soap opera, mangiando caramelle e progettando il sovvertimento sociale.»

L'ultima carta per me era un nove, quindi avevo almeno una coppia. «Be', certamente in alcuni casi la gelosia costituisce un fattore determinante» disse Daniel «ma il padre di Rafe, ammettendo che sia vero metà di quel che dice, si potrebbe permettere qualsiasi tipo di vita, compresa la nostra. Di che cosa dovrebbe essere geloso? No, ritengo che questa mentalità affondi le sue radici nella struttura morale puritana: l'enfasi sull'adeguamento a una rigida struttura gerarchica, l'elemento del disprezzo di sé, l'orrore per tutto ciò che è fonte di piacere oppure è artistico o non irregimentato.... Comunque mi sono sempre chiesto in che modo tale paradigma abbia compiuto la transizione che l'ha portato a diventare la linea di demarcazione non solo della virtù ma addirittura della realtà. Potresti mettere il vivavoce, Rafe? Mi interesserebbe sentire che cosa ha da dire tuo padre in proposito.»

Rafe lo guardò con un'occhiata tipo ma-sei-matto? e scosse la testa; Daniel sembrava vagamente perplesso. Noi cominciammo a ridacchiare.

«Naturale» continuò Daniel cortese «come preferisci... Che cosa c'è di divertente, Lexie?»

«Tutti matti» esclamò Rafe al soffitto in un sussurro appassionato. A quel punto dovevamo sforzarci di non ridere tenendo le mani davanti alla bocca. «Sono circondato da matti totali. Cos'ho fatto per meritarlo? Ho forse tormentato i sofferenti, in una vita precedente?»

Il telefono, che si avvicinava al gran finale, informò Rafe della necessità di avere un certo stile di vita. «Ingollare champagne nella City» ci tradusse lui «e fottersi la segretaria.»

«Che cosa cazzo c'è che non va in questo?» sbraitò il telefono con tale forza che Daniel, sbalordito, arretrò sulla sedia con un'espressione di disapprovazione totale. Abby era appoggiata allo schienale con un pugno in bocca per soffocare la risata e io ridevo così forte che dovetti infilare la testa sotto il tavolo.

Con grandioso sprezzo delle fondamenta dell'anatomia, il telefono ci definì un gruppo di hippie col cazzo floscio. A questo punto mi ero ripresa e riemersi a prendere una boccata d'aria, Rafe mise giù una coppia di fanti e si prese il piatto gesticolando vittorioso e sorridente. Mi resi conto di una cosa: il cellulare di Rafe continuava a vociare a meno di mezzo metro dal mio orecchio e io non avevo battuto ciglio.

 

Qualche mano più tardi, all'improvviso Abby domandò: «Sapete di cosa si tratta? È appagamento».

«Chi è appagato di cosa e perché?» chiese Rafe contando la vincita di Daniel. Il telefono era spento.

«Questa storia del mondo reale.» Abby mi passò davanti allungandosi sul tavolo per avvicinare il portacenere. Justin aveva messo un disco di Debussy, che ben si intonava con il debole rumore della pioggia sull'erba. «La nostra società si fonda sullo scontento: le persone vogliono di più, di più, sempre di più, perché sono sempre scontente delle loro case, dei loro corpi, dell'arredamento, dei vestiti, di tutto. Credono che la sostanza della vita sia proprio questo scontento perenne. Se invece uno è appagato di quello che ha - soprattutto se quello che ha non è neanche così spettacolare - allora diventa pericoloso. Perché rompe le regole, minaccia la sacra economia, mette in discussione le fondamenta sulle quali si regge la società. È per questo che il papà di Rafe dà in escandescenze quando lui gli dice che sta bene dove sta. Dal suo punto di vista noi siamo dei sovversivi. Siamo traditori.»

«Credo proprio che tu non abbia torto» disse Daniel. «Non è gelosia, però: è paura. È una condizione affascinante. In tutta la storia - fino a cent'anni fa, forse addirittura cinquanta - era lo scontento a rappresentare una minaccia sociale, la negazione delle leggi naturali, il pericolo che andava eliminato a ogni costo. Adesso è l'appagamento. Che strana inversione di tendenza.»

«Siamo rivoluzionari» disse Justin tutto felice, intingendo un Doritos in un barattolo di salsa con l'aria meno rivoluzionaria che si potesse immaginare. «Non mi ero mai reso conto che fosse così facile.»

«Siamo autentici guerriglieri» dissi io con entusiasmo.

«Tu sei un'autentica scimmia» mi disse Rafe puntando tre monete.

«Sì, però è una scimmia appagata» aggiunse Daniel sorridendomi. «Non è vero?»

«Se Rafe non monopolizzasse la salsa all'aglio sarei la scimmia più appagata d'Irlanda.»

«Bene» rispose Daniel rivolgendomi un piccolo cenno di approvazione. «Ecco quello che volevo sentire.»

 

Sam non lo chiedeva mai. «Come va?» diceva durante le nostre telefonate notturne e quando io rispondevo «Bene», passava a parlare d'altro. I primi giorni mi raccontava delle sue indagini - la verifica meticolosa di tutti i miei vecchi casi, la lista dei piantagrane della zona stilata dalla polizia locale, gli studenti e i professori di Lexie. Meno trovava indizi e meno ne parlava. Mi raccontava altre cose, piccole banalità del quotidiano. Era stato a casa mia un paio di volte per cambiare aria e fare in modo che non sembrasse troppo abbandonata; la gatta dei vicini aveva partorito una cucciolata in fondo al giardino, mi disse, e l'odiosa signora Moloney del piano di sotto gli aveva lasciato sul parabrezza un biglietto cattivo per informarlo che il parcheggio era riservato esclusivamente ai residenti. Non glielo dicevo, ma mi sembrava tutto lontano anni luce, perso in chissà quale mondo dimenticato, talmente caotico che mi stancava persino pensarci. A volte impiegavo qualche secondo per ricordare chi erano le persone di cui parlava.

Solo una volta, un sabato sera, mi chiese degli altri. Ero nel mio solito viottolo nascosto, appoggiata a una siepe di biancospino, e tenevo d'occhio il cottage. Avevo avvolto intorno al microfono un lungo calzettone di Lexie che mi faceva sembrare un'aliena con tre tette, ma almeno non consentiva a Frank e ai suoi di cogliere più del dieci per cento della conversazione.

Parlavo a voce molto bassa anche perché fin da quando ero uscita dal giardino avevo avuto la sensazione di essere seguita. Niente di concreto, niente che il vento, le ombre sulla luna e i suoni notturni della campagna non potessero spiegare; soltanto una bassissima scarica elettrica sulla nuca, dove il cranio incontra la spina dorsale, cosa che succede solo quando qualcuno ti sta guardando. Mi ci voleva molta forza di volontà per non girarmi di scatto, ma se c'era davvero qualcuno non volevo fargli sapere che era stato smascherato, almeno fino a quando non avessi deciso come reagire.

«Non andate mai al pub?» chiese Sam.

Non capivo cosa mi stesse chiedendo, visto che sapeva minuto per minuto quel che facevamo. A detta di Frank, Sam arrivava in ufficio alle sei del mattino per ascoltare i nastri. Questo mi innervosiva per mille piccole ragioni irragionevoli, e parlarne peggiorava la situazione. «Sono andata con Rafe e Justin al Buttery martedì, dopo le lezioni» dissi. «Non ricordi?»

«Mi riferivo al vostro pub, come si chiama... Regan's, in paese. Non ci andate mai?»

Ci passavamo davanti in macchina andando e tornando dall'università: un diroccato piccolo pub di paese schiacciato tra la macelleria e l'edicola, con le biciclette senza lucchetto appoggiate al muro, la sera. Nessuno aveva mai proposto una visita.

«È più semplice bere qualcosa a casa, se vogliamo bere» dissi. «Arrivare al villaggio è una bella passeggiata e a parte Justin fumano tutti.» I pub sono sempre stati il cuore della vita sociale, in Irlanda, ma da quando è entrato in vigore il divieto di fumare molti bevono a casa. Il divieto non mi disturba, personalmente, sebbene non mi sia chiaro come si faccia a entrare in un pub senza nuocere alla propria salute, ma mi disturba che venga rispettato. Per gli irlandesi le regole hanno sempre rappresentato una sfida - vediamo chi riesce a trovare il modo migliore per aggirarle - e questo improvviso adeguarsi come pecore mi fa temere che ci stiamo trasformando in un paese diverso, forse nella Svizzera.

Sam rise. «Hai abitato troppo in città. Ti garantisco che Regan's non impedisce a nessuno di fumare. E prendendo la scorciatoia è poco più di un chilometro. Non trovi strano che non ci vadano mai?»

Alzai le spalle. «Sono tipi strani. Non così socievoli, se non te ne fossi accorto. E magari Regan's fa schifo.»

«Può darsi» rispose poco convinto. «Quando toccava a te fare la spesa sei andata al Dunne's del Stephen's Green Centre, giusto? Gli altri dove vanno?»

«Come faccio a saperlo? Ieri Justin è andato da Marks & Sparks, gli altri non ho idea. Siccome Frank ha detto che Lexie andava al Dunne's sono andata al Dunne's.»

«E l'edicola del paese? Nessuno ci va?»

Riflettei. Una sera Rafe era uscito a prendere le sigarette passando dal cancello sul retro, in direzione dell'area di servizio sulla strada per Rathowen, aperta fino a tardi, non verso Glenskehy. «Da quando sono arrivata no. A che cosa stai pensando?»

«Mi stavo facendo delle domande» rispose lui lentamente «a proposito del villaggio. Voi abitate nella "grande casa", capisci? Daniel fa parte della famiglia proprietaria della "grande casa". In genere la gente non ci fa più caso, però in alcuni posti, a seconda della storia locale... Mi stavo chiedendo se non ci fossero cattivi rapporti tra la casa e il paese.»

Gli inglesi avevano sempre controllato l'Irlanda con un sistema feudale: concedendo i villaggi alle famiglie angloirlandesi come favori di partito, lasciandogli sfruttare la terra e gli abitanti come ritenevano meglio, il che significa una grande varietà di comportamenti. Dopo l'indipendenza il sistema era collassato; qualche obsoleta famiglia eccentrica resisteva ancora, in genere ridotta a vivere in quattro stanze e ad aprire la proprietà al pubblico per pagare le riparazioni del tetto, ma molte case coloniche erano state acquistate da società che le avevano trasformate in alberghi, centri termali o cose simili, e tutti stavano dimenticando che cosa rappresentavano un tempo. Qui e là, però, dove la storia aveva lasciato una cicatrice più profonda, la gente ricordava.

Così era per Wicklow. Si erano programmate rivolte per ben quattrocento anni, a meno di un giorno di cammino da dove mi trovavo adesso. Quelle montagne avevano combattuto dalla parte dei guerriglieri, nascondendoli ai soldati che incespicavano nelle notti buie e tenebrose; i cottage come quello di Lexie erano stati abbandonati nel sangue, quando gli inglesi sparavano a vista per uccidere fino all'ultimo ribelle. Ogni famiglia ha le sue storie da raccontare.

Sam aveva ragione. Avevo abitato in città per troppo tempo. Dublino è moderna fino all'isteria, e qualsiasi cosa preceda la banda larga è diventata un argomento di ilarità o imbarazzo; avevo dimenticato com'è vivere in un posto che conserva viva la memoria. Sam viene dalla campagna, da Galway; lo sa. Le finestre illuminate dalla luna facevano sembrare il cottage spettrale, riservato e circospetto.

«È possibile» dissi. «Anche se non vedo un nesso con il nostro caso. Una cosa è guardare storto i ragazzi che vivono nella "grande casa" fino a quando la smettono di venire a comprare il giornale alla tua edicola, tutt'altra faccenda è pugnalare una di loro perché nel 1846 il padrone è stato cattivo con la tua bisnonna.»

«Forse. Controllerò comunque, nel caso. Vale la pena controllare qualsiasi cosa.»

Colpii la siepe e sentii una rapida vibrazione attraverso i rami, come se qualcosa scappasse via. «Insomma! Fino a che punto pensi che possa essere matta, questa gente?»

Un breve silenzio. «Non sto dicendo che siano matti» rispose infine.

«Stai dicendo che uno di loro potrebbe avere ucciso Lexie per qualcosa che una famiglia senza alcun rapporto di parentela con lei ha combinato cento anni fa. E io dico che se è così questo tizio ha come minimo bisogno di uscire più spesso e magari trovarsi una fidanzata che d'estate non debba essere tosata.» Non so perché l'idea mi indispettisse, o perché mai mi gli parlassi con quel tono da rompiscatole. C'entrava la casa, credo. Avevo già fatto parecchi lavori - mezza serata era stata dedicata a strappare la tappezzeria ammuffita del salotto - e cominciavo ad affezionarmici. L'idea che fosse il bersaglio di un odio, qualsiasi tipo di odio, mi faceva infuriare.

«C'è una famiglia, dalle parti dove sono cresciuto» disse Sam «i Purcell. Il bisnonno o qualcuno del genere faceva l'amministratore, ai tempi. Era uno di quelli cattivi - prestava soldi alle famiglie che ne avevano bisogno e si prendeva gli interessi da mogli e figlie, prima di buttarli in mezzo a una strada, quando se ne era stancato. Kevin Purcell è cresciuto insieme a noi, mai un problema, nessuna ostilità, ma quando siamo diventati grandi e lui ha cominciato a frequentare una ragazza del paese, un gruppo lo ha isolato e pestato a sangue. Non erano matti, Cassie. Non avevano niente contro di lui; era a posto, mai torto un capello a una ragazza. Eppure... ci sono cose che non si possono fare, non importa quanto tempo è passato. Cose che non si dimenticano.»

Le foglie della siepe mi pungevano torcendosi contro la mia schiena, come se qualcosa si muovesse tra gli arbusti, ma quando mi girai di scatto era tutto immobile come in un quadro. «È diverso, Sam. Questo Kevin è stato lui a fare la prima mossa: ha cominciato a uscire con una ragazza del paese. I nostri cinque invece non fanno niente. Si limitano a vivere nella casa.»

Altra pausa. «Potrebbe bastare, è tutto relativo. Dicevo così per dire.»

C'era una sfumatura sconcertata nella sua voce. «Giustissimo» risposi più calma. «Hai ragione, vale la pena controllare - abbiamo detto che l'assassino deve essere del posto. Scusami se sono così rompipalle.»

«Vorrei che fossi qui con me» disse lui all'improvviso, a voce bassa. «Al telefono è fin troppo facile confondersi. Fraintendersi.»

«Lo so, Sam» dissi. «Mi manchi anche tu.» Era vero. Cercavo di non pensarci - è il genere di pensiero che ti distrae, e con la distrazione puoi sputtanarti o farti ammazzare - ma quando, dopo una lunga giornata, restavo sola e cercavo di leggere a letto, era difficile scacciarlo. «Poche settimane ancora.»

Sospirò. «Meno, se trovo qualcosa. Parlerò con Doherty e Byrne per sentire se sanno niente, tu intanto... stai molto attenta, hai capito? Non si sa mai.»

«Lo farò. Ci aggiorniamo domani. Dormi bene.»

«Dormi bene anche tu. Ti amo.»

La sensazione di essere osservata mi pizzicava ancora sul collo, più intensa e più vicina. Forse era l'effetto della conversazione appena conclusa, ma di colpo desideravo sapere. Quell'effetto di scarica elettrica nel buio, i racconti di Sam, il padre di Rafe, tutti elementi che premevano da ogni parte, cercando i punti deboli in attesa del momento di attaccare: per un istante dimenticai di essere un invasore, e mi venne da gridare: "Lasciateci in pace". Tolsi la calza dal microfono e la infilai nella guaina insieme al telefono. Poi accesi la torcia per essere ben visibile e mi avviai disinvolta verso casa.

Conoscevo molti modi per seminare qualcuno, sorprenderlo e capovolgere le sorti dell'inseguimento, quasi tutti concepiti per le strade di città, non per un sentiero in mezzo al nulla, ma potevo adattarli. Guardando davanti accelerai per costringerlo a uscire allo scoperto, o almeno a fare rumore tra le foglie. Poi scartai bruscamente su un viottolo che attraversava il mio, spensi la torcia, corsi per una ventina di metri e mi infilai il più silenziosamente possibile dentro una siepe che delimitava un campo abbandonato. Rimasi immobile accovacciata tra gli arbusti, in attesa.

Venti minuti e non successe niente, non uno scricchiolio di ciottoli, non un fruscio di foglie. Se qualcuno mi stava inseguendo davvero si trattava di un uomo, o di una donna, astuto e paziente: non un pensiero allegro. Infine uscii dalla siepe. Non c'era nessuno sul sentiero in entrambe le direzioni, per quanto riuscivo a vedere. Mi liberai di rametti e fogliame rimasti attaccati ai vestiti e mi avviai velocemente verso casa. Le passeggiate di Lexie duravano in media un'ora; non restava molto tempo prima che gli altri incominciassero a preoccuparsi. Al di sopra delle siepi vedevo un bagliore nel cielo: le luci di Whitethorn House, flebili e dorate, attraversate come una nebbia dalle volute di fumo che usciva dal camino.

 

Più tardi, mentre ero a letto a leggere, Abby bussò. Portava un pigiama di flanella a quadretti bianchi e rossi; struccata e con i capelli sciolti sulle spalle non dimostrava più di dodici anni. Si chiuse la porta alle spalle e si sedette ai piedi del letto a gambe incrociate, mettendo i piedi nudi nell'incavo delle ginocchia per tenerli caldi. «Posso chiederti una cosa?»

«Certo» risposi augurandomi con tutta me stessa di conoscere la risposta.

«D'accordo.» Sistemò i capelli dietro le orecchie e guardò la porta. «Non so come affrontare la questione quindi te lo domando in maniera diretta e tu puoi dirmi che devo farmi gli affari miei, se vuoi. Come sta il bambino?»

Ero esterrefatta. Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorrisetto di disappunto. «Scusa. Non volevo spaventarti. L'ho dedotto perché abbiamo sempre il ciclo insieme, ma il mese scorso non hai comprato la cioccolata... e poi quel giorno, quando hai vomitato... Ho dedotto che eri incinta.»

La mia mente correva all'impazzata. «I ragazzi lo sanno?»

Scrollò leggermente una spalla. «Ne dubito. Comunque non ne hanno fatto parola.»

Ciò non escludeva che almeno uno di loro sapesse, che Lexie lo avesse confidato al padre - che aspettava un bambino o che voleva abortire - e lui avesse perso la testa, ma sembrava piuttosto improbabile visto che a Abby non sfuggiva niente. Aspettò, osservandomi. «Non ce l'ha fatta» dissi, il che in fondo era la verità.

Annuì. «Mi spiace» disse. «Mi spiace davvero, Lexie. Oppure...» Sollevò un sopracciglio con aria interrogativa ma discreta.

«Non preoccuparti» dissi. «Non sapevo ancora cosa fare, in ogni caso. Questo semplifica le cose.»

Vedendola annuire di nuovo capii di aver indovinato: non era sorpresa. «Pensi di dirlo ai ragazzi? Perché se vuoi posso farlo io.»

«No, preferisco che non lo sappiano» risposi. "Sapere è potere" diceva sempre Frank. Quella gravidanza sarebbe potuta tornare utile, prima o poi, non era mia intenzione sprecarla. Credo che fu solo allora, nel momento in cui mi resi conto che nascondevo un bambino non nato come una bomba a mano, che fui davvero consapevole di dove mi ero infilata.

«Come vuoi.» Abby si alzò, giocherellando con uno dei bottoni del suo pigiama. «Se mai ti venisse voglia di parlarne, o qualsiasi cosa, sai dove trovarmi.»

«Non mi chiedi chi era il padre?» Se tutti sapevano con chi andava a letto Lexie ero nei guai, ma non pensavo che fosse così; a quanto pareva aveva vissuto tutta la vita in grande segretezza. Ma se c'era qualcuno che sapeva, doveva trattarsi sicuramente di Abby.

Sulla soglia si voltò e di nuovo scrollò una spalla. «Ritengo» disse con voce neutra «che se me lo volessi dire lo faresti.»

 

Quando se ne fu andata - rapido arpeggio di piedi nudi sulle scale, quasi soffocato - accantonai il libro e rimasi seduta ad ascoltare i preparativi degli altri abitanti della casa: qualcuno faceva scorrere l'acqua in bagno, Justin sotto di me canticchiava stonato («Goooooldfinger...»), lo scricchiolio del legno sotto i passi misurati di Daniel. Piano piano i rumori si spegnevano, diventando più deboli e intermittenti, fino a dissolversi nel silenzio. Spensi la lampada sul comodino; Daniel avrebbe visto la luce filtrare sotto la porta, se l'avessi tenuta accesa, e per quella sera avevo chiacchierato abbastanza. Anche quando i miei occhi si furono abituati al buio riuscivo a distinguere soltanto la massa dell'armadio, la linea curva della toeletta, il bagliore quasi inesistente del mio riflesso nello specchio.

Avevo dedicato una discreta quantità di energia a non pensare al bambino, il figlio di Lexie. Quattro settimane, aveva detto Cooper, pochi millimetri di lunghezza: una minuscola gemma, un solitario puntino colorato che ti scivolava tra le dita dentro una crepa e non c'era più. Un cuore che era un luccichio vibrante come un colibrì, il seme di miliardi di cose che non sarebbero mai state.

E poi quel giorno, quando hai vomitato... un bambino volitivo, sveglio, impossibile da ignorare, che già allungava i filamenti delle dita per trattenerla. Non so perché ma non lo immaginavo come un neonato; era un bambinetto di un paio d'anni, compatto, nudo, con una massa di riccioli neri; senza volto, che in un giorno d'estate correva lontano da me nel prato, lasciando nell'aria la scia di una risata. Forse, seduta in quel letto, un paio di settimane prima anche lei se l'era raffigurato così.

O forse no. Cominciavo a farmi l'idea che la forza di volontà di Lexie fosse più intensa della mia, dura come ossidiana, costruita per resistere, non per combattere. Se non avesse voluto immaginare il bambino, allora quella minuscola cometa color gioiello non le sarebbe passata per la mente nemmeno per un secondo.

Volevo sapere se intendeva tenerlo, credevo che questa informazione fosse la chiave di volta. La nostra legge antiabortista non ferma nessuna: ogni anno una lunga processione silenziosa di donne prende il traghetto o un volo che le porta in Inghilterra, e torna prima ancora che qualcuno si sia accorto della sua assenza. Al mondo non c'era nessuno che potesse dirmi quali erano i progetti di Lexie, e con ogni probabilità non li conosceva nemmeno lei. Fui tentata di scendere silenziosamente a dare un'altra occhiata all'agenda, nel caso mi fosse sfuggito qualcosa - un piccolo tratto a penna in un angolo della pagina di dicembre - ma era avventato e inoltre sapevo che non c'era scritto niente. Rimasi seduta nel letto al buio, le braccia strette intorno alle ginocchia, ad ascoltare a lungo la pioggia e a sentire il peso della batteria conficcata tra le costole dove avrebbe dovuto trovarsi la ferita inferta dalla lama.

 

Poi ci fu quella sera; domenica, credo. I ragazzi avevano spostato i mobili del salotto e stavano aggredendo il pavimento con lo smerigliatore e una vernicetta e una discreta quantità di machismo, quindi io e Abby li avevamo abbandonati per andare nella stanza vuota accanto alla mia a cercare di mettere ordine nella baraonda lasciata da zio Simon. Seduta per terra, semisommersa da pezzi di antiche stoffe, io sceglievo quelle non completamente mangiate dalle tarme mentre Abby rovistava in mezzo a un'enorme montagna di tendaggi borbottando: «Bin, bin, bin - queste forse vale la pena lavarle - bin, bin, oddio, chi ha comprato questa schifezza?». Il sonoro ronzio dello smerigliatore arrivava fino a noi e nella casa regnava un'atmosfera quieta e assorta che mi faceva pensare alla stanza della Omicidi nelle giornate tranquille.

«Ehi» disse Abby all'improvviso. «Guarda qui.»

Teneva tra le mani un abito azzurro verde a pois bianchi, con colletto e fusciacca bianchi, maniche corte e aderenti e la gonna ampia fatta per roteare e sollevarsi se eseguivi una giravolta, perfetta per ballare il lindy hop. «Accidenti» esclamai, riemergendo dalle sabbie mobili di stoffa per avvicinarmi a guardarlo meglio. «Pensi che fosse di zio Simon?»

«Non credo che avesse il fisico, controlleremo sull'album.» Allontanò un po' il vestito per esaminarlo meglio. «Vuoi provartelo? Non mi pare che sia rovinato.»

«Provalo tu. Lo hai trovato tu.»

«Non è della mia misura. Guarda...» Si alzò e appoggiò l'abito contro di sé. «È stato fatto per una donna più alta. La cintura mi arriverebbe sotto il sedere.»

Continuavo a dimenticare che Abby era alta poco più di un metro e cinquanta, mi riusciva difficile pensarla come una donna piccola. «E più magra di me» dissi io provando a misurarlo intorno alla vita «oppure con un corsetto di quelli veri. Io ci scoppierei dentro.»

«Non è detto. Hai perso peso, in ospedale.» Mi lanciò il vestito. «Provalo.»

Mi guardò interrogativa vedendo che andavo in camera mia per cambiarmi; non era in linea con il personaggio, ovviamente, però dovevo sperare che attribuisse l'improvviso pudore alla medicazione. Il vestito in effetti mi stava, più o meno - abbastanza stretto da sottolineare la fasciatura, ma non c'era niente di strano. Controllai rapidamente allo specchio che non si vedesse il microfono. L'immagine riflessa era quella di una donna maliziosa e coraggiosa, pronta a tutto.

«Te l'avevo detto» commentò lei quando uscii dalla stanza. Mi fece piroettare e annodò la fusciacca con un fiocco più voluminoso. «Facciamo stupire i ragazzi.»

Corremmo giù gridando: «Guardate che cos'abbiamo trovato!» e lo smerigliatore venne spento. «Ma guardati!» strillò Justin. «La nostra jazz baby!»

«Perfetto» disse Daniel sorridendomi. «È perfetto.»

Rafe fece volteggiare una gamba sullo sgabello del pianoforte e lasciò scorrere un dito sulla tastiera con perizia, poi cominciò a suonare qualcosa di pigro e seducente con dentro un'eco di swing. Abby rise, strattonò il fiocco per assicurarlo e si avvicinò al pianoforte cantando: «Of all the boys I've known and I've known some, until I first met you I was lonesome...»

L'avevo già sentita cantare fra sé e sé quando pensava che nessuno l'ascoltasse, ma mai così. Che voce: il tipo di voce che non capita più di sentire spesso, un meraviglioso contralto da colonna sonora di vecchi film di guerra, una voce per nightclub fumosi, pettinature a onde anni Trenta, rossetto rosso fuoco e un saxofono triste. Justin posò a terra lo smerigliatore, batté i tacchi e si inchinò. «Mi concede l'onore di questo ballo?» chiese tendendo una mano.

Esitai un secondo: e se Lexie fosse stata negata per il ballo? E se invece fosse stata bravissima e la mia goffaggine mi avesse tradita? O se Justin mi avesse stretta troppo a sé accorgendosi della batteria sotto le bende... Ma ballare mi era sempre piaciuto e dall'ultima volta che l'avevo fatto, o almeno desiderato di farlo, era passato così tanto tempo che non ricordavo più quando fosse stato. Abby mi strizzò l'occhio senza perdere una nota e Rafe inserì un piccolo riff, io afferrai la mano di Justin e mi lasciai attirare oltre la soglia.

Sapeva ballare: passi morbidi e la mano ferma intorno alla mia mentre mi faceva volteggiare lenta per la stanza, sul pavimento di legno caldo e polveroso. E io non avevo perso completamente il mio talento, dopo tutto, non gli pestavo i piedi e non incespicavo, il mio corpo ondeggiava con il suo, sicuro e agile come se non avessi mai sbattuto contro una sedia in vita mia, come se non potessi sbagliare nemmeno facendolo apposta. Lame di luce mi lampeggiavano davanti agli occhi, Daniel appoggiato al muro sorrideva stringendo ancora nella mano un foglio di carta vetrata appallottolato, la mia gonna che si gonfiava come una campana quando Justin mi allontanava e mi faceva riavvicinare. «And so I rack my brain trying to explain all the things that you do to me...» Odore di cera per mobili e la segatura che disegnava indolenti riccioli nelle lunghe colonne di luce. Abby con una mano alzata e la testa all'indietro continuava a cantare e la canzone volava per le stanze deserte e contro i soffitti malconci fino all'infuocato cielo al tramonto.

Per una frazione di secondo mi tornò in mente quando avevo ballato così l'ultima volta. Con Rob, sul tetto del basso edificio aggiunto sotto il mio appartamento, la notte prima che tutto andasse tremendamente male. In un certo senso quel pensiero non mi faceva nemmeno soffrire. Era così lontano; in quel momento ero intoccabile nel mio abito azzurro-verde e quella era una cosa triste e dolce accaduta a un'altra ragazza tantissimo tempo prima. Rafe accelerava il ritmo e Abby ondeggiava più veloce, facendo schioccare le dita: «I could say bella, bella, even say Wunderbar, each language only helps me tell you how grand you are...». Justin mi afferrò alla vita facendomi roteare con una gran giravolta, la faccia rossa, ridente, vicino alla mia. L'enorme stanza vuota echeggiava la voce di Abby come se in ogni angolo qualcuno cantasse con lei e i nostri passi risuonavano come se ci fossero tanti ballerini, la casa rievocava tutte le persone che avevano danzato qui nelle sere di primavera per secoli, amorose fanciulle che guardavano i prodi giovanotti partire per la guerra, uomini e donne anziani che irrigidivano le spalle quando fuori il loro mondo si disintegrava e un mondo nuovo bussava alla porta, ognuno con addosso i segni delle sue ferite e ognuno che rideva, accogliendoci nella lunga linea di discendenza.