CAPITOLO TRENTADUE

Quando Prasutago e Catone lasciarono la foresta e si incamminarono verso la Grande Fortezza, la falce di luna era già alta. Nell’oscura volta screziata di stelle una brezza frizzante sospingeva sottili fili di nuvole inargentati dalla luce lunare. Attraversarono di corsa i campi che circondavano le mura, abbassandosi a terra e continuando ad avanzare strisciando quando la luna riapparve da dietro le nubi. Nell’imminenza dell’arrivo delle prime unità della Seconda Legione, tutte le greggi di pecore del circondario erano state trasferite all’interno della fortezza; e per Catone fu un sollievo non imbattersi in quegli animali che innervosendosi avrebbero potuto di farli scoprire: bastava già la pallida luce della luna.

Un paio d’ore più tardi, secondo il calcolo approssimativo di Catone, raggiunsero il versante opposto della Grande Fortezza. Prasutago lo condusse dritto verso la mole scura del primo vallo. Dalla piana sulla cima della collina scendeva un flebile suono di canti e grida allegre. Precedendo Catone, Prasutago continuò ad avanzare strisciando, guardandosi costantemente ai lati quando il terreno iniziò a risalire verso il primo vallo.

Ad un tratto, Prasutago si fermò e si abbassò di scatto a terra, e Catone fece altrettanto, con gli occhi e le orecchie tesi. Poi Catone li vide: contro il cielo stellato si stagliavano le sagome di due uomini di guardia sulla cima del primo vallo. I toni allegri della loro conversazione, udibile fin là sotto, facevano intuire che non stavano svolgendo il proprio compito con la dovuta attenzione. Era chiaro che in quel posto non vigeva la stessa severa disciplina di guardia in uso nelle legioni. Quando le due sentinelle furono passate, Catone e Prasutago si risollevarono da terra e ripresero ad arrancare per la scarpata erbosa del terrapieno. Catone iniziò immediatamente ad ansimare per lo sforzo della salita in forte pendenza, e si chiese quanto sarebbe stato duro con armatura ed equipaggiamento se la Seconda Legione avesse dovuto sferrare un attacco contro la fortezza.

Raggiunsero la cima della fortificazione e si schiacciarono di nuovo a terra. Ora che si trovava sull’imponente struttura difensiva, Catone ne rimase ancor più impressionato. Lungo tutto il perimetro del primo vallo correva uno stretto camminamento, che si prolungava all’infinito in entrambe le direzioni, per quanto la luce della luna gli permettesse di vedere. Sul versante interno, il terreno scendeva ripidamente formando una profonda trincea che poi risaliva immediatamente verso il secondo vallo. Sul fondo della trincea c’era uno strano reticolato che in un primo momento Catone non riuscì a individuare. Poi comprese di cosa si trattava: una selva di pali appuntiti piantati nel terreno ad angolazioni diverse, pronti a infilzare ogni eventuale assalitore che fosse riuscito ad arrivare fin lì. Sicuramente la trincea tra il secondo e il terzo vallo conteneva altre di quelle temibili punte.

«Andiamo!», bisbigliò Prasutago.

Tenendosi al suolo, attraversarono il camminamento di guardia e scivolarono giù sull’altro versante del terrapieno, avendo cura di rallentare la discesa quando si trovarono in prossimità delle punte sul fondo. I pali erano stati astutamente disposti in modo tale che, superatone un primo, ci si sarebbe trovati immediatamente di fronte alla punta di un secondo. Ogni tentativo di assalto in gruppo sarebbe finito in un bagno di sangue, e Catone pregò che Vespasiano dimostrasse abbastanza buonsenso da non tentare un attacco diretto. Se fosse uscito vivo da quella notte, era di vitale importanza avvertire il legato dei pericoli che correvano i legionari.

Seppur leggermente impacciati dai mantelli, i due attraversarono in silenzio la selva di pali e iniziarono a scalare il secondo vallo, di poco più basso del primo; raggiuntane la cima, Catone aveva le gambe doloranti. Da lassù riuscirono finalmente a scorgere la palizzata sul terzo e ultimo vallo. Per quanto fosse difficile averne la certezza al buio, Catone stimò che la barriera di legno potesse essere alta almeno dieci piedi: più che sufficienti per bloccare qualsiasi nemico abbastanza sconsiderato da tentare un assalto diretto. Una rapida occhiata in entrambe le direzioni non rivelò la presenza di nemici, perciò scavalcarono e scivolarono giù sull’altro lato, in fondo al quale trovarono ad attenderli ancora pali. Una volta superati, Prasutago non affrontò il pendio finale, ma ne costeggiò per un po’ la base, senza mai staccare gli occhi dalla palizzata più in alto.

Individuarono il canale di scolo con il naso prima che con gli occhi: un tanfo disgustoso di escrementi e cibo in putrefazione. Mano a mano che avanzavano, il terreno sotto i loro piedi si fece appiccicoso e scivoloso. Attorno alla base dei pali si erano formate delle scure pozze di lordura. Di lì a poco esse si trasformarono in un vero e proprio acquitrino di escrementi che riempiva la trincea e scintillava sotto la luce della luna. Dalle acque nere spuntava un enorme mucchio di rifiuti a forma di cono, con la base immersa e tracimante oltre il bordo della trincea e la sommità percolante in uno stretto condotto di scolo che risaliva fino alla palizzata sopra di loro.

Prasutago afferrò un braccio dell’optio e gli indico il condotto. Catone annuì e iniziarono l’ascesa verso l’ultima linea di difesa della fortezza. Più salivano, più pungente si faceva il fetore. A un certo punto l’aria divenne talmente irrespirabile che Catone si sentì soffocare per via della bile che gli risaliva in gola. Respinse disperatamente il bisogno di vomitare per non rischiare che il rumore potesse richiamare l’attenzione. Alla fine raggiunsero la palizzata e crollarono a terra, sfiniti, accanto al fetido condotto. Sull’imboccatura era stata costruita una piccola base di legno sporgente dal muro, dotata di un’apertura quadrata nella quale venivano gettati i rifiuti. La palizzata sembrava deserta; si udiva solo il fracasso dei Durotrigi che facevano baldoria. Prasutago si infilò nel condotto, cercando l’equilibrio sul terreno viscoso. Si mise direttamente sotto l’apertura, afferrò la base della palizzata che si trovò davanti e fece segno a Catone di seguirlo.

Di fronte all’immagine di un paio di Durotrigi che, passando di lì, la facevano in testa al valoroso iceno, Catone non riuscì a trattenere una risatina. Prasutago lo guardò furioso e indicò con una mano l’apertura.

«Scusa», sussurrò Catone arrampicandosi. «Nervoso».

«Togli mantello», gli ordinò Prasutago.

Catone slacciò la fibbia e lasciò cadere il mantello di Boudicca. Trovandosi all’improvviso completamente nudo, l’aria gelida lo fece rabbrividire.

«Su!», gli sibilò Prasutago. «Sopra me».

Catone appoggiò le mani sulle spalle del guerriero e si issò finché non si ritrovò con le ginocchia ai lati della sua testa. A quel punto allungò una mano verso il bordo dell’apertura. Sotto di lui Prasutago grugnì per lo sforzo di tenersi dritto e per un istante vacillò pericolosamente. Catone stese velocemente le braccia in alto e afferrò la struttura di legno. Tirò lentamente fin quando non riuscì ad appoggiare un gomito e poi un piede sul bordo. Il resto fu semplice. Si distese senza fiato sulle tavole di legno, osservando il centro della fortezza che si apriva davanti ai suoi occhi.

Vicino a lui c’era un ampio raggruppamento di recinti per animali tirati su in fretta e furia, pieni di pecore e maiali che razzolavano tra gli avanzi di cibo deposti all’interno di ogni recinto. Alcuni contadini erano impegnati con dei forconi a smuovere il foraggio invernale all’interno di un grosso recinto di cavalli. Più lontano, sulla destra, c’erano alcune capanne tonde con la tipica copertura in paglia, disposte attorno a una struttura enorme, rischiarata in maniera lugubre da un grande fuoco che ardeva sul vasto spazio aperto prospiciente. Intorno al falò sedevano, in piccoli gruppi, parecchie persone: bevevano e acclamavano a gran voce un paio di guerrieri che lottavano davanti a loro, proiettando lunghe ombre danzanti sul terreno. Mentre Catone osservava la scena, uno dei due uomini fu sbalzato a terra e dagli spettatori si levò un boato.

Sulla sinistra, invece, c’era un recinto isolato. Il piazzale era attraversato da una palizzata interna, interrotta solo da un cancello, sui cui lati due bracieri creavano luminose pozze di luce. Vi si scaldavano quattro druidi armati di lunghe lance. A differenza dei loro alleati durotrigi, non bevevano e sembravano in allerta.

Catone riabbassò la testa nell’apertura.

«Torno subito. Aspetta qui!».

«Addio, romano».

«Tornerò», bisbigliò rabbiosamente Catone.

Con cautela si alzò e percorse la breve rampa che dalla palizzata scendeva tra i recinti degli animali. Quando vi passò accanto, alcune pecore lo guardarono con quel sospetto tipico di una specie legata all’uomo da una relazione stretta ma unilaterale di natura alimentare. A terra, nei pressi di un recinto, Catone vide un forcone di legno e si chinò a raccoglierlo. Il cuore gli batteva a ritmo folle e ogni tendine del suo corpo lo esortava a voltarsi e a fuggire. Dovette far appello a tutta la sua forza di volontà per proseguire, avanzando lentamente in direzione della grande zona recintata sorvegliata dai druidi, tenendosi quanto più lontano possibile dai contadini. Se qualcuno gli avesse parlato, sarebbe stato spacciato. Si fermò a ogni recinto come se stesse controllando gli animali, lanciando dentro di tanto in tanto del foraggio fresco. Se sulle prime gli animali rimanevano stupiti per quella razione extra di cibo, non tardavano poi a superare la sorpresa iniziale gettandovisi famelici.

Il cancello del recinto dei druidi era aperto: all’interno Catone scorse alcune capanne di dimensioni più ridotte e altri sacerdoti sistemati attorno a piccoli fuochi, tutti avvolti nei caratteristici mantelli neri. L’apertura, però, era angusta e di conseguenza anche la visuale era limitata. Catone si fece coraggio e iniziò ad avvicinarsi al cancello, spostandosi lungo la fila di gabbie fin quando si ritrovò a circa cinquanta passi dal vasto recinto. Di quando in quando arrischiava uno sguardo in direzione del cancello cercando di non dare nell’occhio. In un primo momento le sentinelle lo ignorarono, poi una di esse decise che Catone si stava soffermando troppo nei paraggi. L’uomo sollevò la lancia e s’incamminò lentamente.

Catone si voltò verso la recinzione più vicina, facendo finta di non avere notato la sentinella, e si chinò sul forcone. Il cuore, nel frattempo, sembrava impazzito, e lui si accorse di un certo tremore delle braccia che nulla aveva a che fare con il freddo. Avrebbe dovuto scappare a gambe levate, pensò: riusciva quasi a sentire la gelida punta di acciaio della lancia del druido che schizzava nell’oscurità e si conficcava nella sua schiena mentre lui fuggiva. Quel pensiero lo terrorizzò. E se la guardia gli avesse rivolto la parola? Il risultato sarebbe stato comunque lo stesso.

Sentì il rumore dei passi del druido, poi l’uomo lo chiamò. Catone chiuse gli occhi e deglutì, poi si voltò con aria indifferente. Quella sarebbe stata la vera prova del travestimento di Prasutago: in vita sua, Catone non si era sentito mai più romano di quel momento.

Arrivato a non più di dieci passi da lui, il druido gli urlò qualcosa e con la lancia puntò in direzione delle distanti capanne dei Durotrigi. Catone si rialzò e guardò, a occhi spalancati, stringendo la presa sul forcone. Il druido urlò di nuovo qualcosa e si incamminò rabbiosamente verso di lui. Quando Catone si fermò, fissando il suolo e tremando, quello lo fece voltare e gli diede un calcio sul sedere, spingendolo via dalla recinzione e verso i contadini che si stavano occupando di altri animali. Catone si allontanò carponi, e dalle altre guardie al cancello si levò un coro di risate. Alla vista dei suoi glutei, il druido gli scagliò dietro la lancia, mancandolo solo per un pelo quando Catone schizzò in piedi e corse via. L’uomo gli urlò ancora qualcosa alle spalle, scatenando un altro boato di risate tra i compagni, poi si voltò e tornò al suo posto.

Catone continuò a correre tra i recinti finché non fu sicuro di essere fuori della visuale dei druidi. A quel punto, si accovacciò e tentò di riprendere fiato, terrorizzato ma al tempo stesso eccitato dalla fuga. Non era stato difficile trovare il vasto recinto, ma adesso doveva trovare anche il modo per entrarvi. Si sollevò e, attraverso le nuvole di vapore dell’alito degli animali stipati, sbirciò al di là delle recinzioni, in direzione della zona dei druidi. Se la vista non lo ingannava, la palizzata sporgeva leggermente nascondendo il cancello. Se fosse riuscito ad avvicinarsi, costeggiando la base della recinzione principale della fortezza fin oltre la sporgenza, forse avrebbe trovato il modo di scavalcare la parete di legno, fuori dalla vista dei druidi di guardia al cancello.

Tornò quindi verso il canale di scolo fin quando non si trovò a circa duecento piedi dalle guardie. Il terreno attorno ai recinti degli animali era privo di erba ma coperto di fango. Catone si stese prono e, strisciando, iniziò ad aggirare lentamente il recinto dei druidi fino al punto in cui le gabbie degli animali si protendevano fin quasi a toccare la palizzata difensiva. Le assi di legno erano state accorciate e terminavano a filo con quelle della palizzata. Quello era l’unico punto in cui forse sarebbe riuscito a introdursi.

Continuò ad avanzare lentamente, evitando movimenti bruschi che potessero attirare l’attenzione delle guardie. Se l’avessero sorpreso di nuovo lì, non si sarebbero limitati allo scherno. Gli sembrò di metterci ore, ma alla fine superò la curvatura della sporgenza, fuori della visuale delle guardie, e pensò di potersi addirittura arrischiare in una corsa rapida verso l’angolo del muro. Lanciò un’ultima occhiata veloce agli uomini, poi si alzò e bruciò la distanza che lo separava dal punto in cui la sporgenza toccava la palizzata, accucciandosi immediatamente dopo nel buio che ne caratterizzava la base. Poi un’altra rapida occhiata. Sembrava non l’avessero visto. Risalì la superficie della palizzata difensiva e guardò all’interno del vasto recinto. Vide decine di druidi, molti più di quei pochi che stavano attorno al fuoco. Gran parte di essi dormiva a terra, e Catone suppose che dovessero esservene altri nelle capanne addossate al perimetro interno della palizzata. Molti erano svegli e lavoravano a strutture di legno non troppo dissimili dalle catapulte delle legioni. Era evidente che stavano costruendo singolari pezzi di macchine da guerra. Esaminò attentamente l’interno, ma la moglie e il figlio del generale potevano anche trovarsi in una qualsiasi delle tante capanne. Rifiutandosi di cedere alla disperazione, scrutò ancora una volta tra di esse. Stava quasi per darsi per vinto, quando finalmente individuò la gabbia. Davanti a una delle capanne più grandi, mezzo nascosta dall’ombra del tetto sporgente, c’era una piccola gabbia di vimini con pali di legno che ne sbarravano l’entrata. Dietro di essi, appena visibili alla pallida luce lunare, due visi osservavano i druidi al lavoro. Ai lati della gabbia, c’erano alcune guardie con le lance appoggiate a terra.

Alla vista dei poveri prigionieri Catone si sentì mancare. Non c’era modo di potersi avvicinare a loro, assolutamente nessun modo. Se avesse tentato di arrampicarsi e scavalcare la parete di legno, l’avrebbero sicuramente visto. E se invece, in virtù del più incredibile dei prodigi, fosse riuscito a passare inosservato, come avrebbe potuto fare poi, da solo, a tirarli fuori dalla gabbia? Il destino aveva ritenuto opportuno farlo arrivare fin lì, ma quello era tutto.

Ridiscese a terra, consapevole che non c’era modo di raggiungere gli ostaggi senza finire ucciso a sua volta. Sebbene avesse sempre saputo che si trattava di un’impresa impossibile, averne la conferma definitiva era comunque difficile da accettare. Aveva le mani legate. Doveva andarsene all’istante.

Tornò al canale di scolo con la stessa cautela dell’andata, e quando fu sicuro di non essere visto, si chinò all’interno dell’apertura.

«Prasutago…», bisbigliò.

Dal pendio un’ombra emerse e si mosse verso di lui. Quando il guerriero iceno si fu posizionato sotto il buco, Catone vi si lasciò cadere dentro, ma mancò la presa e capitombolò verso il canale. Una mano forte si chiuse attorno alla sua caviglia e lo bloccò a un palmo dagli escrementi e dall’urina che colavano giù dalle pareti ripide del canale. Con uno strattone, Prasutago lo tirò di nuovo sull’erba e un istante dopo gli crollò accanto.

«Grazie», disse Catone col fiato corto. «Ho veramente pensato di ritrovarmi con la merda fino al collo».

«Tu trovati?»

«Sì», rispose mesto. «Li ho trovati».