CAPITOLO TRENTUNO

Quando Catone e Boudicca raggiunsero la fossa in cui Prasutago li attendeva, il margine del cielo notturno iniziava già a essere rischiarato dalla pallida luce dell’alba. Avevano lasciato il cavallo di Boudicca legato a un albero nei pressi della miniera con una sacca piena di foraggio. I due iceni si scambiarono un caloroso abbraccio, sollevati di sapere che entrambi erano sani e salvi. Anche se questa era un’idea azzardata, rifletté Catone: essere accampati in un bosco ad appena un miglio da un terribile nemico non poteva certo considerarsi salvezza.

Boudicca accettò di buon grado del maiale freddo, ma lo annusò bene prima di addentarlo.

«Quanto è vecchio questo delizioso bocconcino?»

«Di quasi tre giorni. Dovrebbe essere ancora mangiabile».

«Be’, sono affamata, perciò grazie». Staccò una striscia di carne grigia e masticò. «Dunque, passiamo alle mie notizie. Perdonatemi se parlerò mentre mangio».

«Nessun problema», annuì Catone impaziente.

«Sono riuscita a raggiungere un villaggio atrebate la stessa notte in cui siamo partiti. Mi hanno detto che qualche ora prima, quello stesso giorno, era passato di lì un esercito romano. Sembravano abbastanza impressionati. Ad ogni modo sono ripartita immediatamente e solo qualche ora dopo abbiamo raggiunto Vespasiano. La Seconda Legione si sta dirigendo verso la Grande Fortezza. Vespasiano ha intenzione di raderla al suolo all’inizio della campagna come monito per altri eventuali Durotrigi a cui venga in mente di opporgli resistenza in ulteriori fortezze».

«Mi sembra sensato», disse Catone, «e colpirà duro. Ma Macrone come sta?»

«Macrone è stato portato immediatamente nell’ospedale da campo».

«È ancora vivo?»

«Per ora sì. Il capo chirurgo non sembrava nutrire molte speranze, ma penso che sia sempre così», continuò velocemente Boudicca quando notò lo sguardo di Catone. «Vespasiano è stato felicissimo di vedere la figlia del generale, ma poi mi ha mostrato una cosa che era stata legata a una freccia lanciata contro la porta del forte appena dopo il calar della notte…». Boudicca si fermò.

«Continua».

«Era un dito, un piccolo dito, e sulla striscia di tessuto che lo teneva legato alla freccia c’era un messaggio da parte dei druidi della Luna Nera. L’ha tradotto uno dei soldati locali della legione. Diceva che il dito era stato tagliato al figlio del generale come deterrente contro ulteriori tentativi di salvataggio».

Catone si sentì nauseato. «Capisco», mormorò.

«No, non capisci. Plauzio aveva ordinato a Vespasiano di mozzare immediatamente la testa del prigioniero druido più anziano, se fosse stato fatto del male alla sua famiglia, e di inviarla ai Durotrigi; gli altri avrebbero dovuto essere uccisi uno alla volta a intervalli di due giorni, e le teste inviate indietro finché non fosse stato liberato ogni membro ancora in vita della famiglia del generale».

«Li ucciderebbero nel momento stesso in cui arrivasse la prima testa, non è vero?»

«Se sono fortunati».

«E Vespasiano ha eseguito l’ordine?»

«Non ancora. Ha inviato la figlia del generale alla legione con una richiesta di conferma dell’ordine».

«Conferma che Plauzio darà immediatamente dopo aver ascoltato la storia dalla bambina».

«Già, immagino che possa reagire così».

Catone fece un rapido calcolo. «Questo accadeva due giorni fa. Considerando due giorni perché il messaggio arrivi al generale e lui confermi l’ordine, poi un altro perché la testa venga consegnata… significa che abbiamo due giorni, tre al massimo. Non di più».

«È quello che penso anch’io».

«Oh, perfetto…». Catone abbassò lo sguardo sulle sue mani giunte e poi riprese a parlare con aria pensierosa. «A meno che Vespasiano non ritardi l’esecuzione degli ordini».

«Potrebbe», concordò Boudicca. «Ma penso che abbia altri piani. La vostra Seconda Legione arriverà a ridosso delle mura della fortezza tra due giorni. Io penso che abbia intenzione di attaccare e distruggerla il più velocemente possibile, salvando egli stesso la famiglia del generale».

Catone era scioccato. «Ma i druidi non lo permetteranno mai. Uccideranno gli ostaggi appena le loro mura verranno violate, e non troveremo che cadaveri».

Boudicca annuì. «Ma quale altra scelta gli rimane? Morirebbero in ogni caso». Guardò Catone. «A meno che qualcuno non si introduca lì dentro e non li tiri fuori prima che arrivi la legione».

Catone la fissò di rimando. Al pari di Vespasiano, neanche lui aveva possibilità di scelta.

«Dobbiamo tentare. Deve pur esserci un modo per entrare e Prasutago sicuramente lo conosce».

Sentendo il suo nome, il guerriero iceno sollevò la testa. Incapace di seguire la conversazione tra i due, aveva continuato a fissare le fiamme, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata contenta a Boudicca. Quest’ultima lo guardò e gli spiegò nella loro lingua.

Prasutago scosse la testa con decisione. «Na! No entrata».

«Deve pur esserci qualcosa!», insistette Catone in tono disperato. «Che so, una piccola apertura, una qualsiasi cosa. Un modo qualunque per superare la palizzata. Ci serve solo questo».

Prasutago guardò l’optio, confuso dall’espressione di assoluto sconforto che quello aveva in faccia.

«Ti prego, Prasutago. Ho dato la mia parola: se esiste un modo per entrare, devi portarmi lì e poi continuerò da solo».

Dopo che Boudicca ebbe tradotto, l’iceno rifletté qualche istante, sputò tra le fiamme e annuì lentamente prima di rispondere alla cugina.

«Dice che un modo per entrare potrebbe esserci: lo scolo di una fogna sul versante opposto dell’accesso principale della fortezza. Pensa che si possa risalire il canale ed entrare. Ti ci porterà domani notte, ma questo è tutto. Poi dovrai vedertela da solo. Lui ti aspetterà all’imboccatura del canale, ma appena sentirà confusione, se ne andrà».

«Va bene», accettò Catone. «Digli che gli sono grato».

Prasutago scoppiò a ridere quando Boudicca tradusse.

«Dice che non vuole gratitudine da un uomo che sta accompagnando a morire».

«Ringrazialo comunque».

Catone sapeva che i rischi che correva erano agghiaccianti. Potevano essere scoperti mentre risalivano il vallo, il canale di scolo poteva essere sorvegliato, soprattutto dopo il tentativo di salvataggio al carro. E una volta dentro, poi? Dove sarebbe andato a cercare in quella immensa fortezza piena di Durotrigi e di druidi della Luna Nera? Se anche fosse riuscito a passare inosservato e avesse trovato la moglie e il figlio del generale, sarebbe comunque stato in grado di liberarli da solo e di portarli in salvo dal centro della più grande fortificazione nemica?

Se fosse stato più razionale, Catone avrebbe immediatamente bocciato l’idea. Ma aveva dato la sua parola a Pomponia. Aveva visto il terrore negli occhi del bambino. Era stato testimone delle terrificanti atrocità che i druidi della Luna Nera avevano inflitto a Diomede e al pacifico villaggio di Noviomagus. L’immagine del viso del bambino biondo – rimasta nascosta nella sua memoria per giorni e giorni – riemerse, fredda e supplichevole. E poi c’era Macrone, tutto tranne che morto, che non avrebbe esitato a dare la propria vita per salvare la famiglia del generale.

Il peso morale di tutto ciò che aveva visto e provato era schiacciante. Il raziocinio non aveva nulla a che fare con ciò: era spinto da una pulsione ben più forte. Non esisteva ragione al mondo, rifletté cupamente, solo un infinito mare di spinte irrazionali che mutava con il mutare del moto ondoso e che muoveva i propri relitti umani a suo unico piacimento. Non poteva rinunciare a un ultimo tentativo di salvataggio della moglie e del figlio del generale, come non poteva accarezzare la faccia della luna semplicemente allungando una mano.

Il mattino seguente, Catone si alzò e iniziò a prepararsi al suo destino. Masticò la sua ultima porzione di carne fredda di maiale con aria intontita e poi si arrampicò in cima alla collina. Altri guerrieri durotrigi erano in marcia verso la fortezza; ne prese nota su una tavoletta di cera che portava nella sacca: erano informazioni che sarebbero forse tornate utili a Vespasiano se lui non avesse fatto ritorno. Gliele avrebbe consegnate direttamente Boudicca.

Mentre quest’ultima approfittava del suo turno nell’albero, Prasutago sparì misteriosamente e Catone si chiese se il guerriero iceno non avesse più il coraggio di affrontare l’impossibile operazione di quella notte. Ma nel momento stesso in cui lo pensava, Catone sapeva che non era così. Prasutago si era sempre dimostrato un uomo di parola: se aveva detto che l’avrebbe accompagnato al canale di scolo della fortezza, non avrebbe mancato di farlo.

Poco prima che il sole scendesse oltre la linea degli alberi e immergesse la foresta nel buio, Prasutago finalmente riapparve portando con sé una sacca piena di radici e foglie. Accese un piccolo fuoco e mise a bollire le piante nel suo pentolino, producendo un odore intenso che irritò le narici di Catone. Boudicca si avvicinò a loro.

«Cosa sta facendo?», chiese Catone indicando con un cenno della testa la miscela in infusione.

Boudicca parlò brevemente con Prasutago e poi rispose. «Sta preparando una tintura. Se devi entrare nella fortezza, devi confonderti con gli altri. Prasutago ti dipingerà e poi ti metterà la calce sui capelli».

«Cosa?»

«O così o ti fanno fuori appena ti vedono».

«E va bene», si placò Catone.

Alla luce e al tepore del fuoco, Catone si sfilò la tunica e rimase con il solo perizoma addosso; Prasutago gli si inginocchiò davanti e iniziò a disegnargli sul busto e sulle braccia delle spirali azzurre, completando poi il lavoro con dei motivi ancor più intricati sul viso, dipingendo con una concentrazione che Catone non gli aveva mai visto prima. Mentre l’iceno continuava il lavoro, Boudicca aveva nel frattempo preparato la calce e iniziò a spalmargliela in testa. Al primo bruciore sullo scalpo Catone si ritrasse, sforzandosi poi di rimanere immobile quando lei sbuffò in segno di rimprovero.

Alla fine i due iceni si allontanarono da lui e ammirarono la loro opera.

«Allora, come sono venuto?».

Boudicca rise. «Per quanto mi riguarda, saresti un celta grandioso».

«Grazie. Adesso possiamo andare?»

«Non ancora. Togliti il perizoma».

«Cosa?»

«Mi hai sentito. Devi avere l’aspetto di un guerriero. Porterai solo il mio mantello, nient’altro».

«Non ricordo di aver mai visto Durotrigi andare in giro completamente nudi. Non credo sia la norma».

«È vero, ma è iniziata la primavera, il periodo che noi celti chiamiamo della Prima Germogliatura. Nella maggior parte delle tribù gli uomini girano nudi per dieci giorni in onore della Dea della Primavera».

«E naturalmente gli Iceni fanno eccezione», disse Catone guardando Prasutago.

«Naturalmente».

«Un po’ guardona, questa dea».

«Le piace scovare dei talenti», spiegò Boudicca scherzosamente. «In alcune tribù, ogni anno un giovane viene scelto per il suo aspetto per diventare lo sposo della dea».

«E cosa accade?»

«I druidi gli tagliano via il cuore e lasciano che il suo sangue fecondi le piante attorno all’altare della dea». Boudicca sorrise di fronte all’espressione di orrore di Catone. «Tranquillo, ho detto in alcune tribù, quelle più selvagge. Cerca solo di non apparire troppo bello».

«Esistono forse tribù più selvagge dei Durotrigi?»

«Oh sì. Quelli sulla collina non sono niente in confronto ad alcune tribù del nord-ovest. Penso proprio che voi Romani ve ne accorgerete a tempo debito. E adesso, via il perizoma».

Catone lo slacciò e, guardando imbarazzato Boudicca, lo lasciò cadere. Lei non poté fare a meno di sbirciare in basso e poi sorrise. Al suo fianco, Prasutago ridacchiò e bisbigliò qualcosa all’orecchio della cugina.

«Cos’ha detto?», chiese furioso Catone.

«È curioso di sapere se le donne romane sentono qualcosa quando lo fanno».

«Ah sì?»

«Adesso basta, ragazzi. Avete un lavoro da fare. Ecco il mantello, Catone».

Catone prese il mantello e le consegnò il perizoma. «Abbine cura».

Agganciò la fibbia del collo mentre Prasutago lo ispezionava per un’ultima volta.

L’iceno annuì e gli diede una pacca sulla spalla.

«Andiamo!».