CAPITOLO TRE

«Accidenti!», trasalì Nessa. «Adesso siamo veramente nei guai».

Mentre Prasutago guardava in cagnesco ogni avventore, nella locanda calò il silenzio: pur non perdendolo mai di vista, nessuno osava incrociarne lo sguardo. Catone guardò alle spalle del gigante iceno. Nell’angolino accanto alla porta, Boudicca e Macrone erano fuori del campo visivo del nuovo arrivato; la ragazza fece rapidamente segno a Macrone perché si nascondesse sotto la panca. Lui, però, scosse la testa. Boudicca insistette puntando il dito verso il basso, ma non ci fu assolutamente verso di fargli cambiare idea. Macrone si mise a cavalcioni sulla panca, pronto ad affrontare il nuovo arrivato. Boudicca svuotò velocemente il boccale e si nascose, accucciandosi e schiacciandosi quanto più possibile alla parete, lontano da Prasutago. Nel farlo urtò il tavolo e il suo boccale cadde oltre il bordo, infrangendosi sul pavimento di pietra.

Prasutago tirò fuori un pugnale da sotto il mantello e girò su se stesso, pronto ad avventarsi contro qualunque nemico gli stesse arrivando di soppiatto alle spalle. Il guerriero iceno squadrò il fisico possente di Macrone quando questi si alzò in piedi e poi scoppiò in una fragorosa risata.

«Cos’hai da ridere?», gli ringhiò contro Macrone.

Nessa strinse il braccio di Catone e deglutì. «Il tuo amico è un pazzo!».

«No», sussurrò Catone. «È il tuo parente a essere in pericolo. Si è sbronzato di birra e ha fatto infuriare Macrone. Farebbe meglio a stare in guardia».

Prasutago mollò una pacca forte sulla spalla del centurione e disse qualcosa di conciliante nella sua lingua madre, poi ripose il pugnale sotto il mantello.

«Giù le mani!», ringhiò di nuovo Macrone. «Sarai pure un bastardo grande e grosso, ma io ho abbattuto uomini ben più robusti di te».

Il guerriero lo ignorò e si voltò verso gli altri clienti, riprendendo la ricerca dell’indomita parente. Nessa, che si era alzata in piedi per meglio osservare il confronto tra i due, non fu abbastanza veloce a riabbassarsi e sparire dalla vista.

«Aaah!», tuonò il gigante e si lanciò in avanti, spintonando rudemente chiunque si trovasse sui suoi passi. «Nessa!».

Prima di considerare se fosse saggio agire così, Catone si frappose tra i due, la mano sollevata per fermare il guerriero che si stava avvicinando.

«Lasciala stare!». La sua voce tremò non appena prese coscienza della stupidità di quell’atto.

Prasutago lo spintonò, afferrò Nessa per le spalle e, proprio come la ragazza aveva raccontato a Catone, iniziò a urlarle rabbiosamente contro. Catone si tirò su dal pavimento e si scagliò contro il britanno. Prasutago vacillò appena. Un istante dopo, una mano pesante colpì Catone su un lato della testa, il mondo divenne bianco e lui ricadde a terra come un sasso, privo di sensi.

Appoggiato alla porta, Macrone trasalì. «Mossa del tutto sconveniente, mio caro!». Si slanciò in avanti facendosi largo tra la folla in direzione del camino. Alle sue spalle Boudicca strisciò fuori da sotto la panca.

«Macrone! Fermati! Ti ucciderà».

«Deve solo provarci, il bastardo».

«Fermati! Ti prego!», e gli si gettò dietro cercando di afferrarlo per le spalle.

«Lasciami andare, donna!».

«Macrone, ti prego!».

Prasutago si accorse del trambusto dietro di lui e interruppe il rozzo trattamento che stava riservando a Nessa per lanciarsi un’occhiata alle spalle. Nello stesso tempo, spinse la ragazza lontano da sé e fece per girare la sua enorme stazza, vomitando fuori una valanga di parole con un misto di rabbia e sollievo. Macrone si arrestò a pochissima distanza dal gigante, guardandosi attorno in cerca di qualcosa da usare come arma per ridurre la sproporzione tra loro due. Raccolse una stampella caduta a terra accanto a un uomo svenuto e la tenne sollevata davanti a sé in orizzontale. Ma prima di poter fare qualsiasi mossa contro Prasutago, un colpo alla nuca lo stese: Boudicca lo aveva abbattuto con una caraffa di ceramica. Stordito e confuso, Macrone cercò di rimettersi a carponi.

«Rimani a terra!», gli sibilò Boudicca. «Rimani a terra e stattene tranquillo, se vuoi uscirne vivo».

Dopodiché la ragazza fece qualche passo verso il cugino, gli occhi infuocati e la bocca serrata in segno di indignazione. Prasutago continuò a urlare e ad agitare le sue enormi braccia. Boudicca gli arrivò davanti e gli mollò un ceffone in faccia, poi un altro e un altro ancora, finché la lingua dell’uomo si quietò e le braccia gli ricaddero immobili lungo i fianchi.

«Na, Boudicca!», protestò l’uomo. «Na!».

Boudicca lo schiaffeggiò un’ultima volta e gli puntò un dito in faccia, sfidandolo a dire ancora una parola. Con occhi ardenti e denti stretti, Prasutago non emise un suono. Gli altri avventori osservavano la scena in rapito silenzio, impazienti di conoscere gli sviluppi di quel confronto tra il gigantesco guerriero e la donna alta ed orgogliosa che lo aveva sfidato così impudentemente. Alla fine Boudicca riabbassò il dito. Prasutago annuì e le parlò a voce bassa facendo un leggerissimo cenno della testa in direzione della porta. Boudicca chiamò Nessa e le fece strada all’esterno. Prasutago indugiò un istante, guardando torvo gli altri presenti, sfidandoli a ridere di lui. Poi, dopo aver spinto da parte con un calcio l’optio prostrato, si precipitò fuori della taverna, inseguendo a passo sostenuto le ragazze sotto la sua tutela prima che riuscissero a svignarsela di nuovo.

Tutti gli avventori tennero gli occhi fissi sulla porta rimasta aperta, pensando che il guerriero sarebbe rientrato. Mentre il chiacchiericcio lentamente si rianimava, il vecchio oste gallo fece un cenno al suo guardaspalle che si mosse verso la porta per chiuderla. Poi, con aria indifferente, si avvicinò a Macrone.

«Tutto bene, amico?»

«Sono stato meglio». Macrone si sfregò la testa e sussultò. «Dannazione! Fa male!».

«Non mi sorprende. È una donna tutta d’un pezzo, quella».

«Oh, sì!».

«Ti ha salvato la pelle, comunque. A te e al tuo amico laggiù».

«Catone!». Macrone corse dall’optio che, tenendosi appoggiato a un gomito, scrollava la testa. «Sei ancora dei nostri?»

«Non ne sono del tutto sicuro. Mi sento come se mi fosse caduta addosso una casa».

«Ci sei andato vicino!», ridacchiò il muscoloso guardaspalle. «Quel Prasutago è uno che sa andarci pesante».

Catone sollevò lo sguardo. «Ah sì?».

Il gallo aiutò Catone a rimettersi in piedi e gli tolse la paglia dalla tunica.

«E adesso, signori, se non avete nulla in contrario, vi chiederei di lasciare immediatamente questo locale».

«E perché?», chiese Macrone.

«Perché te lo sto dicendo io, maledizione!», rispose il guardaspalle con un sorriso. Poi addolcendosi un poco: «Non azzuffatevi con un guerriero iceno di alto grado. Soprattutto se è ubriaco. Tremo al pensiero di cosa potrebbe accadere al locale del mio padrone se Prasutago dovesse tornare con un paio di amici e vi trovasse ancora qui».

«Pensi che potrebbe tornare?», chiese Catone, buttando un’occhiata nervosa verso la porta.

«Non appena capirà il collegamento tra le sue amiche e voi due. Per cui meglio non farvi trovare, no?»

«Giustissimo. Andiamo, Catone, cerchiamoci un altro posto dove bere».

Avvolgendosi i mantelli sulle spalle, Macrone e Catone si abbassarono sotto l’architrave e uscirono in strada. Il fascio di luce arancione che invase di traverso la neve nel vicolo sparì bruscamente non appena la porta fu richiusa alle loro spalle. Di Prasutago e delle due donne non v’era traccia lì fuori, ad eccezione delle impronte nervose lasciate sulla neve lungo il vicolo.

«E adesso?», chiese Catone.

«Conosco un altro posto. Non piacevole come questo, ma passabile».

«Non piacevole come questo…».

«Vuoi bere o no?»

«Sì, certo».

«E allora chiudi il becco e seguimi».

Sulle orme dell’esercito romano era giunta un’intera torma di venditori di piaceri e di vizi in grado di soddisfare ogni gusto. I lenoni fenici avevano allestito i loro postriboli itineranti nei quartieri più malfamati di Camulodunum. I prezzi convenienti di baracche e magazzini fatiscenti ne facevano allettanti acquisti da ristrutturare e decorare con scene che illustravano ciò che veniva offerto all’interno, con tanto di tariffario. I lenoni più ambiziosi arrivavano addirittura a smerciare alcol agli uomini in attesa del proprio turno. E questo aveva portato alla diffusione capillare di piccole mescite, tutte affamate di clientela. Inoltre c’erano i soliti ciarlatani e uomini di magia che assicuravano di poter curare qualsiasi malanno, dalla sifilide all’impotenza, nonché venditori ambulanti che proponevano una varietà infinita di merci: spade che non perdevano mai l’affilatura, amuleti che respingevano le frecce, coppie di dadi che magicamente facevano sempre sei, guaine profilattiche fatte con pregiatissimi tessuti di rivestimento dello stomaco di capretto. Catone conosceva bene quel tipo di ciarpame: i quartieri meno rispettabili di Roma erano affollati di venditori simili che offrivano gamme ben più ampie di piaceri carnali e rimedi miracolosi.

Macrone condusse Catone davanti a una bassa costruzione in legno ubicata in una stretta stradina in penombra, percorsa al centro da un rivolo di escrementi umani, una disgustosa striatura nera sulla neve smossa. All’interno dell’edificio, l’aria era resa pesante dal tanfo di dozzinali incensi diffusi appositamente per distrarre i clienti dagli altri odori ben più sgradevoli che si insinuavano nelle narici. I due legionari spinsero una porticina che si apriva in una stanzetta con un pavimento di doghe di legno. In giro erano sparpagliati tavoli e panche, e su due barili poggiava il bancone. Il titolare se ne stava tranquillamente seduto in compagnia di due delle sue meretrici, con l’espressione annoiata di chi le ha già viste tutte; essa mal si confaceva con gli sgargianti graffiti che decoravano le pareti con scene di uomini e donne sorridenti impegnati in esercizi anatomici di estrema complessità.

Solo due dei tavoli erano occupati da una manciata di legionari fermatisi per una bevuta appena finito il giro di ronda. Indossavano la nuova corazza, la lorica segmentata, ed erano riuniti attorno a una grossa brocca di vino. Nell’angolo più distante sedeva un gruppetto di sottufficiali della Seconda Legione. Uno di loro alzò gli occhi verso i nuovi arrivati e sul viso gli si aprì immediatamente un ampio sorriso.

«Macrone, amico mio!», esclamò, forse a voce fin troppo alta, tanto che il terzetto al bancone lo guardò con irritazione. «Vieni qui a bere con noi».

Mentre gli altri facevano posto, Macrone presentò i suoi compagni.

«Ragazzi, questo è il mio optio. Catone, questi zotici impregnati di alcol sono il nerbo del corpo ufficiali della legione. Sotto una fonte di luce più benevola, forse potresti anche riconoscere un paio di facce. Ti presento Quinto, Balbo, Scipione, Fabio e Parnesio».

Gli uomini alzarono gli occhi annebbiati e salutarono con un dondolio della testa. Era evidente che avevano già bevuto parecchio.

«Una cricca di bravi ragazzi», disse Macrone affettuosamente. «Abbiamo prestato servizio insieme prima di diventare centurioni. E questa è la prima volta che abbiamo l’occasione di una rimpatriata da quando anch’io sono stato promosso. Un giorno, se vivrai a lungo, pure tu ti unirai al nostro gruppo di centurioni, giusto, ragazzi?».

Mentre gli altri assentivano rumorosamente, Catone fece del suo meglio per non sembrare troppo sconvolto da quel quadretto e si servì da bere. Scoprì che si trattava di un’altra varietà di quello stesso vino aspro importato dalla Gallia, e trasalì quando il liquido gli scese in gola bruciando.

«Roba forte, eh?», sogghignò Balbo. «Proprio quello che ci vuole per prepararti a un corpo a corpo con una bella sgualdrina».

Catone non aveva nessuna intenzione di spingersi a tanto, se le donne al bancone erano effettivamente le professioniste che avevano tutta l’aria di essere. Tra l’altro, l’unica che aveva in mente era Lavinia e il solo modo per non pensare a lei in quel momento era bere.

Parecchi boccali di vino più tardi, Catone ebbe l’impressione che i suoi occhi continuassero a vorticare, incapaci di fermarsi, e quando tentava di chiuderli era anche peggio. Doveva concentrarsi su qualcosa, per cui spostò lo sguardo sul gruppo di legionari seduti all’altro tavolo e sulle loriche segmentate che indossavano.

Poi attirò l’attenzione di Macrone. «È roba buona quella, signore?»

«Roba? Quale roba?»

«L’equipaggiamento che indossano quei legionari. Invece delle maglie di ferro».

«Quella, ragazzo mio, è la nuova armatura che le legioni stanno adottando».

Parnesio sollevò la testa dalle braccia incrociate su cui l’aveva tenuta appoggiata fino a quel momento e urlò con tono da piazza d’armi: «Armatura complessa, a uso dei legionari! Roba di qualità, ragazzo».

«Ignoralo», bisbigliò Macrone a Catone. «Lavora con il quartiermastro».

«L’avevo intuito».

«Ehi, voi laggiù», esclamò Macrone in direzione dell’altro tavolo. «Unitevi a noi. Il mio optio vuole vedere le vostre nuove armature».

I legionari si scambiarono qualche occhiata e alla fine uno di loro rispose: «Non puoi dirci cosa fare. Abbiamo appena smontato».

«Non me ne frega nulla! Portate qui il culo», urlò Macrone. «Adesso, ho detto».

Uno dopo l’altro, gli uomini si alzarono dal tavolo con aria mansueta e si avvicinarono.

Rimasero in piedi accanto al tavolo degli ufficiali mentre questi esaminavano le loro armature con una certa curiosità.

«È facile da portare?», chiese Macrone, alzandosi dalla panca per osservare più da vicino.

«Abbastanza, signore», rispose il primo di loro che si era alzato. «Più leggera della cotta di maglia. E molto più resistente. È composta da placche rigide».

«Ha un aspetto orribile. Come fate a muovervi in quella roba?»

«È snodata, signore. Si adatta ai movimenti del corpo».

«Ma non mi dire…». Macrone diede uno strattone all’armatura e poi sollevò il mantello sul retro. «Tenuta da queste fibbie, capisco».

«Esatto, signore».

«Facile da infilare?»

«Sì, signore».

«Costosa?»

«Meno della maglia di ferro».

«Come mai voi della Ventesima siete gli unici ad averla? Non mi pare che abbiate tanto da combattere».

Quando il legionario si mostrò irritato per il commento poco rispettoso, gli ufficiali scoppiarono a ridere. L’uomo riuscì, seppur con difficoltà, a ritrovare sufficiente calma per rispondere. «Non lo so, signore. Sono solo un soldato semplice».

«Finiscila di chiamarlo signore», gli sibilò uno degli altri legionari. «Non siamo tenuti a farlo in questo momento».

«Non posso farne a meno».

«Smettila!», ribatté deciso l’altro legionario. «Altrimenti a che serve essere fuori servizio?»

«Tu!», disse Macrone, puntando un dito sul petto dell’uomo. «Tieni chiusa quella dannata bocca! Parlerai solo quando ti verrà chiesto di farlo. Mi hai capito?»

«Capito», rispose deciso l’uomo. «Ma non sono tenuto a obbedire agli ordini».

«Sì, invece, che lo sei!». Macrone gli sferrò un pugno nel ventre ma imprecò violentemente quando cozzò contro la nuova armatura. Con l’altra mano gli diede un pugno in faccia facendolo barcollare all’indietro addosso ai suoi compagni. Lo slancio fece girare su se stesso Macrone, che crollò sull’uomo che aveva appena colpito, ridendo fragorosamente.

«Bene, ragazzi. Bando alle gerarchie. Diamoci sotto!».

Ogni ufficiale, ad esclusione di Catone, balzò in piedi e si scagliò sui legionari i quali, come Catone, rimasero a guardare sbalorditi finché non cominciarono a piovere i primi colpi. A quel punto, riacquistata la lucidità sopita dall’alcol, i legionari reagirono all’attacco e la taverna si riempì del rumore di tavoli e panche fracassati. Il tenutario fece uscire in fretta e furia le sue ragazze dalla stanza.

«Avanti, Catone!», esclamò Macrone da sotto un legionario. «Buttati nella mischia!».

Alzandosi in piedi barcollante, Catone mirò al legionario più vicino e sferrò un pugno con tutta la forza che aveva. Mancò clamorosamente il bersaglio e finì invece contro il muro, scorticandosi malamente le nocche. Tentò di nuovo e questa volta il colpo centrò la tempia di uno degli uomini provocandogli un forte dolore. Poi Catone si accorse di un pugno che gli stava arrivando dritto in faccia e per la seconda volta quella sera il mondo diventò tutto bianco. Con un grugnito cadde in ginocchio, scuotendo la testa per tentare di mantenersi lucido. Riaperti gli occhi, vide un legionario in piedi davanti a lui con uno sgabello sollevato al di sopra della testa. Istintivamente Catone picchiò con la testa in avanti colpendolo all’inguine. All’impatto, il legionario si piegò su se stesso e si accartocciò su un fianco lanciando un grido di dolore, con entrambe le mani premute tra le gambe.

«Bel colpo, ragazzo», gli urlò Macrone.

Il colpo alla testa e l’eccessiva quantità di vino consumato fecero vacillare spaventosamente Catone. Quello tentò invano di rimettersi in piedi, ma tra le grida e il rumore di mobilio fracassato udì comunque dei passi pesanti che si avvicinavano.

«Soldati!», esclamò qualcuno. «Tutti fuori di qui!».

All’improvviso la zuffa terminò e tutti corsero verso il retro del bancone. La porta principale si aprì e spuntò un drappello di soldati in mantello nero. Macrone tirò su Catone e lo spinse in direzione della minuscola porta sul retro attraverso la quale si stavano dando alla fuga anche gli altri rissosi. In un turbine di immagini, Catone si ritrovò all’esterno, in strada, lanciato in una corsa goffa dietro a Macrone. Il centurione si staccò dal gruppo e si diresse zigzagando giù per un vicolo. Quando Catone si rese conto di averne perso le tracce, i rumori dei suoi inseguitori erano ormai svaniti. Allora si fermò e si appoggiò contro una paratia di legno cercando furiosamente di riprendere fiato. Il mondo gli vorticava attorno causandogli un senso di nausea, e Catone desiderò disperatamente di vomitare. In gola, però, non gli affluì altro che bile.

«Macrone!», chiamò. «Macrone!».

Poco distante si sentì un urlo e il clangore di armature si fece sempre più forte.

«Dannazione! Cosa ho combinato?».

Una mano gli afferrò il braccio e lo strattonò di lato, attraverso una porta e nel buio all’interno di un edificio. Poi qualcosa lo colpì forte allo stomaco facendolo cadere in ginocchio e lasciandolo senza fiato. All’esterno, si udirono alcuni passi scricchiolare sulla neve e poi svanire in lontananza.

«Mi spiace», disse Macrone, aiutando Catone a rialzarsi. «Ma dovevo chiuderti la bocca per un attimo. Non volevo farti male. Tutto a posto?»

«N-no!», boccheggiò Catone. «Sto male!».

«Tieniti il dolore per dopo. Abbiamo di meglio da fare, adesso. Andiamo».

E lo spinse dentro una porta, all’interno di una piccola stanza illuminata da un solo lume. Su letti dall’aspetto trasandato erano sedute due donne che sorrisero non appena Macrone spuntò dalla porta.

«Catone, queste sono Broann e Deneb. Salutale».

«Salve, ragazze», biascicò Catone. «Chi sono?»

«Non lo so, a dire il vero. Le ho appena incontrate. Si dà il caso che le signorine adesso siano libere, per cui Broann è mia. Tu prenditi Deneb. Divertiti».

Macrone si diresse verso Broann, che gli sorrise con consumato calore, ma con effetto miseramente rovinato dalla sfilza di denti mancanti sul davanti. Strizzando l’occhio a Catone, Macrone si ritirò dietro una tendina a brandelli con Broann.

L’optio si voltò verso Deneb e vide una donna con il viso talmente truccato da rendergli impossibile intuirne l’età. Alcune rughe all’angolo della bocca facevano pensare che avesse quasi il doppio degli anni del suo cliente. La donna sorrise e prese Catone per le mani, tirandolo verso di sé sul letto. Quando Catone le si inginocchiò tra le gambe, Deneb sollevò una mano sulla tunica di seta aprendola per tutta la lunghezza del corpo, rivelando un paio di enormi seni con capezzoli marrone scuro e un rado cespuglio di peli pubici. Catone la guardò dall’alto in basso per qualche istante. Lei gli fece cenno di avvicinarsi: mentre il ragazzo si chinava sulle sue labbra imbellettate di porpora, il vino ebbe definitivamente la meglio e Catone cadde in avanti privo di sensi.