CAPITOLO VENTI
Al risveglio, Catone aveva un fastidioso mal di testa che gli pulsava sulla fronte. Fuori era ancora buio e solo un piccolo spiraglio indicava che il lembo della tenda era stato abbassato, ma non legato. Ignaro di che ora fosse, chiuse gli occhi e tentò di riprendere sonno. Tutto inutile: da un angolo remoto della coscienza continuavano ad affollarsi in superficie pensieri e immagini che non potevano essere ignorati. Non si era ancora ripreso dalle notti insonni di marcia e di battaglia e adesso si sarebbe imbarcato in quella nuova folle impresa, quando invece avrebbe dovuto riposare.
Nonostante l’agitazione causata dal lungo incontro della sera precedente, non appena si era raggomitolato sotto la coperta la stanchezza lo aveva colto come un fulmine. Gli altri uomini della sua unità erano già crollati da tempo e Figulo, come al solito, brontolava chissà cosa nel sonno.
Quando quel mattino i soldati della Sesta Centuria si sarebbero alzati, il loro comandante e l’optio sarebbero già stati lontani dal campo. Ciò avrebbe comunque costituito il più irrilevante dei cambiamenti che li attendevano: sarebbe stato l’ultimo mattino in cui si sarebbero svegliati come compagni della stessa unità. La Sesta Centuria, infatti, doveva essere smembrata e ciò che rimaneva dei suoi uomini ridistribuito in altre unità della coorte per sopperire alle perdite subite.
Macrone ne era rimasto mortificato quando Vespasiano l’aveva informato. Da quando era stato promosso, la Sesta era sempre stata la sua centuria, e in lui erano maturati l’orgoglio e il senso di protezione incrollabili che caratterizzavano gli ufficiali al primo comando. Dallo sbarco in Britannia, lui e i suoi uomini avevano combattuto fianco a fianco numerose battaglie sanguinose e accanite schermaglie. Molti erano rimasti uccisi, altri erano stati mutilati e rispediti a casa a Roma in congedo anticipato. I vuoti delle file erano stati riempiti con nuove reclute. Ne rimanevano ben pochi degli ottanta volti che Macrone aveva originariamente passato in rassegna sulla piazza d’armi un anno e mezzo prima. Ma mentre gli uomini andavano e venivano, la centuria, la sua centuria, aveva resistito e Macrone era arrivato a considerarla un’estensione del proprio corpo, reattiva alla sua volontà; ed era orgoglioso della sua efficienza come macchina da guerra in battaglia. Perdere la Sesta Centuria era come perdere un figlio, e Macrone si sentiva amareggiato e defraudato.
«Del resto, però, cos’altro si può fare?», aveva riflettuto con lui il legato. La Sesta non poteva restare senza comandante e attendere che lui facesse ritorno, e le altre centurie avevano bisogno di rimpiazzi esperti. Il generale Plauzio aveva già attinto a tutto il contingente destinato alle legioni in Britannia e per i mesi a venire non era previsto l’arrivo di altri uomini. Al termine della sua missione e al suo ritorno, Macrone avrebbe avuto il primo posto di comando disponibile.
Catone l’aveva guardato e questi, dispiaciuto, si era stretto nelle spalle. L’esercito non aveva alcun rispetto delle squadre affiatate, e c’era poco da fare se il legato aveva già deciso.
«Cosa ne sarà del mio optio?», aveva chiesto Macrone. «Se dovessimo riuscire a tornare».
Vespasiano aveva guardato il giovane alto e magro per un istante e poi aveva annuito. «Non sarà abbandonato. Forse una nomina temporanea tra i miei collaboratori personali in attesa di un posto vacante nella lista degli optiones».
Catone aveva fatto il possibile per nascondere la propria delusione: essere assegnato a una centuria diversa da quella di Macrone non era una prospettiva molto allettante. Aveva impiegato mesi per conquistarsi il riluttante rispetto del centurione e per dimostrargli di meritarsi il grado di optio. Quando era entrato nella legione quale ex schiavo imperiale, Catone era stato bersaglio di amaro risentimento e gelosie per quella improvvisa promozione, della quale doveva essere grato all’imperatore in persona. Il padre di Catone aveva svolto con gran merito il proprio servizio per l’imperatore, e alla sua morte Claudio aveva affrancato il ragazzo inviandolo nelle aquile con una generosa spinta sul primo gradino della scala delle promozioni. Era stato ovviamente un gesto in buona fede, ma una persona così in alto come l’imperatore non poteva minimamente sospettare quale rancore fosse riservato, alla base della piramide sociale, ai casi di sfacciato nepotismo.
Catone non ricordava molto volentieri le sue iniziali esperienze di vita nella Seconda Legione: la severa disciplina degli istruttori, imposta a lui più duramente che su tutte le altre reclute; le angherie da parte di un crudele ex detenuto di nome Pulcher; e, forse la cosa peggiore fra tutte, l’aperta disapprovazione da parte del suo stesso centurione. Questo l’aveva ferito molto più di qualsiasi altra cosa e spronato a dare dimostrazione del proprio valore in ogni possibile occasione. Ora, la lotta perché i suoi meriti fossero riconosciuti sarebbe iniziata di nuovo da capo. Inoltre, Catone nutriva un certo rispetto personale per Macrone, al fianco del quale aveva combattuto le peggiori battaglie della campagna. Non sarebbe stato facile adeguarsi al carattere di un altro centurione.
Vespasiano aveva notato l’espressione dell’optio e aveva anche tentato di offrirgli parole di conforto. «Non ti preoccupare. Non puoi certo rimanere per sempre un optio. Prima di quanto tu possa pensare, avrai una centuria tutta tua».
Quelle parole avrebbero dovuto risvegliare le ambizioni più segrete dell’optio, Vespasiano non aveva dubbi. Tutti i giovani che aveva conosciuto nutrivano sogni di gloria e ambivano a una promozione, per quanto sapessero che difficilmente erano realizzabili. Quel ragazzo, però, avrebbe potuto farcela sul serio. Aveva dato dimostrazione di coraggio e intelligenza, e con un piccolissimo aiuto da parte di qualcuno abbastanza in alto, avrebbe certamente servito bene l’impero.
Giacché le probabilità che lui o Macrone potessero far ritorno alla Seconda Legione erano assai scarse, le gentili parole di Vespasiano suonavano vane. Erano trite espressioni di incoraggiamento che tutti i comandanti dispensano a coloro che si apprestavano ad affrontare una morte certa, e Catone si disprezzava per essersi momentaneamente lasciato abbindolare dall’astuzia del legato. E l’amarezza di quel pensiero continuò a logorarlo per tutta la notte.
«Stupido che non sei altro!», borbottò tra sé e sé, rigirandosi nel sacco a pelo imbottito di felci. Si tirò la pesante coperta militare sulla testa, stringendola forte a sé per tener lontano il freddo. Tentò di nuovo di prendere sonno, allontanando dalla sua mente tutti i pensieri, e ancora una volta la trappola dell’insonnia lo riportò all’incontro della sera precedente.
La sorpresa di vedere Boudicca e il suo pericoloso cugino si era riflessa sui volti del generale Plauzio e di Vespasiano non appena si erano resi conto che i nuovi arrivati erano già noti al centurione e al suo optio.
«Vedo che vi conoscete già», sorrise Plauzio. «Questo dovrebbe semplificare le cose».
«Non ne sono del tutto sicuro, signore», rispose Macrone, esaminando circospetto il guerriero britanno che lo sovrastava. «L’ultima volta che ci siamo visti, Prasutago non sembrava avere molta simpatia per i Romani».
«Davvero?». Plauzio fissò serio Macrone. «Non ha molta simpatia per i Romani o per te?»
«Signore?»
«Devi sapere, centurione, che quest’uomo si è offerto volontariamente di aiutarci in qualsiasi modo. Quando ho informato gli anziani iceni che la mia famiglia era stata fatta prigioniera, lui si è presentato e si è proposto di fare tutto il possibile per salvarli».
«Vi fidate di lui, generale?»
«Devo. Ho forse un’altra scelta? E tu lavorerai gomito a gomito con lui. È un ordine».
«Pensavo che ci fossimo offerti volontari, generale».
«È vero, e ora che lo avete fatto, obbedirete ai miei ordini. Dovrete collaborare totalmente con Prasutago. Lui conosce il Paese e gli usi e i costumi dei Durotrigi, nonché molti dei rituali e dei luoghi segreti dei druidi della Luna Nera. È l’uomo migliore che potessimo avere dalla nostra. Quindi seguilo e fai molta attenzione a ciò che ti dice, o meglio a ciò che questa donna tradurrà per voi. Sembra che conosciate già anche lei».
«Potremmo dire così, generale», rispose tranquillamente Macrone, facendo un cenno formale in direzione di Boudicca.
«Centurione Macrone», ricambiò lei. «E il tuo affascinante optio».
«Boudicca». Catone deglutì nervosamente.
Prasutago squadrò Macrone con aria truce per qualche istante, poi afferrò una delle coppe di vino del legato tracannandolo con tale velocità da far traboccare il liquido rosso, che gli colò sui lunghi e folti baffi biondi.
«Pittoresco», mormorò Vespasiano, inarcando preoccupato le sopracciglia quando il britanno tornò alla brocca per un terzo giro.
«Giacché sembra che non abbiate nulla in contrario…». Boudicca raggiunse Prasutago e si riempì la coppa fino all’orlo. «Al nostro ritorno sani e salvi».
Si portò il recipiente alle labbra e bevve fino all’ultima goccia, poi lo riappoggiò sul tavolo con un tonfo, sogghignando davanti alle facce scandalizzate del generale e del legato. Quello era un mondo lontanissimo dai cerimoniosi codici di comportamento che loro due erano abituati a tenere in compagnia delle donne romane di estrazione più elevata.
Prasutago mormorò qualcosa e fece cenno a Boudicca di tradurre.
«Dice che il vino non è male».
Vespasiano fece un sorriso stentato e si sedette.
«Dunque, al bando le formalità. Non ci rimane molto tempo. Centurione, cercherò di fornirvi tutte le informazioni e le istruzioni possibili, e poi dovrete riposarvi. Ho fatto preparare cavalli, provviste e armi così che possiate lasciare il campo prima dell’alba. È importante che nessuno veda che ve ne state andando. Viaggerete soprattutto di notte e rimarrete accampati durante il giorno. Se doveste incontrare qualcuno, avrete bisogno di una copertura. La cosa migliore che potreste dire è che siete una piccola compagnia itinerante. Prasutago farà la parte del lottatore dai muscoli d’acciaio che si cimenta in sfide di forza dietro compenso. La donna sarà sua moglie e voi due una coppia di schiavi greci, ex soldati acquistati come guardie del corpo in un Paese così selvaggio. Le tribù della Britannia meridionale sono abituate al viavai di mercanti, commercianti e circensi».
Un’immagine delle vittime massacrate nel villaggio messo a ferro e fuoco balenò davanti agli occhi di Catone. «Chiedo scusa, signore, ma considerato il modo in cui trattano gli Atrebati, cosa vi fa pensare che non possano ucciderci senza farsi tanti scrupoli?»
«Convenzioni tribali: non si piscia sulla soglia di casa propria. Si può mettere a ferro e fuoco i villaggi di altre tribù, ma non si scoraggia il commercio con l’esterno. È così che funziona presso le tribù ai margini dell’impero. Ad ogni modo, il tuo timore è fondato. I druidi in questo sono un’incognita. Non possiamo sapere come potrebbero comportarsi i Durotrigi sotto la loro influenza. Prasutago sa perfettamente come gestire ogni situazione in cui vi potrete trovare. Osservatelo bene e seguite il suo esempio».
«L’ho osservato bene già abbastanza a lungo», disse Macrone.
«Pensate veramente che possa funzionare, generale?», chiese Catone. «Non ritenete che i Durotrigi possano essere un po’ sospettosi nei confronti degli stranieri, adesso che hanno un esercito romano accampato proprio davanti alla porta di casa?»
«Ammetto che a un occhio attento la copertura potrebbe anche non reggere, ma almeno guadagnereste del tempo. E poi Prasutago potrebbe confondere le idee. In ogni caso, tu e l’optio fatevi vedere il meno possibile e lasciate che siano Prasutago e Boudicca ad avvicinarsi ai Durotrigi o a qualsiasi villaggio incontrerete. Cercheranno notizie della mia famiglia. Seguite ogni pista, per quanto possibile, e trovatela».
«Avevo capito che ci rimanevano una ventina di giorni prima dello scadere dell’ultimatum dei druidi».
«Sì, esatto, ma se verrà superato il termine… e se sarà accaduto il peggio, vorrei poter almeno dar loro un funerale dignitoso, anche se tutto ciò che ne rimarrà dovesse essere cenere e ossa».
Una mano afferrò la spalla di Catone e la scosse rudemente. L’optio sbatté le palpebre e il suo corpo si irrigidì per quella sveglia improvvisa.
«Shh!», gli sibilò Macrone nel buio. «Non fare rumore! È ora di andare. Hai preso il tuo equipaggiamento?».
Catone annuì, rendendosi poi conto che era troppo buio perché il centurione riuscisse a vederlo. «Sì».
«Bene, allora andiamo».
Ancora stanco e riluttante ad abbandonare il relativo tepore della tenda, Catone uscì all’esterno rabbrividendo e trascinandosi dietro il fagotto che si era preparato prima di mettersi a dormire. In una tunica di riserva aveva avvolto l’armatura a maglie e la pettorina di cuoio, la spada e il pugnale. Elmo, scudo e tutto il resto li avrebbero recuperati quelli del quartier generale e tenuti al sicuro da eventuali furti fino al loro ritorno. Catone aveva pochi dubbi che in un futuro molto prossimo quegli oggetti sarebbero diventati proprietà di qualcun altro.
Mentre seguiva Macrone tra le tende scure in direzione delle stalle, la paura di ciò che li aspettava iniziò a far vacillare la sua determinazione a intraprendere la missione. La tentazione di inciampare volutamente su un cavo di ritegno e fingere una distorsione alla caviglia era forte. Con quel buio sarebbe passata come una scusa credibile. Ma poteva immaginare benissimo i dubbi sprezzanti che Macrone e il legato avrebbero iniziato a nutrire, se non addirittura a manifestare apertamente. Questo scenario umiliante lo convinse a desistere dal piano e a fare più attenzione a dove metteva i piedi per evitare che l’incidente potesse accadere sul serio. Inoltre, non poteva lasciare che Macrone se ne andasse alla cieca nel cuore del territorio nemico con Prasutago e Boudicca come unici compagni di viaggio. Sarebbe stato fin troppo facile per il guerriero iceno sgozzarlo nel sonno. Non così facile, però, se si fossero alternati per farsi la guardia a vicenda. Non c’era modo per tirarsene fuori, concluse tristemente. Se solo Macrone non fosse stato così rude con il generale, lui non sarebbe dovuto intervenire. E adesso, grazie al centurione, erano tutti e due pronti per il massacro.
Rimuginando silenziosamente tra sé e sé, Catone dimenticò di fare attenzione a dove metteva i piedi, il cavo di una tenda gli intralciò uno stinco e lui cadde a terra di testa con un urlo secco. Macrone si voltò di scatto.
«Zitto, dannazione! Vuoi svegliare tutto l’accampamento?»
«Scusatemi», sussurrò Catone mentre si rialzava in piedi con il pesante fagotto tra le braccia.
«Non dirmi che ti sei storto una caviglia».
«No, certo che no!».
All’interno di una tenda qualcuno si mosse. «Chi va là?»
«Nessuno», rispose brusco Macrone. «Torna a dormire… andiamo, ragazzo, e guarda dove cammini».
Davanti al recinto per i cavalli, una luce baluginava dentro la grande tenda in cui erano conservati finimenti, selle e armi della cavalleria. Catone seguì Macrone all’interno, infilandosi tra i lembi dell’ingresso e ritrovandosi nella fioca luce di una lucerna a olio. Prasutago, Boudicca e Vespasiano li attendevano lì.
«Meglio che vi cambiate adesso», disse Vespasiano. «Cavalli e bestie da soma sono già pronti».
Lasciarono cadere a terra i fagotti e si spogliarono rimanendo in perizoma. Sotto lo sguardo curioso di Boudicca, Catone si affrettò a ricoprirsi con una tunica pulita, infilandosi sopra la lorica. Indossò poi la pettorina, attaccò i foderi per spada e pugnale e fece per afferrare il mantello militare.
«No!», lo bloccò Vespasiano. «Quello no. Mettetevi questi», e indicò un paio di sudici mantelli marroni, logori e inzaccherati di fango. «Meglio non avere troppo l’aspetto di soldati quando entrerete nel territorio dei Durotrigi. E mettetevi questo laccio attorno alla testa».
Vespasiano consegnò loro due strisce di pelle, più ampie al centro e sottili alle estremità. «I Greci le usano per fermarsi i capelli. Il vostro taglio corto di capelli vi tradirebbe immediatamente, per cui teneteli sempre legati alla testa e alzate il cappuccio, così che da lontano dovreste riuscire a passare per una coppia di greci. E soprattutto non aprite bocca con nessuno».
«Va bene». Macrone osservò perplesso il laccio e se lo legò alla testa. Prasutago guardò Macrone mentre Boudicca sogghignava in direzione di Catone.
«Siete più convincenti nei panni di schiavi greci di quanto non siate mai stati in quelli di legionari».
«Grazie, molto gentile».
«Ne parlerete dopo», disse Vespasiano. «Adesso venite con me».
Fece un cenno a Prasutago e uscì. Poco distante da lì, erano legati a dei pali quattro cavalli con delle semplici coperte stese sulla groppa per coprire il marchio della legione. Dai loro fianchi pendevano due bisacce da sella e in un angolo c’erano un paio di cavalli più piccoli con le provviste.
«Bene, adesso fareste meglio a partire. L’ufficiale di guardia alla porta vi sta aspettando, così potrete uscire tranquillamente senza che qualche idiota si metta a dare l’allarme». Il legato li guardò un’ultima volta e diede una rapida pacca sulla spalla di Macrone. «Buona fortuna».
«Grazie, signore».
Macrone fece un respiro e sollevò una gamba sulla groppa del suo cavallo, slanciando poi tutto il corpo al di là di essa. Per un momento non riuscì quasi a trattenersi dall’imprecare, poi si sistemò meglio in groppa e si assicurò una buona presa sulle redini. Più alto di lui, Catone riuscì a montare a cavallo con un po’ più di stile.
Prasutago mormorò qualcosa a Boudicca e Macrone si voltò di scatto. «Cos’ha detto?»
«Si chiedeva se non fosse meglio che tu e il tuo optio viaggiaste a piedi».
«Ah davvero? Be’, digli che…».
«Basta, centurione!», sbottò Vespasiano. «Partite».
Il guerriero iceno e la donna montarono in sella con l’agilità data dall’abitudine e girarono i cavalli in direzione della porta dell’accampamento. Dietro di loro, Macrone e Catone diedero uno strattone alle redini degli animali da soma e li seguirono. Mentre gli zoccoli battevano sul fango congelato del sentiero, Catone si voltò per lanciare un ultimo sguardo alle sue spalle. Vespasiano, però, stava già tornando verso il tepore del suo alloggio, inghiottito velocemente dal buio.
Davanti a loro apparve la porta e, quando vi furono vicini, diedero un ordine a bassa voce. La sbarra di blocco scivolò stridendo nell’alloggiamento e un battente si aprì verso l’interno. Mentre passavano, un gruppetto di legionari li osservò in silenzio, incuriosito ma obbediente al preciso ordine di non dire una sola parola. Superato il vallo, Prasutago diede uno strattone alle redini e condusse il gruppo giù per il pendio, in direzione di quel bosco da cui qualche giorno prima erano spuntati i druidi con il prefetto della marina.
Senza elmo e scudo e fuori della confortante sicurezza del campo, Catone si sentì all’improvviso orribilmente esposto. Una sensazione peggiore di quella di andare in battaglia. Decisamente peggiore. Davanti a loro si apriva il territorio nemico. E quel nemico era diverso da qualsiasi altro avessero affrontato fino ad allora i Romani. Volgendo lo sguardo verso ovest, là dove il paesaggio era talmente scuro da fondersi quasi con la notte, Catone si chiese se erano i suoi stessi occhi a trarlo in inganno, o se invece l’oscurità fosse resa ancor più fitta dalle ombre dei druidi della Luna Nera.